L’io globale: crisi del legame sociale e nuove forme di solidarietà

La tesi di fondo di questo saggio è che l’età globale, quale fase radicale dello sviluppo della modernità, condivide con quest’ultima una strutturale ambivalenza. In particolare, sul piano del legame sociale, essa appare caratterizzata da una doppia ambivalenza.
In primo luogo, infatti, il processo di globalizzazione genera da un lato la crisi, e dall’altro il ricostituirsi del legame sociale in forme regressive e distruttive. Si assiste cioè ad una sorta di nuova polarizzazione che vede da un lato l’emergere di un individualismo narcisistico (omologazione, indifferenza, perdita di comunità), dall’altro il configurarsi di un comunitarismo tribale (ritorno della comunità in forme distruttive ed esclusive).
In secondo luogo, l’età globale presenta tuttavia potenzialità emancipative iscritte in prima istanza nella struttura antropologica degli individui. Essa contiene in altri termini un’inedita chance di legame sociale planetario tra individui accomunati, pur nelle loro irriducibili differenze, da una universale debolezza e da un uguale destino. A dispetto delle sue patologie, l’Io globale sembra essere guidato, in virtù della propria debolezza, da un bisogno di comunità che si deposita simbolicamente in nuove forme di reciprocità (il dono), a partire dalle quali è possibile ripensare la rinascita della solidarietà tra individui appartenenti ad uno stesso genere umano.  
 
1. Uno degli aspetti ancora poco illuminati nel ricco e crescente dibattito sulla globalizzazione è quello relativo agli effetti che essa produce sulla costituzione dell’identità individuale e sulle forme del legame sociale, sulle trasformazioni dell’Io e sui vincoli di solidarietà[1].
Si stenta cioè a trasferire in una prospettiva globale una problematica che di per sé occupa invece, da tempo, parte dell’attenzione della riflessione contemporanea sulla modernità e sulle sue “conseguenze”, più o meno radicali. Da quando, alcuni decenni fa, Richard Sennett e Christopher Lasch denunciavano il “declino dell’uomo pubblico” e il trionfo dell’homo psychologicus sull’homo politicus della prima modernità (Sennett 1982, Lasch 1981), prospettive interpretative anche molto diverse tra loro hanno trovato di fatto un punto di convergenza nella critica della società postmoderna, caratterizzata appunto da una deriva soggettivistica responsabile della crisi del legame sociale e della disaffezione alla vita pubblica. Dai communitarians americani agli eredi del Collège de sociologie, da esponenti del “republicanism” come Robert Bellah ai teorici del dono, da Charles Taylor alle preoccupazioni comunicative di Habermas e Apel, uno dei temi di fondo è indubbiamente la denuncia di un deficit di solidarietà e di una perdita di comunità che impone un ripensamento dell’intero progetto della modernità e l’individuazione di adeguate strategie normative tese a correggerne gli effetti patologici.
L’Io postmoderno, insistono sia pure con linguaggi diversi, alcuni autori, è caratterizzato da una vocazione autoaffermativa illimitata nella quale sembra affievolirsi quella tensione etica e societaria che ancora guidava l’agire dell’individuo della prima modernità, prometeicamente responsabile del futuro e razionalmente disponibile al patto e all’intesa. Mosso da impulsi ambivalenti, nei quali il sentimento della propria onnipotenza si coniuga con la percezione del proprio vuoto e della propria debolezza, esso si ritrae in una sorta di solitudine atomistica che lo separa dall’altro pur senza isolarlo dal mondo, che egli tende al contrario ad usare come pura arena di una narcisistica autorealizzazione. Indifferente verso tutto ciò che non rientri immediatamente nella dimensione autoreferenziale dell’Io, l’individuo postmoderno appare in prima istanza “estraneo” più che ostile all’altro (Lipovetski,1995); vale a dire non più impegnato in una hobbesiana dinamica conflittuale che prelude ad una finale, reciproca negoziazione, ma chiuso in un circuito “immunitario”[2] che lo preserva da ogni attivo coinvolgimento nella sfera sociale e politica.
La crisi dell’autorità e delle strutture che tradizionalmente la incarnavano (famiglia ecc.) e la perdita di fiducia nelle istituzioni sempre meno capaci di garantire sicurezza, l’esplodere di una logica consumistica che sostituisce l’etica “weberiana” del lavoro e della produzione ed arriva ad invadere zone prima totalmente estranee, come il corpo e la politica; e ancora, lo sviluppo vertiginoso della tecnologia che offre possibilità fin qui inimmaginabili, dilatando lo spazio reale e virtuale dei desideri: sono solo alcune delle cause che concorrono a tracciare una cesura tra la società primomoderna, capace di autolimitazione e di una ordinata socialità, e la “seconda” (o “tarda” o “post”) modernità[3], illimitata e caoticamente abitata da monadi irrelate, unicamente preoccupate della propria autorealizzazione.
Ciò vuol dire, vorrei aggiungere, che i due grandi modelli liberali che, sia pure in una prospettiva puramente strumentale, avevano configurato uno scenario sostenibile di socialità e di convivenza politica, non sembrano essere più in grado di “tenere” di fronte all’atomismo dell’Io postmoderno: né il modello politico contrattualista, fondato sulla presunta razionalità degli attori sociali da cui scaturisce l’ordine politico-statuale, né il modello economico della Political Economy smithiana, fiducioso nell’empirico equilibrarsi dell’interesse pubblico e privato di individui capaci, in ogni caso, del riconoscimento dell’altro e di una dinamica interattiva.
L’Io edonista e narcisista, l’Io caratterizzato, come è stato detto, dal “processo di personalizzazione”(Lipovetski 1995), che rompe ogni forma di autolimitazione precedentemente efficace (disciplinare,autorepressiva,autoritaria), appare incapace persino di quelle forme strumentali di legame e di relazionalità che avevano contrassegnato la prima fase della modernità, tesa a garantire progresso, sicurezza, convivenza pacifica, affidandone la gestione allo Stato o al mercato. Avido di una libertà insofferente di ogni vincolo e privo delle certezze conferite da istituzioni solide e credibili, esso presenta quella paradossale coesistenza tra onnipotenza e vuoto da cui trae origine e alimento la sua struttura ansiosa e desiderante, carente e inappagabile.
Illimitatezza e insicurezza: in questi due aspetti, apparentemente contrapposti, ma in realtà intrinsecamente speculari, si possono dunque efficacemente riassumere le patologie dell’Io postmoderno, che si dibatte tra “minimale” autoconservazione[4] e sconfinata autorealizzazione, tra ripiegamento autodifensivo e grandiosa affermazione di sé, nell’inquietante oblìo della vita e del bene comuni.
