Le partite chiave per far ripartire l’Italia
Comunque ce la voglia raccontare il governo che ha retto le sorti dell’Italia dal 2001 fino al mese scorso, la performance economica nell’ultimo quinquennio è stata poco meno che disastrosa. In un periodo di vigorosa crescita dell’economia mondiale, trainata dai produttori asiatici e dai consumatori americani, l’Italia è riuscita ad avanzare meno di chiunque altro in un’Europa anch’essa poco dinamica. Se le responsabilità della crescita italiana fossero state esclusivamente affidate all’industria e in particolare a quella manifatturiera, si potrebbe parlare di disfatta. I dati che la Banca d’Italia ci ha fornito, come ogni anno, nella sua Relazione, non lasciano adito a dubbi. La produzione nella gran parte dei settori manifatturieri, se si esclude l’energia, è nell’ultimo lustro severamente diminuita. E’ un comportamento che gli italiani non sono abituati ad aspettarsi dalle proprie industrie, alle quali sanno di dovere la trasformazione del nostro paese negli ultimi cento anni e in particolare negli ultimi cinquanta da terra decaduta esportatrice di povere merci primarie, in una nazione a economia sviluppata, capace di fornire ai suoi cittadini un reddito procapite assai simile a quello di Francia e Germania e di produrre beni complessi.
Una nazione capace perfino di assorbire immigrati dai paesi poveri dell’ Europa e del mondo. Eppure è così. Il male oscuro della industria italiana è il declino, in termini assoluti, della sua produttività. I dati della nostra banca centrale, resi pubblici il 31 maggio, mostrano infatti che il prodotto procapite degli addetti ai servizi è nel nostro paese aumentato, negli ultimi cinque anni, anche se in maniera esigua. Al contrario, il prodotto procapite nell’industria manifatturiera si è, nello stesso periodo, ridotto.
La produzione è scesa in termini assoluti, per riduzione della domanda interna ed estera. E a tale riduzione non ne è seguita una equivalente degli occupati nell’industria. Essi sono diminuiti, ma non quanto il crollo della produzione avrebbe richiesto. Un comportamento assai poco thatcheriano, da parte di imprenditori che si dichiarano esposti alla concorrenza internazionale e guidati solo dalla necessità di adeguarsi ai suoi rigori. Né sembra che il governo cosiddetto liberista del cavalier Berlusconi abbia fatto molto per spronare gli imprenditori a seguire le regole del mercato.
Gli imprenditori italiani sembrano invece aver richiesto e ottenuto dal governo, la facoltà di sostituire forza lavoro stabile e ben pagata con forza lavoro precaria e più giovane, e quindi pagata meno. Riducendo in questo modo i costi e ovviamente mantenendo elevati i prezzi, rispetto ai concorrenti stranieri, le imprese italiane sono riuscite ad ottenere un risultato brillante: negli ultimi cinque anni la quota dei profitti lordi nel settore privato è stata in Italia costantemente più elevata che in Germania, Spagna, Francia e nell’intera area dell’euro. Questo indica la relazione della Banca d’Italia a p.108. Naturalmente, si è pagato un prezzo: il calo sensibile della quota delle esportazioni italiane sul totale mondiale e, all’interno del paese, la dinamica negativa di molte categorie di consumi. Per fortuna, si fa per dire, nei conti economici nazionali l’industria italiana conta solo per meno del trenta per cento. Così la performance meno disastrosa dei servizi e dell’agricoltura ci ha messo al riparo da peggiori conseguenze. Ma neanche tutti i tipi di servizi hanno mostrato incrementi di produttività del lavoro: commercio, alberghi e ristoranti indica la Banca d’Italia hanno esibito anch’essi una dinamica negativa. E lo stesso è stato vero dei servizi alle imprese. Anche nel settore delle costruzioni si è registrato un calo assoluto.
Siamo quindi restati assai lontani dagli aumenti di produttività dei servizi registrati negli Stati Uniti ma anche in Germania. Ed è prova che, anche in questo settore, non c’è molta tecnologia e nemmeno molta concorrenza.
Secondo gli imprenditori, il calo di produttività del quale si è appena detto dipende dalle disastrose condizioni di competitività ed efficienza che prevalgono nella pubblica amministrazione, nei settori che forniscono servizi di pubblica utilità, nelle condizioni precarie in cui versano le più importanti reti infrastrutturali del nostro paese.
