Un problema serio, un referendum sbagliato (3 giugno 2003)

Il prossimo 15 giugno il paese sarà chiamato a votare un referendum (promosso da vari soggetti, tra cui il Partito della rifondazione comunista, componenti della minoranza dei Democratici di sinistra, alcune strutture della Cgil) che intende abrogare alcune parti dell'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300 del 1970), e in particolare quelle che limitano il meccanismo del reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato ai lavoratori di aziende che hanno più di quindici dipendenti.


1. I termini della questione

Non sembri inutile precisare i termini della questione, che sono tecnicamente abbastanza complessi e per di più sono stati arroventati da un dibattito molto ideologico. Infatti è in corso nel paese ormai dal 2001 una dura contrapposizione attorno al significato di quell'articolo nelle relazioni di lavoro. In Italia vige il principio secondo il quale il licenziamento deve essere giustificato, in forza non dell'art. 18, ma di una legge del 1966  per le sole aziende più grandi, estesa alle aziende con più di quindici dipendenti nel 1970 e poi  a quasi tutti i rapporti di lavoro nel 1990. Principio generale, la cui importanza è dimostrata dal fatto che non si tratta di una anomalia italiana: è ad esempio recepito dall'art. 8 della Carta europea di Nizza. Va subito detto che giustificato non significa – come si usa dire – solo "per giusta causa" (cioè per un grave inadempimento del dipendente) ma anche per giustificato motivo "oggettivo", cioè per soppressione del posto di lavoro al quale  il dipendente è addetto. Se un imprenditore decide di riorganizzare la propria azienda sopprimendo una posizione di lavoro e proseguendo la sua attività con 29 dipendenti anziché con 30, può legittimamente licenziare quello eccedente. La questione sorge quando la giusta causa o il giustificato motivo che il padrone accampa si rivelano poi insussistenti. Se il datore di lavoro che viola il principio del licenziamento giustificato ha almeno 16 dipendenti in un unico comune, scatta  un principio che sembrerebbe di buon senso: l'atto vietato non può raggiungere i suoi effetti, il rapporto di lavoro prosegue come se nulla fosse, il lavoratore è reintegrato in servizio e deve essere risarcito del danno subito nel frattempo. Il famoso art. 18 sta tutto qui. La questione si muove dunque nell'ambito delle sanzioni per comportamenti illegittimi del datore di lavoro. Teniamo anche conto che questa norma scatta in un numero molto esiguo di casi, rispetto al totale delle controversie di lavoro. I promotori del referendum chiedono che tale previsione sia estesa anche ai dipendenti delle aziende più piccole, nei cui confronti attualmente vige un regime diverso. Il piccolo datore di lavoro (con meno di sedici dipendenti) che sia incorso in un "errore" di questo tipo se la cava infatti attualmente con poco: un indennizzo minimo (sceglie il giudice, da due e mezzo a sei mensilità)  ma il lavoratore resta comunque fuori.