Sarebbe tuttavia fuorviante, come fanno alcuni, vedere in tutto questo un congedo o un’uscita dalla modernità: se è vero infatti che lo scenario post-moderno mette in crisi il progetto della modernità (razionalità, ordine, progresso, conciliazione tra bene pubblico e privato), esso tuttavia non ne annulla e non ne smentisce i presupposti originari (libertà e sovranità dell’individuo, autoaffermazione, legittimità dei desideri e delle pretese soggettive); dei quali l’idea di illimitatezza e di insicurezza fanno intrinsecamente parte, come scopriamo ad esempio da una lettura anche superficiale dell’antropologia hobbesiana[5]. Possiamo forse addirittura affermare che solo nella seconda modernità quelle premesse, risolte fino ad un certo punto dentro un sistema normativo efficace (sia esso politico à la Hobbes o economico à la Smith), si disvelano pienamente e giungono ad una completa attualizzazione, dando origine a nuove patologie e a sfide inedite.
Ha allora senso parlare, per dirla con Giddens, più che di un congedo dalla modernità, del manifestarsi delle sue “conseguenze radicali”, poiché ciò consente di riconoscere le cesure e le trasformazioni senza negare la continuità; di vedere appunto il fallimento del progetto senza misconoscere l’attualità ancora rovente delle premesse, sia pure trasformate e riconfigurate dalla complessità di uno sviluppo sempre meno prevedibile.
Questa discrasia tra progetto e presupposti mi pare particolarmente pertinente per definire quell’insieme di fenomeni che va sotto il nome di “globalizzazione”: fase ultima della modernità nella quale l’ambivalente coesistenza di illimitatezza e insicurezza sembra aver raggiunto proporzioni tali da sfuggire non solo ai modelli tradizionalmente moderni di progettualità, ma alla possibilità stessa del progetto, della direzione e del controllo.
La globalizzazione, vorrei in primo luogo sostenere, radicalizza le patologie del’Io e acuisce la crisi del legame sociale, in quanto moltiplica sia le ragioni dell’illimitatezza sia i fattori di insicurezza.
I toni apocalittici usati da Lasch ancora venti anni fa per descrivere lo scenario di una società ossessionata da “segni premonitori di catastrofe” e dal “senso della fine”, dalla percezione di disastri incombenti e dalla perdita del futuro, e spinta per questo ad una sorta di entropia e di strategia della sopravvivenza (Lasch 1981), suonano oggi più che mai attuali e profetici. L’insicurezza è diventata la nostra condizione permanente; e non soltanto perché siamo tutti immersi in quella che Ulrich Beck ha definito la “società (mondiale) del rischio” (Beck 2000). Il rischio infatti (ambientale, nucleare, energetico ecc.) è indubbiamente la caratteristica più macroscopica ed estrema della generale insicurezza tardomoderna, ma è anche, come cercherò di far vedere più avanti, l’aspetto che paradossalmente può contenere in sé un potenziale emancipativo e normativo inedito. Prima ancora che nelle minacce e nei rischi globali, l’insicurezza trae allora origine dallo sgretolarsi di un assetto politico-economico fin qui relativamente solido e rassicurante cui non sembra sostituirsi alcun ordine stabile alternativo. Essa prolifera, come ben sottolinea Zigmut Bauman, nelle sue molteplici forme di scomparsa della sicurezza esistenziale, di perdita dei parametri di valutazione e di scelta, di minaccia della propria sicurezza personale[6].
Basti solo pensare ai due grandi mutamenti strutturali prodotti dalla globalizzazione, sui quali, nel controverso dibattito sul tema, sembra esserci non a caso un maggiore consenso: la deregulation di un mercato che detta comunque su tutto e su tutti le sue leggi, e la crisi di quel pilastro fondamentale della modernità che è la sovranità dello Stato-nazione. Si assiste, osserva Bauman cogliendo la complementarità fra i due aspetti, ad una divaricazione tra il potere (che è economico e globale) e la politica (che è statuale e locale) (Bauman 2000, pp.27sgg.). Alla sconfinata libertà di movimento del capitale, che è mobile ed extraterritoriale e che è ormai in grado di svincolarsi da ogni limite, grazie alla “compressione spazio-temporale” (Harvey 1993) prodotta dalla tecnologia (comunicativa, informatica ecc.), corrisponde una perdita di potere della politica; che non vuol dire, come alcuni vorrebbero, la “fine della politica”, ma certo il suo indebolimento, la perdita delle funzioni tradizionali dello Stato di salvaguardia della vita degli individui e di garanzia di un ordine, scaturito da un consenso, attraverso la capacità di limitare, controllare, decidere[7]. Favorito da quella “uccisione della distanza” (Beck 1999) che è forse il tratto nevralgico della globalizzazione, il potere economico fluisce nella dimensione incorporea del cyberspazio, dal quale detta l’agenda delle priorità e delle decisioni, indifferente alle sorti degli individui concreti e “territoriali” che ne subiscono le leggi, – o meglio l’anomia – senza poter contare sulla protezione dello Stato. Incapace di porre freni alla mobilità accelerata di un potere insofferente di ogni confine, disarmato di fronte alla “economia politica dell’incertezza” (Bauman 2000,pp.174sgg.) e ai nuovi imperativi della flessibilità del lavoro e della liberalizzazione del mercato, lo Stato rivela la propria impotenza di fronte ad una situazione che sfugge ad ogni controllo, creando negli individui ansia, ritrazione, autodifesa.
Acuito ulteriormente da un lato dalla crisi delle altre istituzioni cardine della società industriale moderna (famiglia,classe, professione), dall’altro dall’autonomizzarsi di zone di “sub-politica” (come il settore tecnico-scientifico) che sfuggono al controllo del potere politico facendosi a loro volta portatori di rischi globali (Beck 2000), il senso di insicurezza deriva essenzialmente dalla percezione di una perdita di controllo sugli eventi che genera sfiducia e apatia, ansia ed entropia, ritrazione e isolamento. Quanto più inoltre cresce la percezione di una interdipendenza degli eventi e la consapevolezza del fatto che qualunque cosa accada in qualunque parte del mondo, può riguardare e coinvolgere l’intero globo[8], rendendo vana quella pretesa soggettiva di “immunità” che nella prima modernità trovava ancora una risposta nello Stato, tanto più l’incertezza cresce; acutizzando la ritrazione narcisistica dell’Io, il bisogno di strategie autoconservative, la tendenza a quella “mentalità della sopravvivenza” già individuata da Lasch come caratteristica della post-modernità (Lasch 1981).
