Riprendere il cammino: il Vaticano II e il postconcilio

A quarant’anni dalla celebrazione del concilio Vaticano II è forse possibile tentare di tracciare il cammino percorso.
Si può accettare l’idea che il concilio Vaticano II abbia voluto completare il concilio Vaticano I, notoriamente interrotto nel 1870 con la presa di Roma da parte delle truppe italiane.
I lavori, progettati su tutta la Chiesa, vennero forzatamente sospesi sul capitolo del papato, frettolosamente concluso, che rimase perciò solitario e sbilanciato, perché privo del suo naturale completamento, consistente nell’episcopato e nel popolo cristiano, le altre due entità costitutive della Chiesa visibile.
La ripresa del concilio Vaticano II fu radicale: affrontò il problema della Chiesa non come semplicemente da completare, ma come fosse completamente nuovo; e ben a ragione, perché a distanza di quasi un secolo, rotto da due guerre mondiali, i tempi erano cambiati. Così le quattro costituzioni, tra i sedici testi emanati dal Concilio, vennero riassunte, per la verità un po’ disinvoltamente, dal Sinodo dei vescovi che ha celebrato il ventennio del Concilio (1985), nell’unico tema della Chiesa.


La Chiesa «popolo di Dio»

Ma come il Concilio ha inteso la Chiesa?
Immediatamente dopo il Concilio, una fitta letteratura l’ha compresa come passaggio da una nozione esclusivamente istituzionale e visibile, quale era nata al concilio di Trento, in opposizione diretta al protestantesimo e giunta immutata al concilio Vaticano I, a una nozione nella quale l’aspetto istituzionale è nettamente declassato, come «secondario» e «derivato» dall’aspetto soprannaturale e mistico.
In realtà questa lettura del Vaticano II a noi sembra dubbia e contestabile.1 Riteniamo derivi prossimamente dall’enciclica Mystici corporis (1943), effettivamente ricorrente nelle discussioni immediatamente preconciliari, ma non rispondente al testo conciliare della Lumen gentium che, dopo aver dichiarato la Chiesa «mistero» (c. I) ed enunciato le varie sue immagini, tutte complementari, nelle quali si esprime, compresa quella privilegiata di «corpo di Cristo», nel c. II, quasi chiamata a dire chi è la Chiesa, enuncia chiaramente: la Chiesa è «il popolo di Dio».
È il risultato – dicono gli storici della costituzione – soprattutto del cosiddetto «schema belga», introdotto dal redattore Philips e sostenuto dal card. Suenens.
Importa sottolineare che c’è un’intenzionalità scoperta in questa «quasi definizione»2 della Chiesa: se ne vuole affermare la caratteristica di «soggetto storico», cioè di entità presente nella storia e che agisce nella storia, camminando con costante attualità nella storia; entità che viene in qualche modo più ampiamente esplicitata – si può dire – nella seconda costituzione ecclesiologica emanata dal Concilio, la Gaudium et spes. La coerenza di questa visione della Chiesa con il contesto culturale è fuori discussione e costituisce un’ulteriore ragione di credibilità e raccomandazione per la nozione. In altri termini «popolo di Dio», nel quale rientrano tutte le realtà costitutive della Chiesa – papato, episcopato, semplici cristiani –, si pone come la manifestazione terrena e quindi storica del mistero della Chiesa, alla quale dev’essere coerentemente riconosciuta un’essenza sovrastorica.
Per la verità, la nozione di «popolo di Dio» non ebbe esistenza facile, né soprattutto lunga, nel postconcilio.
In premessa è da rilevare che essa non si è conclusa in una vicenda puramente teorica, ma si è intrecciata strettamente con la vicenda storico-pratica del postconcilio, che comprensibilmente si è sviluppato non in modo lineare, ma attraversando varie fasi. Su questa premessa ci sembra di poter dire che la categoria di «popolo di Dio» dominò quasi sovrana nel primo decennio del postconcilio, propriamente – diremmo – fino all’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi o poco dopo, l’esortazione dove si legge che la Chiesa è «popolo di Dio immerso nel mondo» (EN 15; EV 5/1605),3 quasi a sottolineare la sua vocazione «storica».
La Evangelii nuntiandi ha chiuso il sinodo del 1974 che, riprendendo il sinodo del 1971, ha dibattuto il tema De evangelizatione huius temporis, suggerito personalmente dal papa Paolo VI. È certo un sinodo da ricordare, nonostante non sia arrivato a una conclusione felice. È da ricordare perché ha affrontato coraggiosamente un problema inedito, sollevato dalla nuova cultura, specie del terzo mondo: il problema della promozione/liberazione dell’uomo.
La Evangelii nuntiandi4 è stata chiamata a concludere il sinodo dei vescovi, irrimediabilmente spaccato su due linee contrapposte, quella che intendeva l’evangelizzazione nel modo tradizionale dell’Europa e quella che la intendeva nel modo abbastanza innovativo dei vescovi del terzo mondo. Incapace di risanare la spaccatura, il sinodo ha dovuto ricorrere al papa. La Evangelii nuntiandi ha risolto il problema unificando due tematiche che fino ad allora avevano avuto corsi paralleli, ma irrelati: l’evangelizzazione e la promozione/liberazione dell’uomo. L’ha fatto accorpando la promozione/liberazione all’evangelizzazione, dichiarandola come suo oggetto secondario, perché «la Chiesa non accetta di circoscrivere la propria missione al solo campo religioso», anche se ovviamente «non identifica giammai liberazione umana e salvezza in Gesù Cristo» (EN 34.35; EV 5/1626.1627).
Purtroppo l’Evangelii nuntiandi ebbe vita breve. Stupisce non poco, anche perché la sua importanza era stata avvertita da Giovanni Paolo II, che l’ha definita «quasi somma di pensiero e di indicazioni apostoliche, scaturite dal magistero conciliare e dalla continua esperienza della Chiesa».5 Per la verità si era nei primi mesi del suo pontificato. Ad ogni modo, presto, forse in concomitanza con la nozione di «popolo di Dio», cadde in oblio.
Né si può dire che venne validamente sostituita e compensata dai due decreti, emanati a distanza ravvicinata (1984 e 1986) dalla Congregazione per la dottrina della fede a condanna della «teologia della liberazione»,6 per la verità vivacemente criticati (soprattutto il primo) non solo dai teologi della liberazione ma anche dal card. Lorscheider. Benché queste due prese di posizione del magistero (l’esortazione apostolica e i due decreti della Congregazione) per qualche allusione possano richiamarsi, non è pensabile il confronto, perché non si dà confronto fra un tentativo di ripresa costruttiva ampia e serena del tutto (l’evangelizzazione) e la polemica diretta per un problema particolare (la teologia della liberazione, o più precisamente alcuni teologi della liberazione, innominati).
Effettivamente, e un po’ più generosamente, Ratzinger distingue il postconcilio in due periodi: il primo negativo e il secondo positivo (prima che anche questo – impostato sulla Chiesa «comunione» – si corrompa perdendo il riferimento immediato che la «comunione» ha con Dio). Solo il primo, che spinge fino al 1985,7 si è svolto sotto il segno della categoria «popolo di Dio», dove però il termine «popolo» venne assai presto compreso a partire dal suo uso politico corrente, imposto dall’ideologia marxista, allora egemone, come contrapposizione alle classi dominanti, quindi nel senso della sovranità del popolo, che finalmente sarebbe da introdurre anche nella Chiesa, a contestarne il verticismo.
Si ebbe così un postconcilio tendenzialmente selvaggio che, ritenendo ingenuamente o strumentalmente di potersi alimentare all’eredità di D. Bonhoeffer, allora divenuto un best-seller, professava il disinteresse assoluto per tutte le questioni della Chiesa, sostenendo che la salvezza dell’uomo dovesse cercarsi non nella Chiesa, visibile o invisibile, ma nella secolarità del mondo.
 Si comprende la necessità e l’urgenza di interventi correttivi, se non allarmati, da parte del magistero della Chiesa, depositaria del senso esatto del linguaggio conciliare. Di fatto venne la doverosa reazione. Prese corpo, appunto come dice Ratzinger, nel 1985 col sinodo straordinario del ventennio.


