La sfida della riforma scolastica (15 giugno 2001)
Almeno a parole, tutte le forze culturali e politiche sono oggi d’accordo sull’idea che una delle priorità di qualsiasi Stato moderno è investire una quota maggiore di risorse per la formazione. L’Italia è in questo senso in condizioni particolarmente svantaggiate rispetto alle altre democrazie avanzate e deve quindi recuperare un ritardo accumulato nei decenni. L’esplosione della domanda di istruzione che anche il nostro paese ha conosciuto, è stata infatti finora incanalata in modelli molto tradizionali, investendo in questo settore una quota della ricchezza nazionale troppo modesta: le conseguenze sono note, in termini di abbandoni scolastici ancora elevatissimi, diffusi analfabetismi di ritorno e inefficienza notevole in quanto a numeri ed età relativa di diplomati e laureati. Ci vuole quindi un grande impegno progettuale, finanziario, organizzativo, per dare finalmente al sistema formativo del paese una dimensione adeguata alle sfide che ha di fronte. Non si tratta solo di investimenti scolastici in senso stretto: occorre crescere nell’idea che molti soggetti offrano risorse formative (dalle agenzie culturali alla società civile, fino alle imprese stesse) in vista dell’accumulo di un potenziale formativo che diventi un bagaglio di tutta la società. Si pensi in questa direzione quanto è importante l’ampliamento ormai acquisito dell’idea di “obbligo scolastico” verso quella di un “obbligo formativo”, che sarà fissato all’età di 18 anni e prevede il passaggio dei giovani attraverso il canale scolastico oppure altri percorsi formativi (formazione professionale, apprendistato…). In questa logica sistemica, non occorrono nemmeno solo investimenti organizzativi: urgono anche investimenti culturali. Occorre soprattutto un grande impegno a motivare l’urgenza e il significato della formazione, nei confronti di giovani generazioni che non crescono più con l’idea che la loro promozione sociale passi necessariamente attraverso l’istruzione e la cultura. Ad esempio, proprio in settori del ricco Nord del paese, molti giovani sembrano sempre meno attratti dalla noiosa e ripetitiva carriera scolastica, preferendo scorciatoie verso lavori immediatamente remunerativi.
1. Una riforma necessaria.
I cambiamenti sociali e civili a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni hanno investito anche la scuola, che resta un perno fondamentale del sistema formativo di un paese. Occorre tenere in considerazione il legame tra la scuola e il più ampio ambiente civile: essa si colloca infatti in una società mobile e inquieta. Si pensi solo a tre questioni decisive: la maturazione nelle nostre società complesse di una esigenza formativa di massa ormai generalizzata, ma contemporanemente pluriforme e differenziata; una nuova percezione della “dimensione pubblica” della vita sociale, in via di profonda modificazione a fronte di esigenze individualistiche crescenti; e infine l’inserimento dell’Italia in un orizzonte europeo a carattere sempre più integrato e vincolante. Queste trasformazioni hanno portato a maturare le esigenze di una profonda modificazione strutturale, organizzativa e contenutistica dell’apparato scolastico italiano. Detto in termini sintetici, occorreva iniziare un processo di adeguamento della scuola italiana, in cui sono ancora presenti marcati caratteri di istituzione élitaria di grande qualità (che seleziona tendenzialmente secondo i punti di partenza sociali), frammisti però alla confusa pluridecennale apertura alla dimensione di massa che ha via via scolorito il modello tradizionale. Occorre uscire da questo magma indistinto verso un consapevole nuovo modello che preveda una scuola – potremmo dire finalmente e veramente “per tutti” – che sia più efficiente e adeguata nel suo genere, fornendo quindi una solida minimale base formativa alle nuove generazioni, senza mortificare peraltro gli spazi per la diversità dei percorsi e per una formazione più specialistica e mirata, sia al suo interno che collegandosi a realtà esterne. Occorreva per questo avvicinare gli itinerari curricolari e l’asse formativo agli standard europei, per poter dar corso a quegli scambi e riconoscimenti reciproci che sono richiesti dalla maturazione del processo di integrazione. Occorreva costruire un più adeguato rapporto tra scuola e società, che ridefinisse luoghi e funzioni dell’educazione in un sistema pubblico. Occorreva semplificare e rendere più flessibili i percorsi d’istruzione. Queste le sfide che il processo di riforma scolastica avviato da qualche anno ha tentato di affrontare: al di là di ogni valutazione sui risultati delle iniziate riforme legislative, occorre riconoscere che i problemi esistevano. Quindi, qualsiasi decisione politica si prenderà su tale itinerario (anche ad opera del nuovo governo e della nuova maggioranza parlamentare) non potrà sorvolare su questi problemi, per meschine logiche di maggioranza. Al contempo, ci sembra di poter dire qualcosa sui criteri per la verifica di quanto già fatto e di quanto resta da fare, in questo percorso.