L’Io globale tuttavia non è solo un Io confuso, smarrito, insicuro. Al contrario esso è anche, in virtù di quegli stessi fattori che generano incertezza, onnipotente e illimitato. La mobilità e la perdita di confini, la contrazione dello spazio e l’accelerazione del tempo, le smisurate possibilità offerte da una tecnologia (informatica, massmediale, biologica) scissa da ogni altro fine che non sia quello della propria riproduzione autolegittimante[9], e le inedite chances di un mercato privo di regole ma carico di promesse, conferiscono di fatto nuovo spessore e consistenza all’illimitatezza dell’Io e alle sue pretese di onnipotenza.
La globalizzazione in altri termini non fa che radicalizzare e orientare in altre direzioni quella spinta all’oltrepassamento del limite che, come Blumenberg aveva ben intuito, è una caratteristica della modernità fin dalle sue origini (Blumenberg 1992).
In questo senso, è allora difficile consentire con Martin Albrow quando sostiene che l’Età Globale segna la fine della modernità (Albrow 1996). La modernità finisce, secondo Albrow, quando si scontra con limiti esterni che ne annullano i presupposti, quando cioè vengono a mancare le due condizioni sulle quali essa si è a lungo autoriprodotta: l’illimitatezza delle risorse e l’esistenza di spazi sempre nuovi da conquistare e da annettere al proprio progetto. La scomparsa di questi due aspetti coincide appunto con l’inizio della Global Age, la quale decreta il definitivo tramonto dell’età moderna e pone con urgenza la necessità di riconoscere l’emergere di un’epoca nuova, da affrontare in prima istanza con nuovi strumenti interpretativi.
A questa argomentazione, che coglie indubbiamente la radicalità dei mutamenti indotti dalla globalizzazione, vorrei tuttavia opporre due obiezioni di fondo: in primo luogo, il fatto che l’illimitatezza è un aspetto soggettivo prima ancora che oggettivo, e che dunque essa potrebbe perpetuarsi artificialmente anche in assenza delle condizioni reali e materiali che la generano; in secondo luogo, il fatto che comunque nell’età globale persistono anche le condizioni oggettive della spinta all’ulteriorità, la quale si è semplicemente spostata, trasferita su nuove mète. Tra queste, quelle appunto prodotte dalla tecnologia, come la manipolazione del corpo e l’apertura di scenari finora impensabili, la creazione di realtà virtuali e la velocizzazione del tempo (Virilio 2000), la costruzione massmediale di dimensioni artificiali capaci di mobilitare emozioni e desideri; o ancora l’infinita “fantasmagoria della merce” di una società che ha eretto il consumo a parametro universale, capace di colonizzare non solo la sfera materiale dell’esistenza, ma anche la dimensione dell’immaginario e della politica, dell’intimità e dei sentimenti.
La globalizzazione porta a compimento il passaggio postmoderno da una società di produttori (nella quale l’illimitatezza trovava ancora un limite in un’etica e in uno scopo comuni) ad una società di consumatori[10]: di individui animati da desideri senza oggetto, mobili e intercambiabili, alimentati dalle pratiche di seduzione e di spettacolarizzazione di un mercato planetario che trasforma il mondo in un’arena di abbaglianti promesse persuadendo tutti della assoluta legittimità delle loro aspettative. L’ampliamento, sia pure illusorio e virtuale, della sfera del possibile e la vorticosa velocità della soddisfazione di ogni esigenza fanno sì che l’illimitatezza del desiderio trovi nell’età globale una sua peculiare consacrazione. “Turista” in un mondo che non lo riguarda se non come fabbrica di attrazioni passeggere e di effimeri godimenti (Bauman 1999), l’Io globale è allo stesso tempo onnipotente e parassitario, unicamente occupato ad assorbire dal mondo tutto ciò che promette di soddisfare le sue pretese. Il parassitismo dell’Io viene inoltre alimentato da quella coazione alla mimesi che, in un mondo sempre più omologato, sempre più uniformato attraverso processi di “macdonaldizzazione” (Ritzer 1997), diventa il meccanismo pervasivo di formazione di identità simili e indifferenziate; di individui in serie, uguali e animati da una vocazione conformistica che tuttavia, ben lungi dall’unirli, li confina ad un monadico isolamento[11].
Radicalizzando la pulsione all’illimitatezza e moltiplicando le ragioni dell’insicurezza, l’età globale produce dunque un’ulteriore e più inquietante configurazione dell’individualismo narcisistico e delle sue patologie; dando origine ad un Io onnipotente ed entropico, autoreferenziale e conformista, simile e slegato, la cui tipologia attraversa i confini statuali e nazionali e le distanze geografiche, etniche o religiose, riproducendo modelli, stili di vita, desideri seriali, con la forza livellante dell’indifferenziazione e della mimesi, che tutto uniforma senza nulla accomunare.
 
2. La globalizzazione, tuttavia, è ben lungi dal produrre una assoluta unicità e uniformità di effetti. Una delle più convincenti, sebbene tuttora minoritarie, prospettive di lettura è infatti proprio quella che ne sottolinea l’intrinseca ambivalenza: in virtù della quale a processi di unificazione, omogeneizzazione, omologazione, fanno da pendant processi di frammentazione, eterogeneizzazione, differenziazione. L’idea, difesa soprattutto dai “cultural studies”, di una inscindibile coesistenza di “globale” e “locale” –sintetizzata da Robertson nel termine “glocalizzazione”- ben riflette questa costitutiva ambivalenza, suggerendo la necessità di rinunciare a prospettive dicotomiche, pur riconoscendo l’oggettiva complessità e pluralità del mondo contemporaneo (Roberston 1999; Featherstone 1996).
In altri termini, la rivitalizzazione della dimensione “locale” è il prodotto, sia pure paradossale, della globalizzazione, almeno in un duplice senso: in primo luogo  perché il capitalismo globale, mobile e “senza frontiere”, ha comunque bisogno di radicarsi nei singoli spazi territoriali filtrando simboli e messaggi attraverso le culture locali (Robertson 1999, Beck 1999,pp.69sgg.). La stessa proliferazione di “Stati deboli” (Bauman 1999, pp.76sgg.), per lo più ridotti alla funzione sussidiaria di rendere attraente il loro territorio per gli investitori internazionali, è un effetto della globalizzazione e una realtà ad essa congeniale. L’alimentazione della frammentazione politica, la valorizzazione della particolarità culturale o della “differenza” nazionale e perfino etnica, sono in questo caso di fatto funzionali alla logica del mercato mondiale e alla creazione di una mentalità consumistica omologante.