Il sinodo del 1985 e la Chiesa «comunione»

Il sinodo si tenne in un tempo diverso dal Concilio. Gli anni sessanta – il tempo del Concilio – passano alla storia come «gli anni d’oro»,8 perché, venuti dopo gli anni della guerra fredda, segnarono un’epoca di straordinario ottimismo, non solo politico ma anche economico, in tutti i paesi. Quest’epoca s’interrompe bruscamente alla fine degli anni sessanta. Nel 1968 scoppia la contestazione studentesca, ancora da comprendere nelle sue motivazioni profonde, ma in ogni caso diretta contro i metodi autoritari in tutti i campi. E nel 1970 si profila la crisi economica: nasce la società «postindustriale e postmoderna» e incomincia un’epoca nuova che mette in crisi l’ottimismo alimentato dall’idea del «progresso senza limiti» degli anni precedenti (Horkheimer e Adorno). Anche la Chiesa, che al tempo del Concilio aveva condiviso l’epoca dell’ottimismo, ne è scossa. Prende voce la minoranza che aveva avversato il Concilio, attribuendogli di essere la causa dell’attuale disorientamento postconciliare. 
Il sinodo era stato annunciato da Giovanni Paolo II all’inizio del 1985. Si tenne a Roma dal 24 novembre all’8 dicembre.
Il segretario del sinodo, W. Kasper, lo presenta come atto voluto dal papa per avviare una nuova fase del periodo postconciliare, dopo le due precedenti, che qualifica rispettivamente come fase «dell’entusiasmo» (la prima) e come fase del «disincantamento» (la seconda).9 Il sinodo doveva quindi liberare dal disincantamento e rilanciare il Concilio, in occasione del suo ventennio. Effettivamente iniziò con un momento celebrativo, affidato al card. Garrone (Tolosa), uno dei più autorevoli sopravvissuti al Concilio, ormai ridotti a un terzo, che ne fece una rievocazione appassionata. Ma questo momento celebrativo si concluse subito, e quindi restò come un brillante solitario o come hapax legomenon. Subito il sinodo iniziò il suo cammino, che – sembra doversi dire – fu di ripensamento del Concilio, più che di celebrazione.
Venne saldamente guidato dal card. Danneels (Malines-Bruxelles), il relatore ufficiale nominato dal papa. Nella sua relazione egli registra «luci e ombre» nell’accettazione del Concilio, insistendo, per le ombre, su «una lettura parziale» e «un’interpretazione superficiale», auspicandone conseguentemente «una conoscenza più ampia e più profonda» che comporti «la sua assimilazione interiore, la sua riaffermazione amorosa e la sua attuazione». Allo scopo suggerisce di assumere le costituzioni del Concilio, componendole in quattro capitoli: 1) il mistero della Chiesa; 2) le fonti di cui vive la Chiesa; 3) la Chiesa come comunione; 4) la missione della Chiesa nel mondo.
È evidente l’intenzionalità di questo schema. Intende unificare l’insegnamento del Concilio intorno al «mistero» della Chiesa, assegnando (e quindi parificando) le costituzioni Sacrosanctum concilium (approvata nella prima sessione, 4.12.1963) e Dei verbum (approvata nell’ultima sessione, 18.11.1965) come fonti della Chiesa (ma evidentemente penalizzando con questa riduzione la Dei verbum), la quale è da intendere come «mistero e comunione», ma soprattutto «comunione», in alternativa a «popolo di Dio», che evidentemente è da cancellare.
Benché Ratzinger riconosca che «la parola comunione nel Concilio non ha una posizione centrale»,10 il sinodo, nella sua relazione finale, la giustifica, affermando che essa è «l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio»; aggiungendo che «perciò molto è stato fatto dal concilio Vaticano II perché la Chiesa come comunione fosse più chiaramente intesa e concretamente tradotta nella vita».11
 Se dobbiamo accettare la prima parte dall’affermazione, in quanto presenta la «comunione» non riferendosi esclusivamente alla Lumen gentium, ma aprendo la considerazione a tutti i testi conciliari; nella seconda parte dobbiamo però precisare, a scanso di equivoci, che non il Concilio, ma il postconcilio ha valorizzato la nozione di «comunione», spingendola progressivamente fino a mettere in ombra la nozione alternativa di «popolo di Dio». Infatti, dicono gli storici della costituzione, il Concilio, al momento della redazione, fu fermo sulla qualifica di «popolo di Dio», contro quelli che avrebbero preferito sostituirla con «comunione».
Come risultato conclusivo resta quindi che il sinodo 1985 ritiene di qualificare la Chiesa come «comunione», cancellando silenziosamente ma impietosamente la qualifica di «popolo di Dio».