Chiunque viaggi per l’Europa sa che queste lagnanze sono molto fondate. Ma la loro ragionevolezza non basta a risparmiare agli imprenditori italiani una critica semplice ma cogente. Perché, quando è divenuto difficile reggere la concorrenza estera, non hanno sacrificato la quota dei profitti lordi, come sembra, dai dati Bankitalia, abbiano fatto invece i loro concorrenti europei, e hanno invece preferito mantenere i prezzi e sacrificare quote di mercato? E perché non hanno adeguato l’occupazione alla riduzione delle vendite? Questo dipendeva solo da loro. Dar risposta a questi interrogativi è indispensabile se si vuole essere in grado, com’è richiesto al nuovo governo italiano in questi giorni, di pianificare una strategia economica che permetta al nostro paese di tornare a crescere, come ha autorevolmente auspicato il governatore Draghi il 31 maggio. Supponiamo, infatti, che il governo accetti la diagnosi degli imprenditori, e li indennizzi in parte dei maggiori costi cui dicono di essere esposti per l’inefficienza del "sistema paese" concedendo loro una riduzione del cuneo fiscale di alcuni punti percentuali. Questo servirà a ridurre le loro difficoltà, ma certo non basterà a convincerli ad accettare la concorrenza sacrificando i propri prezzi per riconquistare quote di mercato. Se insistono nel voler mantenere la quota dei profitti più elevata che negli altri paesi dell’euro, e restano immutate le condizioni di concorrenza estera, tra un anno o due il governo dovrà dar loro qualche altra riduzione del cuneo fiscale.O, almeno, dovrà riuscire a convincere coloro che producono servizi privati o beni di interesse pubblico in condizioni di semi monopolio, a ridurre i propri prezzi e con essi i propri profitti, allo scopo di redistribuire parte di essi agli imprenditori che operano in condizioni di elevata concorrenza internazionale.A ben guardare, la soluzione adottata in anni recenti dagli imprenditori italiani rassomiglia molto a quella cui ricorsero i loro antenati nel secolo del grande declino italiano, il seicento, quando reagirono alla concorrenza angloolandese alzando i prezzi dei loro prodotti e riducendo la produzione, mentre le corporazioni razionavano l’occupazione e la distribuivano ai figli dei propri associati mettendo rigide barriere all’entrata dei mestieri e regolamentando i tempi e i modi del lavoro. Si sostituiscono lavoratori ben pagati con lavoratori precari senza ridurre gli input di lavoro ma riducendone i costi diretti, si mettono i lavoratori espulsi in carico agli enti previdenziali, cioè alla società nel suo complesso. Questo equivale a pulire la stanza mettendo la spazzatura sotto il tappeto.Il governo uscente ha due colpe gravi: ha rimesso indietro l’orologio del risanamento della finanza pubblica, azzerando quanto avevano fatto i suoi predecessori in un decennio di sangue sudore e lacrime. E, non potendo distribuire nuova ricchezza, che la nostra economia non ha prodotto nel quinquennio, ha permesso alle categorie forti di schiacciare quelle deboli, prendendo loro parte del reddito e del patrimonio mediante l’aumento dei prezzi relativi di quel che esse producono e vendono. É chiaro che il nuovo governo dovrà dedicarsi ad un nuovo radicale restauro della finanza pubblica. Ed è bene che lo faccia seguendo le indicazioni della finanziaria di Tremonti, perché essa è stata rumorosamente approvata qualche mese fa dalla Commissione europea di Almunia e Barroso, la stessa che tanta burbanza sembra mostrare verso i propositi di Prodi e Padoa Schioppa.Ma, fosse solo per il monito che viene dalle limpide pagine delle considerazioni del governatore Draghi, è altrettanto chiaro che la vera priorità del governo resta quella di riportare la nostra economia a un tasso di crescita decente, di almeno il due per cento annuo, sostenuto per cinque anni. Ne abbiamo bisogno proprio per i motivi indicati da Draghi il 31 maggio. Dobbiamo infatti far compiere all’economia italiana una transizione profonda, che la porti di nuovo, e prima che diventi troppo tardi, tra i paesi del centro del mondo. Ho già detto che nei cento anni in cui la prima transizione dalla periferia al centro ebbe luogo il motore principale di essa fu l’industria, che poté usare un capitale umano di prima qualità, costruito non solo, nel centro nord del paese, da mille anni di grande civiltà contadina e urbana, ma in tutto il paese, da cent’anni di scuola elementare pubblica di massa e da cinquant’anni di scuole secondarie di élite, come erano non solo i licei, ma anche gli istituti commerciali, per geometri e per periti industriali. Ad essi faceva da vertice una pattuglia di tecnici di valore, formatisi in università la cui qualità era assicurata dal ridotto numero dei frequentanti e dalle capacità dei docenti, pochi e severamente selezionati. Il livello di questo capitale umano è stato fortemente ridotto dal clamoroso fallimento dell’estensione a tutta la popolazione giovanile dell’educazione secondaria e universitaria negli ultimi trent’anni. Non siamo stati capaci di aumentare la quantità mantenendo invariata la qualità. Perché, come Alessandro Cavalli lucidamente spiega sull’ultimo numero de "Il Mulino", la nostra classe dirigente ha voluto estendere il privilegio di pochi a tutta la popolazione. Ha voluto fare l’educazione d’élite per le masse. Generoso o forse solo demagogico, ma certo inane, intento, che ha portato al clamoroso fallimento dell’esperimento. Il risultato è davanti agli occhi di tutti , corroborato dai dati delle indagini dell’OCSE, che io stesso avevo nel recente passato commentato su queste pagine e che Draghi ha voluto meritoriamente ed autorevolmente riproporre nelle sue considerazioni finali. Il nuovo governo può approfittare del ritorno dell’Europa, e anche dell’Italia, a un tasso di crescita decente non solo per spalmare su un periodo più lungo la sua ineludibile opera di risanamento finanziario, ma per lanciare una grande operazione di ricostruzione del sistema educativo, che renda possibile la nuova transizione dell’Italia verso il centro dell’economia mondiale. Credo che coloro che sono stati messi a capo dei ministeri che devono essere protagonisti dell’operazione siano, per fortuna, all’altezza del compito. Ma essi devono essere forniti dei mezzi che sono necessari per raggiungere un obiettivo assolutamente prioritario e, grazie a Dio, indicato come tale anche dal governatore Draghi, che conosce personalmente sia il problema che le soluzioni ad esso date in realtà nazionali più sollecite della nostra ad affrontarlo.Solo potendo nuovamente disporre di un capitale umano del livello di quello che ci permise di arrivare in cento anni al centro dell’economia mondiale, possiamo evitare di essere risospinti alla periferia di essa, come sta già accadendo. Questo ci sarà indispensabile sia per modernizzzare la nostra industria, che deve restare al centro del nostro sistema economico ancora per parecchi decenni, sia per far crescere in qualità il settore dei servizi, dal quale deve venire il maggiore slancio.