In secondo luogo, e veniamo all’accezione più forte del termine, “locale” allude ai processi di differenziazione culturale legati alla ridefinizione dell’identità in quello che Clifford Geertz ha definito un “mondo in frammenti” (Geertz 1999); un mondo cioè paradossalmente sempre più percorso da fratture, differenze, divisioni pur dentro la sua inarrestabile dinamica unificante e omogeneizzante (Appadurai 1998). O forse, si potrebbe suggerire, proprio a causa di quest’ultima. In altri termini, il localismo, inteso come rivendicazione forte delle differenze e dunque come origine dei conflitti etnici e religiosi che attraversano il mondo mettendo in seria crisi l’ordine politico-statuale esistente, nasce anche come risposta all’assimilazione livellante della globalizzazione. Esso esprime il bisogno identitario di individui decisi, più o meno consapevolmente, a sottrarsi alla forbice di omologazione ed atomismo dentro la quale, come abbiamo visto, sembra destinato a dibattersi l’Io globale. Bisogno, dunque, in prima istanza legittimo, in quanto scaturisce dalla necessità di arginare la perdita del limite e lo sradicamento, l’indifferenziazione e quella che è stata definita la “distruzione del legame sociale” (Baudrillard 1976, Latouche 1995), reintroducendo linee di confine e forme, individuali e collettive, di autoidentificazione. Perciò, ribadisce Geertz, il conflitto etnico e il conflitto religioso non sono da considerarsi fenomeni puramente irrazionali e distruttivi, in quanto esprimono il desiderio di ricostruire il tessuto delle appartenenze, magari riattivando “lealtà primordiali” (Geertz 1999, pp.85sgg.), capaci di restituire il senso di un’identità coesa e di un’esistenza condivisa. All’”agorafobia” (Bauman 1999,pp.52sgg.) prodotta da un mondo senza confini e senza legami, che sembra esigere l’oblìo delle radici e l’asettica cancellazione delle differenze, l’Io reagisce cercando la propria identità negli immediati dintorni di appartenenze tradizionali e familiari: nel tessuto circoscritto di quella che potremmo definire una comunità di affini, di una Gemeinschaft rassicurante nella sua datità, prossimità e concretezza.
Questo spiega appunto il “ritorno della comunità”, cui si assiste in anni recenti, alimentato anche dalla crisi dello Stato e delle sue funzioni coesive e unificanti. “La comunità ci manca”, afferma efficacemente Bauman (Bauman 2001). Il bisogno identitario infatti si manifesta oggi, per lo più, come bisogno comunitario; come se alle spinte astrattive, fredde e livellanti della Gesellschaft globale, solo superficialmente unificante, si potesse rispondere soprattutto con l’affermazione perentoria di identità forti e compatte, arroccate nel circuito chiuso di una Gemeinschaft esclusiva, garante di un reciproco e assiomatico riconoscimento. Le “lealtà primordiali” diventano così veicolo di pulsioni arcaiche, che si coagulano nella difesa delle appartenenze etniche, nazionali, religiose.
Non è peraltro possibile liquidare questo fenomeno come manifestazione regressiva di neo-tribalismi e fondamentalismi che emergono fuori dall’Occidente, in zone del mondo non ancora pervase dalla luce del diritto e della dignità umana. Il ritorno della comunità in forme violente ed esclusive, l’emergere cioè di quello che vorrei definire il comunitarismo tribale, è, appunto, un fenomeno globale che investe sì il fuori, ma anche il dentro dell’Occidente; dove il “noi” tende a configurarsi, come ben sottolinea Sennett, come un “pronome pericoloso” (Sennett 1999,pp.137sgg.); ad assumere forme autodifensive e protezionistiche di aggregazione, spesso sostenute e rafforzate dall’esclusione dell’”altro” (lo straniero, l’estraneo, colui che minaccia non solo gli interessi, ma l’identità dell’Io). Le “comunità della paura”, di cui parla Bauman sottolineandone il carattere “segregazionista”(Bauman 2000,pp.23), o le “comunità di pericolo” cui allude Beck (Beck 2000,p.62), fondate sulla pura condivisione dell’ansia, sono solo una delle evidenti conferme di questo fenomeno.
Siamo dunque di fronte alla desolante alternativa tra una perdita d’identità e un suo revival regressivo, tra un’assenza di legame e una sua rinascita in forme violente e distruttive. Resta tuttavia da chiedersi se la forbice tra un individualismo narcisistico e di un comunitarismo tribale sia l’unico scenario possibile dell’età globale.
 
3. La mia ipotesi è in primo luogo che il processo di globalizzazione contenga, malgrado le patologie da esso prodotte, un potenziale emancipativo; il quale consiste nella chance -del tutto inedita e sconosciuta a fasi precedenti della modernità- di creare una forma planetaria (o cosmopolitica) di legame sociale; in secondo luogo, che questa possibilità sia in parte intrinseca agli stessi fattori dai quali ha origine la crisi del legame sociale (in primis, l’insicurezza e la paura).
Tra i fattori di insicurezza, come accennavo sopra, il più radicale è oggi senza dubbio costituito dai “rischi globali” (global warming e distruzione dell’ambiente, minaccia nucleare, epidemie virali ecc.): fenomeno tristemente inedito, che apre una vera e propria voragine nel progetto della modernità minando alla radice la fiducia nella sua presunta razionalità[12]. I rischi globali non sono il prodotto della natura, come nell’età pre-moderna, e non sono neppure i “pericoli” prodotti da un hobbesiano conflitto emotivo cui si può sempre porre razionalmente rimedio. Essi sono il risultato di un agire che, scientificamente e tecnologicamente alimentato, appare sempre più libero di “scatenarsi”, direbbe Hans Jonas, nella propria illimitatezza prometeica (Jonas 1990,p.XXVI); un agire che causa una sorta di liberazione dei mezzi dai fini autorizzando gli individui a fare qualcosa solo perché “può” essere fatta[13]; che ha dunque perso ogni weberiano ancoraggio al senso e allo scopo, causando inevitabilmente conseguenze ed effetti non previsti e non voluti (Beck 2000, pp.25 sgg.). Indesiderati, spesso avvolti in un alone di invisibilità, e soprattutto irreversibili, i rischi globali sono la più inquietante testimonianza simbolica di quella perdita di controllo, di cui, per un ennesimo paradosso, gli uomini sono evidentemente i soli artefici ed attori, ma che, allo stesso tempo, li confina al ruolo passivo ed impotente di spettatori.