Un cambiamento radicale di prospettiva

Superfluo precisare che la differenza non è solo questione di nomi; progressivamente si rivela sempre più questione di prospettiva, perché la prospettiva «storica», legata alla qualifica di «popolo di Dio», si spegne nella qualifica di «comunione». È infatti evidente che, mentre la Chiesa «popolo di Dio» si dichiara aperta in costante attenzione alla storia, la Chiesa «comunione» sembra raccogliersi in se stessa e chiudersi nei suoi problemi di assestamento interno.
 Di più, se il sinodo, per la questione del rapporto Chiesa-storia, ha mantenuto la seconda costituzione ecclesiologica, la Gaudium et spes, è da richiamare che questa, a partire dal Concilio stesso che la presenta come costituzione «pastorale» (non «dottrinale»), nel postconcilio è apparsa quasi da sottovalutare e di minore interesse. In ogni modo è certo dannoso il dualismo che si introduce nella Chiesa, quando essa viene intesa in senso dogmatico, a prescindere dal suo carattere storico, che viene riconosciuto solo quando la si considera nel suo senso «pastorale».
D’altra parte è da riconoscere che la qualifica di «popolo di Dio», facile preda del degrado sociologico, esigeva una tutela e una correzione. In realtà, invece di una correzione, si è provveduto in modo radicale con la cancellazione, contro la quale ha preso posizione, abbastanza recentemente, in occasione del convegno preparatorio al giubileo, anche H. Pottmeyer,12 dichiarando che i due concetti – «popolo di Dio» e «comunione» – sono entrambi necessari, perché «si illuminano reciprocamente». A mio modesto avviso, sarebbe stato preferibile mantenere la nozione originaria del Concilio, con la sua pregnanza «storica», denunciandone e rifiutandone tutte le interpretazioni scorrette e quindi precisandola nel suo significato autentico.
Evidentemente la sostituzione col termine «comunione» ne ha imposto la chiarificazione, se non la definizione. Ma questa si è rivelata impresa non facile.
Pregiudizialmente si è dovuto riconoscerne la «complessità».13 Di fatto si riuscì solo a precisarla per i suoi aspetti soprannaturali, cioè come «comunione» con la Trinità che – afferma il sinodo – si ha «nella parola di Dio e nei sacramenti», citando, per i sacramenti, la costituzione Lumen gentium, dove si afferma che l’eucaristia è «la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana» (LG 11; EV 1/313) e quindi produce – dice sempre il sinodo – «l’intima comunione (sottolineatura mia) di tutti i fedeli nel corpo di Cristo che è la Chiesa»;14 per la verità, correggendo la citazione di LG 11, che ha: «cibandosi del corpo di Cristo (…) mostrano concretamente l’unità del popolo di Dio».15
All’unità di fede e di sacramenti, il sinodo ha però dovuto aggiungere l’unità gerarchica, «specialmente (…) nel servizio di Pietro»; ponendo la «comunione» come «fondamento sacramentale della collegialità».16 La collegialità si può quindi definire come il «prolungamento» sul piano storico, visibile della comunione.
Il tema della «collegialità», sotto un certo aspetto, può considerarsi la novità del Concilio. Avendo definito la sacramentalità dell’ordinazione episcopale (cf. LG c. III),17 il Concilio veniva ad affermare la comunione sacramentale tra il papa e i vescovi, cioè tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, recuperate nella loro pienezza (LG c. III, 26-27),18 introducendo così la svolta epocale che restituisce alla Chiesa il volto sacramentale del primo millennio della sua storia, dimettendo il volto semplicemente giuridico, caratterizzato dalla giurisdizione, del suo secondo millennio. È questa la grande novità del Vaticano II, evidentemente da completare, specie con la determinazione della comunione gerarchica, ma collegiale e non monocratica.
La questione era stata dibattuta nella discussione del c. III della Lumen gentium, poi vivacizzata sino alla drammaticità dalla famosa Nota praevia, sovrapposta d’autorità al testo conciliare già approvato.19 Il dibattito ha coinvolto chiaramente il tema della collegialità, senza però riuscire a portarlo a una soluzione definitiva; così che fu necessario demandarlo ai sinodi che Paolo VI avrebbe creato (motu proprio Apostolica sollicitudo, 15.9.1965) per l’attuazione del Concilio.
Effettivamente il secondo sinodo (11-28.10.1969) affrontò il problema, ma anche questa volta senza portarlo a termine, per l’impossibilità di trovare l’accordo tra i padri sinodali. Il problema passò quindi al sinodo del ventennio (1985).