2. Il contesto politico

Non dimentichiamo che su tale questione è in corso nel nostro paese un confronto duro da almeno due anni. Infatti, il governo di Berlusconi – in tandem stretto con la Confindustria – ha  avviato precocemente una campagna contro l'articolo 18, identificato propagandisticamente come uno dei motivi della scarsa flessibilità del mercato del lavoro e addirittura un disincentivo alla crescita delle dimensioni delle imprese. La limitata norma in questione aveva insomma assunto il ruolo di perno simbolico di uno scontro più ampio, quasi di un primo tassello di un generale disegno di attacco alle consolidate difese dei diritti del lavoro, ereditati da una legislazione che oggi è sotto attacco diretto dei settori neoliberisti. La questione ha dato vita a uno scontro sociale e politico, con la mobilitazione soprattutto della Cgil che ha condotto una battaglia difensiva contro le previste modifiche in senso restrittivo dell'articolo. La vicenda ha implicato – assieme ad altri motivi di contesa –  una profonda spaccatura del tessuto sindacale, dal momento che Cisl e Uil si sono dichiarate disponibili a discutere della questione, che alla fine si è assestata provvisoriamente con il cosiddetto "patto per l'Italia" del luglio 2002, firmato con il governo da Cisl e Uil e fortemente avversato dalla Cgil, guidata allora da Sergio Cofferati. In quel documento si prevedeva alla fine una modifica modesta della norma: la cosiddetta "non computabilità" dei nuovi assunti, oltre la soglia del fatidico numero di quindici, nel far scattare il meccanismo previsto dall'articolo 18, per un periodo sperimentale di tre anni. Questione discutibile e discussa, ma senz'altro più limitata rispetto agli sfracelli inizialmente minacciati. Quindi, potremmo anche dire che il governo si è moderato. I motivi sono stati senz'altro vari: sia la battaglia difensiva di una parte del movimento sindacale, affiancata da un ampio consenso nell'area del centro-sinistra politico, sia la pressione dei sindacati che hanno scelto la contrattazione sul merito della questione, hanno pesato in questa direzione (non vogliamo qui addentrarci nel delicato snodo delle divisioni sindacali). Fatto sta che su questa situazione già tesa si è innestata la proposta – da parte dell'area che si autodefinisce di sinistra "radicale" – del referendum allargativo della fattispecie dell'art. 18, su cui oggi siamo chiamati a votare. E' difficile non vedere in questa proposta una logica di tipo politico complessivo, molto distante dal merito della questione: l'idea che le battaglie positive per la sinistra siano solo quelle d'attacco, ancorché minoritarie, rispetto alle logiche difensive o alle onorevoli mediazioni che allarghino il quadro. C'è insomma uno smodato desiderio di raccogliere e valorizzare comunque lo "zoccolo duro" della sinistra attorno a battaglie di principio, con benefici effetti di ricompattamento, a prescindere da una attenta considerazione delle loro conseguenze: è una concezione settaria della politica che va criticata e che certamente non può contribuire ad una svolta progressista della società. In termini più tattici, c'è nella proposta la volontà di Bertinotti di ridimensionare il capitale politico accumulato da Sergio Cofferati con le posizioni degli ultimi anni, che l'ex leader della Cgil sembra intenzionato a giocare nell'area del centro-sinistra e non fuori da essa. E più in generale, l'intenzione di far deflagrare il campo del centro-sinistra, in cui puntualmente l'occasione ha portato a molteplici divisioni.


3. Le opzioni in gioco: le ragioni per il "si".

Ora, è evidente che il problema che si pone di fronte al quesito referendario è delicato. Infatti, in linea di principio il problema non è irrilevante, ancorché non intacchi direttamente la problematica della legittimità dei licenziamenti. Va infatti ribadito che un forte regime sanzionatorio è in qualche modo "la madre di tutti i diritti" perché solo il dipendente che sa di poter  contare su una forte sanzione contro il licenziamento illegittimo è in grado di far valere anche nel corso del rapporto i suoi ulteriori diritti: con una ricaduta in termini di tutela delle condizioni di lavoro (e sappiamo quale sia – ad esempio – la gravità del problema infortuni in Italia) e di tutela della concorrenza (solo il lavoratore che sa di poter essere tutelato è in grado di rivendicare la sua "uscita" dal mondo del lavoro nero). In questo quadro, l'estensione dell'art. 18 apparirebbe logica. Non dovrebbe fare scandalo che un dipendente colpito da un atto illegittimo veda ripristinata dal giudice la situazione quo ante; anzi semmai dovrebbe fare scandalo il contrario. D'altra parte già oggi la normativa prevede che contro il licenziamento discriminatorio (peraltro sempre difficilissimo da dimostrare) la sanzione sia – in tutte le aziende, anche con un solo dipendente – la reintegrazione nel posto di lavoro. In questo senso indubbiamente i promotori del referendum si avvalgono della linea precedentemente usata nella battaglia difensiva dell'art. 18: era una questione di diritti e quindi deve essere gestita universalisticamente. Torneremo su tale punto più avanti. Qui merita invece dire che queste ragioni non sono trascurabili. E quindi che non riteniamo accettabile la campagna pubblicitaria della Confindustria, che nuovamente collega il successo del "no" alla estensione delle assunzioni, alla crescita dell'occupazione (e dunque il "sì", come è stato espressamente detto, ad una "catastrofe" per l'economia). Il legame flessibilità/occupazione è notoriamente apodittico e indimostrato: a maggior ragione lo è con riguardo alla flessibilità "in uscita" dal posto di lavoro, che rappresenta invece soprattutto un'arma politica del datore di lavoro, in quanto il lavoratore esposto al licenziamento è un lavoratore più debole in qualsiasi rivendicazione. Questo bisogno "politico" – per contrastare il quale è sorta tutta la legislazione protettiva degli anni 70 – non può assolutamente essere assecondato, quantomeno a sinistra. Dalle considerazioni sopra esposte, risulta impossibile accedere alla tesi del "no": esso ingesserebbe la normativa attuale, che invece appare senz'altro migliorabile. E inoltre sarebbe interpretato come un motivo di ritorno di fiamma per le posizioni più rigide presenti nel governo, che va ricordato sta sviluppando – come si evince da una serie di misure presenti nella legge 30/2003 di riforma del mercato del lavoro – una linea incentrata sulla riduzione del costo del lavoro e dei vincoli normativi e sull'introduzione di tipologie contrattuali sempre più flessibili volta a favorire le imprese.