Il paradigma dello “spettatore” che, come ha suggestivamente mostrato Hans Blumenberg, aveva metaforicamente sancito l’età premoderna venendo poi definitivamente superato dal moderno scenario di individui “embarqués”, coinvolti in prima persona nelle cose del mondo (Blumenberg 1985), torna curiosamente d’attualità nell’età globale; dove tuttavia non ha più niente a che fare con l’immagine stoica e lucreziana del “saggio” che osserva distaccato il pericolo da un porto sicuro. Inquieto e disarmato osservatore di un “naufragio” che egli stesso ha provocato, e soprattutto, di cui egli stesso può diventare in ogni momento vittima in un mondo reticolare e interdipendente, l’Io globale non trova più alcun luogo separato e sicuro in cui rifugiarsi. Egli finisce per subire passivamente le conseguenze di un agire che, svincolato da ogni fine e teso essenzialmente a soddisfare la sua pulsione all’illimitatezza, produce un effetto-boomerang da cui non c’è riparo. Incidenti nucleari, disastri ambientali, virus contagiosi avanzano come silenziosi invasori varcando ogni rassicurante linea di confine.
Attore, spettatore e vittima allo stesso tempo, di eventi che ha involontariamente provocato senza essere in grado di gestirli e controllarli, l’Io globale non gode più di alcuna immunità: né di quella premoderna del saggio-spettatore, né di quella moderna, garantita hobbesianamente dallo Stato. Egli si trova al contrario sempre potenzialmente esposto al “contagio” di avvenimenti (siano essi guerre, malattie o inquinamento) che non sono più spazialmente circoscritti né temporalmente limitati.
Tuttavia, potremmo dire attingendo al lessico di Georges Bataille, questo stesso “contagio” è anche ciò che lo accomuna ai propri simili[14]; questa stessa “esposizione” ad eventi che attraversano il globo, lega gli individui in una dimensione di virtuale communitas planetaria che scaturisce, almeno in prima istanza, dalla condivisione democratica dei rischi; condivisione oggettiva e reale, la quale va di fatto al di là delle “nuove disuguaglianze”, che indubbiamente la globalizzazione produce tra élites “globali” e poveri “locali” (Bauman 1999; Beck 2000, pp.30,54sgg.) e che non vanno certamente sottovalutate[15]. Sebbene in forme ed entità diverse, che penalizzano le zone periferiche del mondo e colpiscono i settori svantaggiati della popolazione aggiungendosi a vecchie e più tradizionali disuguaglianze (di classe, status ecc.), la diffusione dei rischi globali è il fenomeno che più di ogni altro consente la configurazione di un legame sociale planetario. Essi uniscono di fatto tutti gli uomini, indipendentemente da ricchezza e povertà, come pure da appartenenze di razza, etnia, o nazione, in un “comune destino”(Beck 2000); rovesciando così un evento distruttivo in una chance inedita di condivisione e di nuova autoidentificazione.
Nella loro radicalità, i rischi globali rendono in altri termini potenzialmente evidente la possibilità, mai sperimentata prima e paradossalmente intrinseca alle stesse patologie della società globale, di una nuova forma di legame che coinvolge non più quell’individuo o gruppo o nazione, ma l’intero genere umano; prima e al di qua di ogni differenza, e malgrado ogni pur innegabile disuguaglianza. Si può allora essere d’accordo con Beck quando afferma: “…diviene forse per la prima volta esperibile la comunanza di un destino che – in modo abbastanza paradossale – risveglia, con l’assenza di confini della minaccia prodotta, una coscienza quotidiana cosmopolitica che supera perfino i confini tra uomo, animale e pianta…” (Beck 1999,p.58).
Tuttavia, ed è questo un aspetto su cui non si riflette abbastanza pur essendo platealmente evidente, l’esistenza del rischio non produce di per sé effetti emancipativi; non si traduce automaticamente, come sembrano invece sostenere Beck e i teorici della “modernizzazione riflessiva” (Beck,Giddens,Lash 1996), in una presa di coscienza soggettiva. Al contrario, l’emergere di rischi così inquietanti per l’umanità da prefigurare addirittura “l’impensabile”, provoca piuttosto, da parte degli individui, reazioni di rimozione, o meglio di “diniego”, della realtà. Il diniego (Verleugnung) infatti, come Freud ci insegna, è una sorta di sottile autodifesa dell’Io, il quale pur riconoscendo razionalmente una realtà penosa e difficile, impedisce che essa venga emotivamente sentita e partecipata[16]. In altre parole, l’Io globale è in grado di vedere e riconoscere i rischi che lo circondano senza esserne però affettivamente coinvolto.
Ciò spiega in parte quell’assenza di paura in cui già Günter Anders riconosceva il sintomo paralizzante del “dislivello prometeico” di cui soffre l’uomo contemporaneo: il sintomo cioè di quella scissione tra il “fare” e il “sentire” che inibisce, appunto, l’insorgere della paura e la successiva mobilitazione che la paura è capace di produrre (Anders 1963). L’enormità dei rischi spinge, in altre parole, l’Io ad una sorta di “ritrazione narcisistica”[17] che lo immunizza dal pathos, bloccando a priori persino la paura. Questa operazione anestetica è inoltre favorita dalla natura stessa del rischio: che a differenza del “pericolo”, non è più, come nello scenario hobbesiano, tangibile e determinato, spazialmente vicino e prodotto da un “nemico” identificabile; ma è, al contrario, indeterminato e invisibile, astratto e aleatorio, privo di un soggetto definito cui imputare la responsabilità dei suoi effetti[18].
Di fronte a questa indeterminatezza l’Io trova automaticamente nel “diniego” un escamotage autodifensivo; o tutt’al più, egli risponde con una reazione emotiva anch’essa indeterminata, che non è più definibile come “paura”, ma piuttosto come “angoscia”, intesa come generico stato di ansia di fronte a minacce indefinite e non circoscrivibili[19]. Tratto peculiare della soggettività narcisistica (Lasch 1981), sintomo di una radicale perdita di “fiducia” (Giddens 1994), l’angoscia produce due reazioni opposte e complementari: da un lato genera la ritrazione dell’Io nel circuito paralizzante di una autoconservazione entropica e difensiva che va ad alimentare il “fenomeno dello spettatore” (Wangh 1985); dall’altro può tradursi in forme persecutorie  e nella ricerca di “capri espiatori” su cui proiettare le proprie paure, dando origine ad aggregazioni endogamiche ed esclusive, tenute insieme unicamente dal desiderio di identificare un nemico che le esoneri da un’autentica presa di coscienza[20].