Dopo aver affermato la «comunione» soprannaturale della Chiesa, procedendo a indicarne la necessaria visibilizzazione sul piano della «storicità» e quindi a tradurla nella «collegialità», il sinodo si limitò a richiamarne il principio generale e a ripetere la Nota praevia: il principio generale che «la teologia della collegialità è molto più estesa del suo aspetto giuridico» perché lo spirito collegiale è «l’anima della collaborazione tra i vescovi», in tutti i campi, «regionale, nazionale e internazionale»; e la Nota praevia che aveva già insegnato che «la distinzione non è tra il romano pontefice e i vescovi presi insieme (e quindi eventualmente a lui contrapposti; nda), ma tra il romano pontefice separatamente e il romano pontefice insieme coi vescovi», perché «il collegio (episcopale) non si dà senza il capo» (EV 1/453).
Così la «comunione» della Chiesa, anziché visibilizzarsi nel vertice, secondo la svolta «sacramentale» del nuovo millennio, inaugurato dal Concilio, si riversò esclusivamente sul «corpo» dalla Chiesa, fortemente richiamata all’interiorizzazione e alla santità. Naturalmente suonò come ulteriore invito a fissarsi sui problemi propri della vita spirituale, chiusi nella Chiesa, disattendendo quelli suggeriti dalla storia.


La nuova evangelizzazione

Piccola appendice al sinodo del ventennio può considerarsi la lettera inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi «su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione» (28.5.1992)20 (evidenziata nella sua caratteristica di «comunione», anche nel titolo), che mostra l’insistente concentrazione sui problemi interni della Chiesa.
La lettera, che – nota Ratzinger – ebbe «una gragnuola di critiche»,21 presenta cinque punti: 1) la centralità del concetto di «comunione», che viene ribadita; 2) viene completata la formula del Vaticano II sul rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari, aggiungendo all’affermazione «Ecclesia (universale) in et ex Ecclesiis» (particolari) del Concilio (cf. LG 23), la precisazione «Ecclesiae (particolari) in et ex Ecclesia» (universale), perché c’è un mutuo rapporto tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, e occorre quindi precisarne la reciproca immanenza; 3) conseguentemente si precisa anche, contro i possibili abusi, che i fondamenti della comunione tra le Chiese, oltre al battesimo, sono anche l’eucaristia e l’episcopato; 4-5) infine si richiamano le norme per istituire in modo corretto l’unità e la diversità della comunione ecclesiale e per l’ecumenismo.
Così il postconcilio è arrivato alla fine del secolo, quando si celebrò la II Assemblea speciale per l’Europa del sinodo dei vescovi, a Roma, nel 1999 (1-23.10).
Questo sinodo è stato preceduto dall’assemblea speciale per l’Europa del 1991 (28.11-14.12), voluta da papa Giovanni Paolo II per celebrare il crollo del muro di Berlino, avvenuto nel 1989, simbolo della caduta del comunismo. Trasparentemente il tema del primo sinodo per l’Europa era stato: «Testimoni di Cristo che ci ha liberato». Il messaggio finale, che sembra essere il documento più importante, ha un’introduzione per spiegare che il sinodo è stato voluto dal papa per riflettere coi vescovi d’Europa sull’importanza e le conseguenze di questo avvenimento storico, e propone la «nuova evangelizzazione» come il tema che deve polarizzare l’Europa cristiana.
Il tema della «nuova evangelizzazione», sulla cui origine si ha qualche incertezza, a partire dagli anni ottanta ricorre spesso negli interventi di papa Giovanni Paolo II e ritorna nel sinodo del 1991, sovrapponendosi al Concilio, come fosse la nuova parola d’ordine trasmessa ai cristiani; un aggiornamento che si può ritenere comprensibile perché il Concilio si era tenuto in un’Europa diversa, propriamente nell’Europa sostanzialmente solo occidentale.
La «nuova evangelizzazione» viene specificata in due obiettivi: religioso e sociale. Per l’aspetto propriamente religioso s’intende recuperare le radici religiose dell’Europa, di tutta l’Europa, compresa l’Europa orientale, al di là dell’immanentismo (ateismo pratico lasciato in eredità dal comunismo), per «impiantare» la Chiesa, senza precisare se cattolica o/e ortodossa. Per l’aspetto sociale si propone, dopo il crollo del comunismo, almeno sulla lunga distanza, la dottrina sociale cristiana.
L’impressione generale è che questo evento non abbia avuto una grande risonanza. Fu un sinodo concluso in tono piuttosto minore. Forse perché le Chiese ortodosse avevano declinato l’invito a parteciparvi; anzi si erano raccolte in un loro sinodo a Mosca, che aprì una polemica con la Chiesa di Roma.


