J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, tr.it., Einaudi, Torino 2002
Perché la globalizzazione ha fallito la sua missione? Perché i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi? Di chi è la colpa della catastrofe argentina, della crisi russa e dei perduranti disastri del Terzo Mondo? Sono le impegnative domande con cui l’editrice Einaudi ha lanciato in Italia il libro di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia del 2001. Un testo di grande successo, avviato alla ristampa a poche settimane dalla pubblicazione.
Un libro che è certamente il caso editoriale dell’anno nel campo della scienza economica: un attacco robusto alle più importanti istituzioni del cosiddetto Washington Consensus ovvero a quell’incrocio di interessi che si è costituito negli anni Ottanta tra il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale ed il ministero del Tesoro americano. Un attacco che proviene dall’interno del sistema. A portarlo è un uomo che nel 1993 ha lasciato il mondo accademico, dove in quel momento era riconosciuto come uno dei più importanti economisti, per dedicarsi alla consulenza prima per il governo – da presidente dei consulenti economici di Bill Clinton – e poi per la Banca Mondiale, dove ha anche ricoperto il ruolo di vice-presidente senior.
L’«irrazionale» asimmetria dei mercati
Fino a quel momento Joseph Stiglitz si era dedicato all’economia teorica fornendo dei contributi in vari filoni di studio. In particolare, i suoi scritti di maggiore successo, che oggi sono strumenti fondamentali della scienza economica, hanno riguardato il ruolo delle asimmetrie informative nell’economia. Il fondamento teorico dell’economia di mercato, quella che «suggerisce» di stimolare in ogni modo la concorrenza, è il modello dell’equilibrio economico generale, che però fornisce risultati robusti solo nel caso in cui gli attori del mercato siano informati perfettamente ed in modo non asimmetrico. Stiglitz ha evidenziato come una migliore descrizione del funzionamento concreto dei mercati potesse raggiungersi tenendo esplicitamente conto del fatto che esistono asimmetrie informative, per esempio tra lavoratori e datori di lavoro. Queste asimmetrie possono determinare livelli di disoccupazione positivi, che non si riducono necessariamente con un abbassamento dei salari, come prescritto dalla teoria tradizionale.
Questo chiarimento teorico sul pensiero di Stiglitz è necessario per comprendere da dove prende le mosse il libro La globalizzazione e i suoi oppositori. Stiglitz è uno studioso delle imperfezioni dei mercati e, partendo dal modello tradizionale, ricorda, a volte anche in modo «irriverente», ai suoi colleghi economisti impegnati nelle politiche del Fondo o della Banca mondiale alcune nozioni di base dell’economia. La teoria economica ha ampiamente evidenziato come la concorrenza ed il libero mercato siano un potente strumento per la diffusione del benessere in un sistema economico ma, da Keynes in avanti, è altrettanto acquisito che in alcuni casi questi strumenti possono fallire ed allora vi è spazio per l’intervento di istituzioni che riducano i costi delle distorsioni prodotte dalla concorrenza.
La globalizzazione e il «tradimento» dello spirito di Bretton Woods
Stiglitz ricorda diffusamente come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale siano istituzioni nate per sanare i potenziali fallimenti di mercato in un’ottica globale. Il Fondo monetario internazionale, un’istituzione pensata dallo stesso Keynes, aveva come scopo principale quello di fornire liquidità ai paesi in crisi allo scopo di non provocare ripercussioni sul sistema internazionale dei problemi di un singolo paese. Un compito simile era stato affidato alla Banca mondiale rispetto ai problemi dello sviluppo e della povertà. Il tradimento dello spirito originario di queste due istituzioni è al centro del libro di Stiglitz che, per questi motivi, sembra sposare le conclusioni del popolo dei no global, utilizzando però il materiale proprio di un economista e, per giunta, fortemente integrato nel lavoro di quelle istituzioni. Stiglitz ha infatti lasciato la Banca mondiale solo nel 2000, sbattendo la porta sulla gestione della crisi asiatica.
Il libro è diventato un caso perché Stiglitz lo ha costruito chiamando a raccolta teorie economiche ed economisti che hanno chiarito in modo robusto un principio fondamentale: il libero mercato non può essere solo un fine in sé. Esistono delle situazioni nelle quali la gradualità degli interventi per introdurre le condizioni di funzionamento normali di un’economia di mercato è la ricetta più appropriata per ottenere risultati efficienti. In questo senso, Stiglitz non è un no global. Egli riconosce un ruolo fondamentale al processo di globalizzazione. Un’economia mondiale più integrata apporta dei vantaggi in termini di diffusione del benessere. Ciò nonostante, il processo di transizione verso l’integrazione di un’economia nazionale debole nell’economia mondiale deve essere necessariamente lento e deve tenere conto dei rischi dell’integrazione. La liberalizzazione dei mercati e l’introduzione della concorrenza possono mettere in crisi i sistemi economici nazionali dei paesi deboli, in particolare di quelli più poveri e, quindi, la loro introduzione deve tenere conto dei costi connessi ad un processo di riforma troppo veloce. Solo quando un’economia povera si è rafforzata sufficientemente, potrà confrontarsi con la dura concorrenza internazionale.
In sintesi, la gestione delle politiche che integrano un’economia nazionale in quella mondiale deve essere attenta agli effetti interni, in particolare quelli sui più poveri. Non vi è efficienza nel creare grandi costi sociali per imporre un modello economico pre-costituito che si pensa debba funzionare «sempre» e «comunque». Questa visione «ottusa» del funzionamento delle economie in via di sviluppo è alla base della critica di Stiglitz.
Ridisegnare le politiche di sviluppo economico-finanziario
L’interesse mondiale del libro nasce anche dal fatto che Joseph Stiglitz, pur citando una lunga schiera di economisti impegnati in questi anni a dimostrare la rilevanza del ruolo dello Stato nell’economia, si è apertamente scontrato con altri suoi colleghi che lo hanno accusato di superficialità ed approssimazione. Al contrario, il libro è un’accurata ricostruzione dei fatti più rilevanti delle recenti politiche per lo sviluppo. Un focus particolare è dedicato alla Russia e alla crisi del Sud-est asiatico, ma l’evidenza empirica si riferisce anche alle politiche per l’Africa e per il continente sudamericano. Il libro è in questo senso una sfida aperta di Stiglitz all’attuale establishment del Washington Consensus. Si propone un processo di riforma del Fondo monetario internazionale ma anche di altri strumenti fondamentali della globalizzazione come l’Organizzazione mondiale del commercio, e riprende questioni importanti quali la cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo.
La globalizzazione e i suoi sostenitori è un libro da leggere. Esso sarà uno strumento potente per la crescita culturale del movimento no global, citato meritoriamente da Stiglitz sin dalle prime pagine del libro attraverso il ricordo di Carlo Giuliani, proprio perché non si nega il potenziale positivo della globalizzazione (cosa c’è di più globale del movimento no global?). Nel libro, piuttosto, si dimostra come le concrete azioni delle istituzioni sovranazionali debbano essere controllate continuamente e criticate con strumenti scientifici adatti. Inoltre, a nostro parere, Joseph Stiglitz fornisce materiale per irrobustire non solo il fronte no global, ma soprattutto l’azione per la riforma (politica) delle istituzioni sovranazionali che non hanno funzionato in molti dei contesti critici dell’economia mondiale.
Questa riforma non sembra però essere sull’agenda dei governi del mondo ricco.