Diventa allora inevitabile chiedersi se sia possibile sottrarsi alla avvilente alternativa tra l’assenza di paura e il suo spostamento persecutorio; se sia possibile uscire, per richiamare i termini che ho prima proposto, dalla forbice tra un individualismo narcisista che annienta ogni legame e un comunitarismo tribale, che lo ricostruisce in forme distruttive. Il problema è infatti quello di riattivare la paura senza cadere nella rete paralizzante e indifferente dell’angoscia, e senza cedere alle sue spinte regressive ed arcaiche. Solo in questo caso si può davvero parlare di “coscienza” dei rischi: questa esige infatti, allo stesso tempo, il risveglio emotivo, che solo rende interiormente reale l’evento, e la capacità di porre una distanza razionale dall’evento che consenta di identificare i veri responsabili e di formare alleanze costruttive.
E’ vero che in virtù del suo carattere strutturalmente “riflessivo”, vale a dire della sua intrinseca e inintenzionale capacità autocritica (Beck 2000, Giddens 1994, Beck-Giddens-Lash 1996), la modernità contiene di fatto, al suo interno, questa chance. “Insegnare a se stessa ad avere paura”, proiettandosi nel futuro è uno degli antidoti impliciti nella “società mondiale del rischio” (Beck 1999, p.124), purché però la paura non diventi l’esclusivo alimento della coesione sociale. In tal caso infatti, essa dà origine solo a forme regressive e chiuse di coesione: le “comunità di pericolo” di Beck e le “comunità della paura” di Bauman, o le “comunità distruttive” di Sennett (Sennett 1982), che si limitano a rispondere in modo autodifensivo allo slegamento globale.
La paura conserva una funzione emancipativa solo quando agisce – come ancora avveniva, nonostante l’artificialismo della soluzione, nello scenario hobbesiano – come passione rammemorante dei rischi prodotti dalla propria illimitatezza, che prelude a nuove forme di consapevolezza capaci di produrre un’inversione di tendenza nell’agire. Se liberata dalle patologie dell’angoscia, la paura dei rischi globali contiene la chance di rivelare una situazione inedita e paradossale: il fatto cioè che nell’età globale gli uomini, tutti gli uomini, indipendentemente da appartenenze di razza, classe o Stato, sono accomunati dalla condivisione della vulnerabilità e della debolezza di fronte alle minacce da essi stessi prodotte. La globalizzazione, infatti, rende definitivamente evidente un aspetto che era stato costitutivo dell’individuo fin dal suo nascere, ma che la modernità aveva oscurato dietro gli imperativi dell’autonomia, del controllo, della razionalità progettuale. Nel momento in cui tornano a “sentire” la paura -senza negarla né proiettarla su falsi oggetti-, gli individui diventano in particolare consapevoli di quel rischio supremo e definitivo che è l’autodistruzione, e dunque potenzialmente capaci di dare un nuovo orientamento al ”fare”; in quanto, come osserva giustamente Jonas, essi si pensano per la prima volta come appartenenti al “genere umano”[21].
Oggetto da proteggere e da difendere, in primo luogo da se stesso, vale a dire dalla sua illimitatezza prometeica e dalla sua indifferenza narcisistica, il “genere umano” è anche il nuovo soggetto che emerge nell’età globale[22]. Un soggetto che, privo di ogni connotazione metafisica e antropologicamente fondato nella diffusa esperienza della debolezza, assume allo stesso tempo lo spessore di una nuova forma di comunità: non più esclusiva ed endogamica come le “comunità della paura”, ma, al contrario, inclusiva ed esogamica, in quanto scaturisce dalla condivisione fattuale di un comune destino e dalla coscienza riflessiva, emotivamente sostenuta, della comune “esposizione” di individui soggetti a minacce totali.
 
4. Si tratta però, abbiamo detto, solo di una chance, che non arriva necessariamente ad attualizzarsi. La chance infatti, nel senso bataillano di “apertura al possibile” (Bataille 1980) richiede la messa in gioco di sé, la frattura dell’Io narcisistico ed endogamico, la capacità individuale di rivitalizzare risorse diverse da quelle esistenti nello scenario attuale.
Abbiamo visto che la globalizzazione contiene in sé, oggettivamente, antidoti alle sue patologie, apre possibilità inedite all’agire sociale; può attivare forme di reciprocità e di responsabilità impensabili nella prima modernità. Appare persino legittimo costruire su di essa, come fa Jean Luc Nancy, una nuova ontologia della politica, non più intesa come coattiva ricerca del senso (sia esso posto nell’interiorità piena del soggetto o nell’esteriorità vuota della comunità), ma come “annodatura infinita” che ha senso in se stessa e nell’apertura del suo farsi, come “politica del legame” in quanto tale, che non rinvia ad altro che a se stesso e alla sua pura esistenza (Nancy 1997).
Resta tuttavia aperto l’interrogativo sulla capacità soggettiva dell’Io globale di cogliere questa chance; di interrompere il circuito perverso che lo imprigiona nella molteplice identità di attore-vittima-spettatore, per farsi attivo protagonista di una nuova forma dell’essere-in-comune.
A questo interrogativo, che investe in prima istanza il piano antropologico, non si può che rispondere con una scommessa –in senso pascaliano- sul potenziale emancipativo della paura e della debolezza: una scommessa dunque che accetti inevitabilmente e realisticamente la logica del rischio e dell’incertezza, ma che, allo stesso tempo, sia incoraggiata dall’effettiva presenza di eventi simbolici rivelatori di tendenze altre rispetto all’atomismo narcisistico e al comunitarismo regressivo.
Questi eventi simbolici –ed è la mia tesi conclusiva- sono riconoscibili in quel variegato e informale universo dell’agire sociale che, raccogliendo l’invito dei teorici di ispirazione “maussiana”[23], possiamo riassumere nel concetto di “dono”: concreta rivelazione di una coscienza della debolezza che tuttavia non resta imprigionata nella paura, ma riesce a liberare inedite energie coesive, creando i presupposti di una nuova antropologia globale.
Zona interstiziale e parzialmente sommersa, irriducibile sia allo spazio economico del mercato sia alla sfera politica dello Stato, il dono, nelle sue molteplici e concrete manifestazioni (dalle organizzazioni non-profit del cosiddetto Terzo Settore alle semplici pratiche soggettive di donazione: di tempo, di vita, di corpo ecc.), sembra poter incarnare quel “terzo paradigma” destinato a reinstaurare il legame sociale[24], eroso dall’individualismo e distorto dal comunitarismo. “Definiamo dono –dicono infatti Caillé e Godbout- ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale” (Godbout, 1993, P.30).