Il sinodo del 1999

Il sinodo di fine secolo che si celebrò a Roma nel 1999 ebbe per tema: «Gesù Cristo vivente nella sua Chiesa sorgente di speranza per l’Europa».
La relazione che, dopo la prima discussione assembleare, fu redatta dal card. A.M. Rouco Varela (Madrid), si presenta divisa in due parti: la prima è intitolata «Per un esame di coscienza sullo stato della società (l’Europa) e della Chiesa»; la seconda, «Iniziative per la nuova evangelizzazione dell’Europa».22 Per il tema della «nuova evangelizzazione», evidentemente indotto dal sinodo del 1991, propone un po’ genericamente il rinnovamento:
 1. della martyria, o ministero della Parola,
 2. della leitourgia, o ministero della santificazione,
 3. della diakonia, o ministero della carità.
 I tre punti dicono, per contrasto, anche la materia per l’esame di coscienza sulla Chiesa; mentre per la società emerge dalla discussione il rilievo ricorrente del secolarismo. L’impressione è che questa griglia non sia riuscita a dominare e pilotare gli interventi dell’assemblea, che conseguentemente si smarrì, vagando nel dibattito.
Il «messaggio» finale era evidentemente d’obbligo. Diceva in tre punti: 1. La speranza è possibile in Cristo, vera speranza dell’uomo e della storia. 2. Ringraziamo Dio per i segni di speranza nella Chiesa e nell’Europa. 3. Preghiamo insieme per l’Europa e per il mondo.
 Impossibile non essere consenzienti. Invece il dibattito riuscì piuttosto frammentario e difficoltoso. Ci limitiamo a registrarne, un po’ casualmente, alcuni interventi.23
Tralascio quelli generici e quindi ripetitivi; e quelli suggeriti dalle funzioni responsabilmente svolte dai padri sinodali intervenuti in difesa delle rispettive attività: ad esempio dell’attività diplomatica della Santa Sede, o dell’azione per le Chiese orientali, o per una Chiesa particolare, o anche per delle attività specifiche, come per la teologia (Lustiger, Parigi) con un intervento nel quale si auspica che la teologia si riporti ai tempi di san Bonaventura e di san Tommaso, o del Seicento mistico francese, quando essa nasceva da focolai d’intensa vita religiosa,  per la quale dettava le esigenze fondamentali; un intervento che, eventualmente condiviso per le responsabilità della teologia sull’insoddisfacente stato attuale, dev’essere passato nell’assemblea come piuttosto singolare. In conclusione: pochi sono gli interventi puntuali e pertinenti. Ne riferiamo alcuni.
 – Quello di Ratzinger, intervenuto tra i primi a contestare addirittura il tema del sinodo, quasi volesse cancellarlo, dichiarando che la speranza a lui sembra piuttosto «nebulosa»; e quindi chiedendosi: che cosa promette questa speranza? Un ritorno degli europei in chiesa? Una nuova fioritura della fede? La continuazione del benessere? Il superamento dei problemi politici ed economici attuali? In alternativa alla speranza propone la fede, precisandone le caratteristiche essenziali ed enucleandone le «applicazioni pratiche».
 – Quello del card. Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca, il quale, in tono risentito, disse: «Parliamo da ben 25 anni di “nuova evangelizzazione”. Il primo sinodo sull’Europa ne ha fatto il compito primario delle nostre Chiese. Ciò è fondamentale anche oggi. Ma questa parola non deve scadere a “slogan” astratto. (…) La nuova evangelizzazione dev’essere radicalizzata, e questo secondo una duplice direzione: da un lato essa deve divenire anche in molte delle nostre regioni europee una “prima evangelizzazione”, perché la fede è stata quasi completamente sradicata o radicalmente dispersa; dall’altro, questo può accadere solo in una Chiesa che è fino in fondo Chiesa missionaria» (Regno-doc. 19,1999,611).
– Anche Eyt (Bordeaux), partendo dal sinodo 1991, ritiene la nuova evangelizzazione ancora più necessaria e urgente, perché la secolarizzazione si è aggravata. Eyt però non si limita a denunciare la secolarizzazione, ma ne abbozza un principio di analisi, chiedendosi: perché è più pressante in Europa che altrove? La risposta è evidente: «Perché questa Europa, la nostra Europa, è stata cristiana nel pensiero, nelle azioni, nei progetti, nelle istituzioni e nelle leggi. Oggi, in molte nazioni di questa stessa Europa, si afferma la convinzione che il cristianesimo in questo continente è alla fine. Di più: c’è chi pensa che l’unica chance per gli europei è la separazione radicale fra l’Europa e il cristianesimo, fra l’Europa e la Chiesa, fra l’Europa e il Dio di Gesù Cristo. A ovest dell’Europa, non mancano contesti in cui si opera affinché in qualunque campo della vita sociale e privata – la sessualità, la vita e la morte, l’aborto e l’eutanasia, come pure l’educazione e la cultura, la guerra e la pace – le esigenze della vita cristiana vengano bandite dal nostro orizzonte e dalle leggi. Si potrebbe dire con qualcuno: “anima europaea naturaliter iam non christiana”. (…) Troviamo una condizione di spirito simile (…) nelle giovani generazioni occidentali, (…) una tranquilla apostasia pratica».
Non tutto però è negativo – continua Eyt – perché dalla secolarizzazione degli anni 1991-1998 si ricava un insegnamento che invita a porsi in atteggiamento critico di fronte alla secolarizzazione, concludendo che «forse ora sappiamo meglio che la nuova evangelizzazione in Europa sarà un’opera di lungo respiro; (…) conoscerà “alti e bassi”, (…) sarà un’opera di tutta la Chiesa». Che «non la si potrà attribuire né a un metodo unico, né a una parola d’ordine comune, (…) e non sarà dovuta nemmeno soltanto alla sostituzione di una generazione con un’altra. Una re-inculturazione dell’Evangelo e della Chiesa viene richiesta oggi in Europa dalla situazione stessa del cristianesimo. La prova di questo secolo consiste per noi nel rifiuto del cristianesimo da parte della maggioranza delle coscienze, delle sensibilità e delle intelligenze europee. (…) Tuttavia, gli otto anni che ci separano dal primo sinodo per l’Europa ci hanno resi sicuramente più realisti, più sereni, più perseveranti. (…) Dipende molto dal nostro sinodo che l’anno del giubileo sul nostro continente sia un anno nel corso del quale la nuova evangelizzazione si approfondisca e si sviluppi» (Regno-doc. 19,1999,594).