4. Le opzioni in gioco: i motivi contrari al "sì".

E' ben vero, peraltro, che ogni discorso su questi delicati temi non può non prendere in considerazione il quadro economico-sociale complessivo. Insomma, la logica del legislatore del 1970 che fissava un limite di attuabilità del reintegro, non era affatto campata in aria. Non è ovviamente sostenibile che nelle piccole imprese, dove il rapporto di lavoro si basa in generale su un elemento fiduciario, di cooperazione diretta e di conoscenza stretta, si possa allegramente utilizzare il meccanismo del reintegro. Ne nascerebbero motivi di contestazione numerosi e soprattutto una condizione di crisi diffusa nel sistema delle piccole imprese italiane, che come è noto rappresenta la gran parte del tessuto produttivo del paese (nel bene come nel male). Questo discorso, al di là di ogni drammatizzazione, mette in gioco seriamente la motivazione del voto per il "sì": infatti anche i più sensati sostenitori del referendum ammettono che la situazione legislativa sarebbe da riprendere e sistemare dopo il voto, in caso di vittoria del quesito abrogativo. E' ben vero che si può ritenere insufficiente l'attuale criterio distintivo, basato solo sul numero dei dipendenti: oggi sono sottratti all'art. 18 sia il fruttivendolo dell'angolo che ha un dipendente, sia la multinazionale che opera in Italia con dieci dipendenti e (magari) profitti altissimi: è chiaro che il mero criterio delle dimensioni occupazionali è ormai profondamente ingiusto e va auspicabilmente saldato ad altri criteri. Ma che criteri di graduazione ci siano è un punto decisivo che permette la stessa applicabilità della norma. Tutto ciò non significa contraddire il ragionamento sui diritti fatto in precedenza: è chiaro che siamo su un terreno di applicabilità dei diritti e quindi su un terreno in cui la graduazione delle possibilità è l'unico modo concreto in cui si difende il principio generale. Se vi è infatti un terreno dove il diritto non è mai diritto assoluto, ma deve sempre essere mediato dalla considerazione attenta della tecnica normativa e dal confronto con il fenomeno economico (la vendita della forza-lavoro) che vuol regolare, questo terreno  è proprio quello del diritto del lavoro.