Due aspetti soprattutto questi autori sottolineano con forza: in primo luogo, il dono varca oggi i confini della sfera intima e privata, cui viene tradizionalmente ascritto, per estendersi alla sfera pubblica e sociale. Anzi, il fenomeno attualmente più rappresentativo è proprio il “dono agli sconosciuti” (dono di organi, di sangue, di tempo, di lavoro), in cui non a caso Godbout riconosce l’emblema stesso del dono contemporaneo; e che appare dunque, possiamo aggiungere, come un evento intrinsecamente “globale”. In secondo luogo, esso non è riducibile alla dimensione “caritatevole” dell’altruismo e della pura gratuità, in quanto esprime sempre e comunque un “interesse” dell’Io: che è tuttavia, soprattutto quando supera i confini territoriali e ideologici per investire l’altro sconosciuto e remoto, interesse alla creazione del legame in quanto tale dettato dalla fiducia nella risposta dell’altro. Laddove l’”altro”, appunto, non coincide affatto necessariamente con il nostro particolare donatario, ma con un qualunque altro, con chiunque risponda, con altrettanta fiducia, al nostro desiderio di appartenenza e di socialità.
In virtù di questa sua asimmetrica reciprocità che reinstaura la fiducia e la partecipazione emotiva al centro del legame sociale[25], il dono appare atto alla rottura dell’atomismo e dell’indifferenza che connota le relazioni globali.
Irriducibile alla pura caritas, di cui Hannah Arendt ha denunciato l’inefficacia sociale e relazionale e dunque il carattere non politico (Arendt 1964, pp.39sgg.,179), il dono è desiderio di appartenenza che ha origine dal sentimento della propria insufficienza e vulnerabilità; e che si mobilita al fine di instaurare il legame sociale con l’altro, indipendentemente dalla sua identità personale, religiosa, etnica o nazionale. In quanto struttura della reciprocità capace di investire la sfera pubblica, ricostruendo un mondo comune attraverso quel tessuto reticolare di obbligo e libertà, di gratuità e reciproche aspettative che lo caratterizza  (Mauss 1965), il dono è dunque eminentemente politico; o meglio cosmo-politico: espressione di un individuo che sa trasformare la coscienza della debolezza nella creazione di un legame il quale si dà nella distanza fisica e geografica e nel totale anonimato dei soggetti dell’agire.
Il dono rompe l’atomismo narcisistico favorito dall’egemonia del mercato globale, senza cadere nella logica regressiva del comunitarismo alimentato dalla crisi dello Stato. Da un lato, esso interrompe la passività e l’indifferenza dello “spettatore” con un impegno che è emotivamente fondato ed è capace di calarsi nella concretezza del corpo e della vita; dall’altro, esso risponde ad un bisogno di comunità, reso più potente dallo slegamento globale, che tuttavia non si realizza più nella costituzione di spazi chiusi e autarchicamente identitari, garanti di uno speculare e rassicurante riconoscimento, ma nell’apertura senza confini all’estraneo, allo sconosciuto; nell’”ospitalità”, direbbe Derrida, verso qualcuno che, pur senza volto né nome, ci appare tuttavia come il donatore di senso della nostra esistenza (Derrida 1995, pp.50-52).
Nel momento in cui si fa soggetto di dono, l’Io globale instaura una nuova forma di uguaglianza che non è né la somiglianza claustrofobica dell’omologazione e del conformismo narcisistico, né l’assimilazione inglobante e agorafobica delle comunità della paura; ma che, in quanto hobbesiana uguaglianza nella debolezza divenuta per la prima volta universalmente vera, è invece condivisione planetaria, “partage”[26] di un comune destino.
L’atto del donare implica una sorta di empatica identificazione con un altro da sé che, pur nella sua lontananza spaziale e nella sua irriducibile differenza, condivide i possibili effetti di uno stesso evento, la comune appartenenza al genere umano. Allo stesso tempo, esso testimonia di una scelta, attiva e consapevole, che rompe l’apatica immobilità e l’illusoria immunità dello spettatore, trasformandolo, potremmo dire con Luc Boltanski, in uno spettatore “commosso” ed agente (Boltanski 2000); vale a dire emotivamente coinvolto dallo spettacolo di un naufragio (sia esso rappresentato dal dolore di esseri umani colpiti dagli effetti dei rischi globali o dallo spettacolo della natura morente) da cui non può mai, egli stesso, sentirsi davvero al riparo.
Il dono appare dunque come la testimonianza fattuale di un riattivarsi della responsabilità che perde però ogni aspetto di astrattezza etico-ontologica e di puro dover essere[27] in quanto scaturisce dalla consapevolezza della propria insufficienza e dipendenza e dai pericoli intrinseci alla propria illimitatezza; e di conseguenza dalla coscienza del fatto che la responsabilità verso l’altro è indissolubilmente connessa alla responsabilità verso se stessi (verso la propria sopravvivenza e la qualità della propria vita), in quanto entrambi potenziali vittime di un agire narcisisticamente illimitato i cui effetti tentacolari si estendono ormai all’intero globo.
Prodotto da un risveglio emotivo che restituisce all’Io globale il senso del limite e il desiderio di legame, il dono instaura un’uguaglianza solidale che accomuna gli individui senza però esigere il sacrificio della loro dissomiglianza: creando simbolicamente le basi per il configurarsi di un legame rispettoso delle pluralità, di una cosmopoli delle differenze. Ma soprattutto il dono può essere assunto ad espressione simbolica di un legame che reinstaura la concretezza, l’attenzione minuziosa e personale, l’azione territoriale pur conservando un respiro globale; divenendo il vettore, per dirla con Revelli, di una “socialità d’arcipelago” (Revelli 2001,p.285), disseminata e orizzontale, concreta e planetaria ad un tempo.
In quanto affidata alla decisione del gesto individuale e alla capacità dell’Io di rinnovare la propria capacità di asimmetrica ospitalità, questa forma di socialità appare inevitabilmente più incerta e rischiosa di ogni universalismo del “pari rispetto” che riponga habermasianamente la propria fiducia in una razionale negoziazione (Habermas 1998); ma allo stesso tempo, essa trova il proprio alimento nella forza coesiva delle “passioni comunitarie” (Pulcini 2001), e nella consapevolezza costante, da parte dgli individui, della necessità della cura capillare e della mobilitazione soggettiva: o, come direbbe Jean Luc Nancy, nella consapevolezza che il legame è sempre e costantemente “da annodare” (Nancy 1997, pp.138 sgg.).