Ci sembrano osservazioni molto pertinenti, soprattutto nella loro parte positiva, evidentemente da approfondire, che avrebbero potuto offrire un’utilissima traccia di riflessione per tutto il sinodo. È un peccato che non siano state raccolte.
 – Il più ottimista, anche nei confronti della secolarizzazione, si è mostrato il card. Danneels (Malines-Bruxelles). La paragona a un giardino di piante velenose. Ma è pacifico che ogni pianta – dice – porta in sé, col veleno, il suo antidoto, altrimenti morrebbe. In base a questo principio Danneels rivisita la secolarizzazione, chiedendosi: «È vero che l’uomo europeo contemporaneo ha una smodata sete di felicità: vuole essere felice. (…) Sì, la domanda dei nostri contemporanei intorno alla felicità è davvero una buona domanda. Il nostro continente ha rigettato il tabù della sofferenza e della morte. Noi nascondiamo la morte, oppure la mascheriamo. La febbre contemporanea di una sessualità incontrollata, di un erotismo onnipresente nelle nostre strade, altro non è che una sorda protesta contro la morte. La Chiesa deve dare ascolto a questo grido silenzioso a voler vivere in eterno e farne un punto d’appoggio per una forte predicazione escatologica. L’angoscia della morte, presente in tutta la nostra cultura, contiene il vaccino contro la malattia: il desiderio insopprimibile di vivere oltre la morte. (…). La più efficace predicazione attuale sulla resurrezione della carne è la verginità consacrata. (…) Senza dubbio la causa della rarefazione delle vocazioni alla vita consacrata è l’ottenebrarsi della fede nella risurrezione. Ma i nostri contemporanei fanno una buona domanda: “Perché si deve morire?”. È proprio così negativo da parte loro ricondurci al cuore stesso del messaggio di Cristo, “Risusciteremo”? Molti tra i nostri contemporanei considerano Cristo uno fra i grandi nella galleria dei grandi della storia e dell’umanità. (…) È vero che questo equivale a non centrare la verità di Cristo: egli è l’Uomo-Dio. Cristo non è un razzo vettore che ci porta a Dio: è Dio stesso. (…) Si potrebbe dire altrettanto a proposito della religiosità selvaggia che contraddistingue i nostri tempi. Raramente un’epoca della storia dell’umanità è stata così “religiosa”. Anche in questo caso, non facciamo morire la pianticella quando deve ancora sbocciare. (…) Deve essere ricollocata nell’alveo della tradizione maggiore, corretta e ri-indirizzata rispetto al suo intento più profondo. (…) Questa religiosità selvaggia, in fin dei conti, è poi così negativa? L’islam è sempre più presente in Europa. È vero che vi è un islam difficile da integrare nella nostra società. (…) Ma a parte questo, i musulmani possono anche aiutarci a ridefinirci rispetto alla vera fede: il loro senso della trascendenza assoluta di Dio, la loro pratica della preghiera e del digiuno, la loro preoccupazione di trarre dalla fede conseguenze che arrivano fino alla vita sociale: tutto questo può interpellare i cristiani, che lasciano troppo scoperti questi ambiti. (…) In molti dei paesi occidentali, la Chiesa diventa minoritaria e povera: (…) l’Europa non è più “naturalmente cristiana”. (…) La condizione di vescovo non è particolarmente comoda, in questa fine di millennio. Ma ciò è davvero così negativo? Non sarà che il Signore ci vuol condurre in tal modo in una specie di nuova cattività babilonese?» (Regno-doc. 19,1999,602).
– Il più preoccupato, in un certo senso, sembra il card. Martini (Milano) che, presentando il suo intervento come un «sogno», afferma che la Chiesa avrebbe bisogno, non semplicemente di un nuovo sinodo, ma di un «confronto universale fra i vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che (…) riappaiono periodicamente sul cammino delle Chiese europee e mondiali». Quindi la prospettiva, presa in considerazione, è lunga; non si ferma all’oggi, ma si spinge a tutto il futuro della storia della Chiesa. Nel breve tempo che gli è concesso, elenca: gli approfondimenti e gli sviluppi dell’ecclesiologia di «comunione» del Vaticano II; la carenza drammatica di ministri ordinati e la necessità della cura d’anime; la posizione della donna nella società e nella Chiesa; la partecipazione dei laici alle responsabilità ministeriali; la sessualità e la disciplina del matrimonio; la prassi penitenziale; i rapporti con le Chiese sorelle d’Oriente e l’ecumenismo; il rapporto fra democrazia e valori, e fra leggi civili e legge morale.
L’elencazione è indubbiamente solo sintomatica, ma rivela una vera sofferenza per il tessuto ecclesial-sociale del presente, insoddisfacente e mortificato. Non sappiamo se la sofferenza sia singolare o condivisa. Noi possiamo soltanto riconoscere che i problemi enunciati sono reali e urgenti; e ci dobbiamo chiedere come mai si sono ammassati a creare un contesto così insoddisfacente.
A prendere in considerazione i diversi interventi del sinodo, l’impressione generale è, salvo errore, quella di un sinodo disperso, che non è riuscito a rispondere in modo sufficientemente concorde ed efficace alla domanda attuale di dire come si deve intendere la speranza cristiana nel tempo della secolarizzazione; non possiamo infatti ritenere sufficiente la proclamazione evidentemente indubitabile ma troppo generica del «messaggio» finale.