5. Oltre il referendum

Inoltre, non si può non considerare come i veri punti aperti della normativa in materia – che pure ha dato prova ampiamente positiva in questi trent'anni – vadano molto oltre il referendum. Uno l'abbiamo già citato: si dovrebbe arricchire il criterio di distinzione tra le tipologie di imprese che rientrino nelle previsioni dell'articolo 18. Inoltre, è vero che i criteri per l'individuazione del licenziamento legittimo "per ragioni economiche" sono quanto mai evanescenti e di difficile applicazione. Ciò al contrario di quelli per "giusta causa", su cui la giurisprudenza è ormai consolidata. Sicchè due dipendenti licenziati "per giustificato motivo oggettivo" (cioè appunto per ragioni economiche) possono  trovarsi  l'uno cospicuamente risarcito e reintegrato, l'altro senza un quattrino a seconda delle mutevoli opinioni dei giudici e senza che tra le situazioni dell'uno o dell'altro sussista una apprezzabile differenza. Il problema è reale. L'ipotesi che è stata avanzata è quella di un regime "sanzionatorio" unico per tutti i licenziamenti incolpevoli, senza imporre al giudice di ricercare se la ragione economica addotta sia meritevole di tutela o no: in altre parole, se voglio liberarmi di un lavoratore perché ritenuto non più utile all'organizzazione aziendale devo provvedere al suo "mantenimento" (che si affianchi ad una forte tutela pubblica contro la disoccupazione) per un tempo ragionevole (una sorta di "preavviso lungo" come ipotizzato da una vecchia proposta Treu). Una simile strada – oltre a presupporre condizioni di welfare oggi neanche immaginabili – finirebbe però inevitabilmente per far saltare il principio della reintegrazione aprendo la strada alla dissimulazione sotto ragioni economiche di qualsiasi tipo di licenziamento. E' anche noto che una "variante" derivante da considerazioni simili è il modello cosiddetto "tedesco", cioè di una reintegrazione rimessa alla decisione del giudice che dunque potrebbe sanzionare con la reintegrazione i licenziamenti più palesemente ingiusti e con il mero risarcimento quelli più dubbi. Proposta  che anch'essa suscita forti dubbi, per l'eccessivo potere riservato al giudice ma che potrebbe essere moderata con l'indicazione legale dei criteri cui il giudice si deve attenere nella scelta tra l'uno e l'altro sistema. Infine, non possiamo non ricordare come l'attuale sistema per sopravvivere avrebbe bisogno almeno di una condizione processuale favorevole: la reintegrazione ha senso solo se relativamente sollecita (e i tempi medi dei tribunali di molte parti d'Italia viaggiano appunto due anni per il solo primo grado!), per non causare scompensi eccessivi. Nel precedente governo una commissione ministeriale aveva formulato delle proposte sul punto, poi lasciate cadere puntualmente nel vuoto. Su tutti questi temi occorre quindi ragionare apertamente, ben oltre il ristretto campo previsto dal referendum.


6. Far fallire il referendum
 

In termini di giudizio complessivo, quindi, il referendum appare come una scelta sbagliata, intempestiva, e sicuramente dannosa per una reale prospettiva di riforma e miglioramento del sistema. Il suo retroterra politico è legato a una visione delle lotte sociali e a una lettura dell'attuale scenario politico italiano che riteniamo molto fuorviante. In questo senso, ricordiamo come la costituzione all'art. 75 ha previsto il meccanismo referendario con l'esplicita indicazione della clausola della partecipazione della maggioranza degli elettori per la sua validità. E' una sorta di importante salvaguardia, che in qualche modo dà all'elettore una possibilità di valutazione in più di ogni quesito referendario: si può anche scegliere deliberatamente l'astensione quando si ritenga sbagliato il quesito o impropria la scelta proposta. Non condividiamo la critica per cui questo significherebbe montare una campagna contraria allo spirito democratico e civico di partecipazione. Certo, sarebbe auspicabile un uso più attento e selettivo dello strumento referendario, che non contribuisca al suo progressivo svuotamento di fronte all'opinione pubblica (cosa che si sta puntualmente verificando, con il fallimento di molti quesiti proposti al voto negli ultimi anni, che non hanno raggiunto il quorum). Ma di fronte a una situazione difficile, la scelta dell'astensione appare sicuramente legittima. L'allargamento dei diritti dei lavoratori della piccola impresa rimane comunque un obiettivo urgente, ma da perseguire attraverso la strada della politica e della legislazione. I mutamenti profondi del mercato del lavoro avvenuti in questi anni impongono nuove risposte alla domanda di sicurezza e di tutela del lavoro, i cui primi e fondamentali passi sono le politiche attive per il reinserimento professionale di chi perde il lavoro, le tutele dei nuovi lavoratori "atipici" che non hanno contratti di lavoro dipendente, e infine una seria riforma dei necessari "ammortizzatori sociali" per le situazioni di crisi.

Milano, 3 giugno 2003