 
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[1] Per una trattazione più ampia dei temi affrontati in questo paragrafo, rimando al mio L’individuo senza passioni (Pulcini 2001).
[2]  Cfr.Esposito 1998, che tuttavia coglie proprio in Hobbes, e nelle origini stesse della modernità, l’inizio della immunitas.
[3] Di “seconda” modernità parla Beck 2000; di “tarda” modernità parla Giddens 1994.
[4] L’allusione è evidentemente a Lasch 1985.
[5] Sull“illimitatezza” in Hobbes, cfr.D’Andrea 1997. Sulla coesistenza moderna di sradicamento e perdita di ordine, incertezza e oltrepassamento del limite, cfr. Blumenberg 1992.
[6] Cfr.Bauman 2000, pp.23sgg. Sulle nuove forme di insicurezza, cfr. anche Giddens, 1994, cap.IV.
[7]  Sulla crisi della sovranità, tema centrale nell’attuale dibattito sulla globalizzazione, mi limito a rimandare a Ohmae 1996, Badie 1996, Sassen 1998, Habermas 1999; cfr. inoltre, in questo volume, i saggi di D’andrea, Bottici, Spini.
[8] Dice Beck 1999, p.25: “Globalità indica il fatto che d’ora in poi nulla di quel che si svolge sul nostro pianeta è un avvenimento limitato localmente, ma che ogni invenzione, conquista e catastrofe riguardano il mondo intero e noi dobbiamo riorientare e riorganizzare la nostra vita e il nostro agire, le nostre organizzazioni e istituzioni, lungo l’asse ‘locale-globale’”.
[9] Sull’autolegittimazione della tecnologia, cfr. Ellul 1969; proprio citando Ellul, sottolinea questo aspetto Bauman 1996, pp.190 sgg.
[10] Su questo passaggio, Riesman 1999, Lasch 1981, Lipovetski 1995; cfr. inoltre Featherstone 1994.
[11] Sugli effetti atomistici del “conformismo” è ancora fortemente attuale la riflessione di Alexis de Tocqueville (Tocqueville 1968), in parte ripresa da Hannah Arendt in Vita activa (Arendt 1964).
[12] Su questo tema cfr., in questo volume, il saggio di Furio Cerutti che sostiene, tra l’altro, la necessità di una differenziazione interna al concetto di “sfide globali” (global warming, minaccia nucleare ecc.). In particolare, sulla minaccia nucleare e sulla cesura che essa produce nell’evoluzione del genere umano, configurando scenari globali, cfr. Cerutti 1991.
[13] “ Oggi in forma di moderna tecnica, la techne si è invece trasformata in un illimitato impulso progressivo della specie, nella sua impresa più significativa, il cui incessante superarsi e avanzare verso mete sempre più elevate si è tentati di ravvisare come vocazione dell’uomo e il cui traguardo di dominio sulle cose e sull’uomo stesso appare come l’adempimento della sua destinazione”, Jonas 1990, p.13. Su questi temi, cfr., come ho già accennato, la riflessione di J.Ellul, tra cui Ellul 1969.
[14] Ho trattato questo tema nella mia Introduzione a G.Bataille, Il dispendio (Bataille 1997). Sulla coppia immunitas/communitas, di evidente ispirazione bataillana, cfr. Esposito 1998.
[15] Su questo tema, cfr. in questo volume, il contributo di Daniela Belliti.
[16] Ho trattato questo aspetto, con particolare riferimento alla minaccia nucleare, nel mio Distruttività e autoconservazione in età nucleare (Pulcini 1991).
[17] Parla, oltre che di “diniego”, di “ritiro narcisistico” di fronte al pericolo nucleare Martin Wangh (Wangh 1986).
[18] Sottolineano la distinzione tra “rischio” e “pericolo” sia Beck (Beck 2000) che Giddens (Giddens 1994).
[19] Sulla distinzione tra “paura” e “angoscia”, cfr. S.Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (Freud 1925), e l’ormai classico J.Delumeau, La peur et l’Occident (Delumeau 1978).
[20] Sulle metamorfosi persecutorie della paura, cfr. Escobar 1997.
Bauman nota a questo proposito come la politica, incapace di far fronte allo stato di insicurezza globale, alimenti di fatto la dinamica persecutoria, convogliando la paura dei cittadini su problemi di sicurezza personale (Bauman 2000, pp.55sgg.).
[21] Definendo quella che egli chiama “euristica della paura”, Hans Jonas afferma: “Soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a cogliere il concetto di umanità che va preservato da quel pericolo. Sappiamo ciò che è in gioco soltanto se sappiamo che esso è in gioco” (Jonas 1990, p.XXVII).
[22] La soravvivenza del genere umano di fronte alle sfide globali viene definita efficacemente da Furio Cerutti un “metaimperativo”, vale a dire “una conditio sine qua non di ogni altro imperativo o metaimperativo” (Cerutti 1995,85). L’importanza del concetto di “genere umano” per una teoria della globalizzazione sembra in qualche caso intuita (Beck 1999; Robertson 1999,p.247) ma non ancora pienamente tematizzata.Sul concetto di “genere umano” come inclusivo delle generazioni future –che è peraltro il tema-chiave di Jonas- cfr. Pontara 1995.
[23] Cfr., oltre a Mauss 1965,  Caillé 1998, Godbout 1993.
[24] Sulla pratica del dono come “terzo paradigma” rispetto al politico e all’economico, cfr., oltre a Caillé e Godbout, anche Salsano 1994; e Id. 1998. Sul Terzo settore come terza forma di “regolazione sociale” fondata su un’economia “solidale”, distinto sia dalla sfera politica dello Stato sia da quella economica del mercato, e produttore di socialità, cfr. Revelli 1997, Parte IV.
[25] Su dono e fiducia, uno dei nessi più interessanti che non è possibile sviluppare qui, cfr. Godbout 1998.
[26] Nancy,1992. Per quest’accezione di “comunità”, la cui fonte riconosciuta è Georges Bataille, cfr. anche Blanchot 1984, Esposito 1998; Cacciari, 1997.
[27] Mi limito qui soltanto a suggerire che una fondazione emotiva e antropologica della responsabilità potrebbe fare, per così dire, da trait-d’union tra la visione ontologica e aprioristica di Bauman (Bauman 1996) e la teoria deontologica di Jonas (Jonas 1990).

Si ringrazia l'editore EDS per il permesso della pubblicazione.