L’ora di una ripresa

Il timore è che il sinodo, nella sua dispersività, sia l’esito del Concilio, dopo quarant’anni.
È comprensibile che, a mano a mano che ci si distanzia, si affievolisca l’entusiasmo delle origini, creato dalla novità e, comunque sia la nuova situazione, scada nell’abitudine suscitando la sensazione di stanchezza e di scarsa vitalità. È però da chiedersi se, oltre a questo fenomeno naturale, abbiano agito sul Concilio anche gli interventi successivi, eventualmente persino quelli intenzionalmente correttivi, e quindi, in linea di principio, benefici.
Per tentare di rispondere alla domanda, noi partiamo precisamente dal sinodo 1999. Non è una partenza arbitraria ma, pensiamo, legittima perché, secondo la tavola di fondazione (decreto di Paolo VI Apostolica sollicitudo, 1965) i sinodi sono per l’attuazione del Concilio.
 Ora, a prescindere dall’impressione di generale smarrimento del sinodo 1999, ci sembra che i problemi elencati dal card. Martini, benché di natura ecclesiale o ecclesiologica, siano però strettamente intrecciati con la cultura, precisamente indotti dalla secolarizzazione, che il sinodo ha insistentemente evocato, ma che è stata presa in seria considerazione soltanto dall’intervento del card. Eyt per i suoi principi generali e, per i problemi particolari, solo dagli interventi, sia pure di segno tendenzialmente opposto (almeno sembra), del card. Danneels e del card. Martini.
In realtà, viene da pensare che alla secolarizzazione il postconcilio ecclesiale ha concesso più deplorazione che non attenzione. Avendo inteso la Chiesa come «comunione», astraendola dalla storia, cioè cancellandola come «popolo di Dio», il postconcilio si è concentrato sui problemi interni della Chiesa, fissando esclusivamente su di essi l’attenzione per cercarvi la soluzione. Per la verità riuscendovi solo parzialmente; e disattendendo la cultura. Che ha continuato implacabilmente a evolversi nella secolarizzazione e quindi a suscitare problemi nuovi che il Concilio, a suo tempo, non aveva potuto evidentemente affrontare; ma che, proprio per questo, dovevano essere i problemi di un postconcilio attento e rigoroso, cioè quelli sollevati da una cultura non a caso detta «postmoderna» e quindi postconciliare. Conseguentemente era fatale che questi problemi confluissero pesantemente ad accentuare il distacco della Chiesa, che appare sempre più emarginata ed estranea al mondo; e, d’altra parte, che il mondo, nel suo progressivo impoverimento, reclamasse ogni giorno, benché inconsapevolmente o contro sua volontà, con maggior urgenza e insistenza la presenza e la funzione necessaria della Chiesa. Erano questi i problemi che – ci sembra – esigevano particolare attenzione.
A scanso di fraintendimenti, noi non diciamo che il postconcilio non avrebbe dovuto cercare di risolvere i problemi interni della Chiesa; diciamo anzi che avrebbe dovuto affrontarli nella loro completezza, rifiutando d’interrompersi e di trattenersi, come tenendosi indietro, e lasciandoli in sospeso chissà fino a quando; diciamo che, insieme, avrebbe dovuto non distogliere l’attenzione dai problemi suscitati dalla storia, ma seguirli con pari attenzione, o forse con attenzione prevalente, perché avrebbero potuto offrire una prospettiva più felice, cioè più realista, anche per la soluzione dei problemi prettamente ecclesiali.
Questo ci sembra di dover ricavare in particolare dall’evidente disorientamento del sinodo 1999, dispiaciuti che, pur nella scarsità della letteratura di informazione e di valutazione suscitata, altri, più generosi o più compiacenti, non l’abbiano rilevato.
Naturalmente la Chiesa ha inesauribili capacità di ripresa. Auspichiamo che presto le metta in atto.
Giuseppe Colombo
Quello che qui pubblichiamo è tra gli ultimi testi di mons. Giuseppe Colombo, che si è spento il 13 giugno scorso, all’età di 81 anni. È stato pubblicato su La Scuola cattolica 133(2005) 1, 3-18.
Mons. Giuseppe Colombo era nato ad Albiate (MI) il 30 settembre 1923. Ordinato sacerdote dal beato card. Schuster il 22 maggio 1948, si era laureato in teologia nel 1955 con una tesi su Natura e soprannaturale nella filosofia di Maurice Blondel. Dal 1957 fu professore incaricato di teologia dogmatica speciale presso la Pontificia facoltà teologica di Milano, quindi professore straordinario l’anno successivo. Nel 1958 succedeva a mons. Carlo Colombo sulla cattedra di teologia dogmatica speciale. Con la nascita della Facoltà teologica interregionale (successivamente Facoltà teologica dell’Italia settentrionale), inaugurata ufficialmente il 7 marzo 1968 dal card. Giovanni Colombo, è chiamato a svolgere il ruolo di organizzatore della nuova istituzione teologica, che ha sede centrale a Milano nei chiostri di San Simpliciano. Vi tiene corsi di teologia sistematica e di metodologia teologica. È vice-preside dal 1971 al 1980, e quindi nel 1985 succede a mons. Carlo Colombo come preside fino al 1993. Dal 1998-1999 aveva tenuto l’insegnamento di storia della teologia contemporanea, per proseguirlo fino al 2002-2003 al compimento degli ottanta anni.

Note:

1 G. COLOMBO, «Il popolo di Dio e il mistero della Chiesa nell’ecclesiologia postconciliare», in Teologia (1985)10, 97-168.
 2 Cf. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel concilio Vaticano II, Jaca Book, Milano 1969 (or. 1967), 99; cf. G. CISLAGHI, Per un’ecclesiologia pneumatologica, Glossa, Milano 2004, 183.
 3 Altre citazioni di «popolo di Dio» riferite alla Chiesa si trovano in EN 5.31.68.76; EV 5/1592.1623.1684.1703.
 4 L’esortazione apostolica di Paolo VI «Evangelii nuntiandi». Storia, contenuti, ricezione, Brescia 1998.
 5 Insegnamenti di Giovanni Paolo II II/2 (1979) 119.
 6 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, istruzione Libertatis nuntius circa alcuni aspetti della teologia della liberazione, 6.8.1984; EV 9/866-927; ID., istruzione Libertatis conscientia su libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986; EV 10/196-344.
 7 J. RATZINGER, «L’ecclesiologia della costituzione “Lumen gentium”», in Il concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, 66-81, qui 69; Regno-doc. 7,2000,234.
 8 R. AUBERT, «La situation de l’Eglise au lendemain des “golden sixties”», in L’esortazione apostolica di Paolo VI «Evangelii nuntiandi», 23-42.
 9 W. KASPER, Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985, Queriniana, Brescia 1986, 46-47.
 10 RATZINGER, «L’ecclesiologia della costituzione “Lumen gentium”», 69; Regno-doc. 7,2000,234.
 11 Cf. KASPER, Il futuro dalla forza del concilio, 29; EV 9/1800.
 12 H. POTTMEYER, «Dal sinodo 1985 al grande Giubileo dell’anno 2000», in Il concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, 11-25, qui 21-25.
 13 Cf. KASPER, Il futuro dalla forza del concilio, 29.
 14 Ivi; EV 9/1800.
 15 LG 11 (sottolineatura mia); EV 1/313.
 16 KASPER, Il futuro dalla forza del concilio, 30; EV 9/1801.1803.
 17 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, 223-233.
 18 Cf. ivi, 294-311.
 19 Cf. J. GROOTAERS, Primauté et Collégialité. Le dossier de Gérard Philips sur la Nota explicativa praevia, Leuven 1986.
 20 AAS 85 (1993) 838-850; EV 13/1774-1807.
 21 RATZINGER, «L’ecclesiologia della costituzione “Lumen gentium”», 71; Regno-doc. 7,2000,235.
 22 Cf. Regno-doc. 19,1999,612ss.
 23 La Documentation catholique 81(1999), 950-954; cf. anche Regno-doc. 19,1999,593-611.