2. Educare deve restare compito specifico e primario della scuola.
Non pare inutile ricordare che la dimensione educativa della scuola non può essere trascurata in un processo riformatore. La scuola è una struttura specializzata, che fa parte di un più ampio impegno educativo della società nei confronti delle giovani generazioni. Essa non deve esorbitare dai suoi compiti, rischiando di sottrarre spazio alla famiglia, alle organizzazioni sociali, alle altre agenzie di comunicazione dei valori. Ma non può ridursi a un luogo di trasmissione di alcune competenze sociali e soprattutto professionali, come un mero strumento di acquisizione di abilità tecniche idonee a spendersi sul mercato delle nuove opportunità lavorative. La misurazione della validità dell’istruzione non può avvenire solo sulla base dei saperi di “consumo”, rispondenti a bisogni immediati. Secondo la propria specifica ottica, che è quella dell’accompagnamento dei giovani verso una piena maturazione intellettuale, affettiva e sociale, la scuola deve restare esperienza globalmente educativa. In questa direzione, qualsiasi riforma deve rispettare un ventaglio di priorità e un asse culturale che hanno a che fare con i capisaldi di una piena formazione umana. Tra l’altro, anche il mondo del lavoro più consapevole richiede alla scuola persone che abbiano una buona cultura generale e una spiccata capacità critica, piuttosto che automi in possesso delle ultime competenze tecniche (destinate a invecchiare rapidamente). Quindi, ci sembra da controllare una certa tendenza alla precoce specializzazione e tecnicizzazione dei saperi trasmessi dalla scuola, a danno di competenze sul terreno linguistico, letterario, storico, ideale, che sono decisive per il futuro dei nostri ragazzi. Occorre prendere coscienza che questo è il tempo di nuove sintesi: tra sapienza e tecnica, tra tradizione e innovazione. Ci pare che la riforma in atto possa essere coerente con questa impostazione fondamentale, che però si verificherà non tanto e non solo nelle dichiarazioni di principio, ma sorvegliando attentamente tutto il suo lungo e complesso iter attuativo.
3. La scommessa dell’autonomia e i suoi necessari limiti.
Il primo significativo processo di cambiamento avviato è la definizione dell’autonomia organizzativa, gestionale e didattica di ogni Istituto. Quello dell’autonomia infatti è un sistema che, almeno potenzialmente, sembra in grado di valorizzare nuove forme di responsabilità, di favorire un rapporto più fecondo della scuola sia con le componenti della “comunità scolastica” (genitori, insegnanti, studenti stessi), sia con le risorse umane, culturali, economiche di ogni realtà locale. Occorre uscire dall’idea della “scuola di Stato” nella sua accezione burocratica e verticistica. Attraverso un’effettiva responsabilizzazione degli operatori scolastici, diventa più praticabile la costruzione di una scuola meglio inserita nel tessuto sociale e più dinamica nel tessere reti di relazioni all’interno delle comunità locali. Si pensi al fatto che la riforma prevede l’attribuzione alle singole scuole anche della responsabilità di fissare i curricoli, cioè la distribuzione oraria di discipline e aree formative (all’interno di indicazioni nazionali, ma con margini di flessibilità abbastanza significativi). Il processo si collegherà alle maggiori responsabilità che ricadranno sugli enti locali in materia di ordinamento scolastico (nella prospettiva della riforma federalistica dello Stato). Certamente non possiamo nasconderci i rischi e i correlativi limiti da porre a tale processo: per evitare l’indebolimento dell’idea della scuola come “bene comune” di un popolo, qualsiasi spinta verso l’autonomia richiede che si salvaguardino un minimo di unitarietà e coerenza dei processi formativi, in modo da non discriminare i diritti fondamentali degli studenti in qualsiasi istituto si trovino. Inoltre l’autonomia è coniugata spesso con “competizione”: ci sembra eccessiva l’enfasi in questa direzione: pensiamo corretto tentare di correggerla con la considerazione che sul terreno educativo la concorrenza non sempre avviene al meglio, e quindi va introdotta a dosi moderate. L’equilibrio non sarà semplice, ma è la scommessa del futuro.
4. I nuovi cicli scolastici e i percorsi curricolari.
La riorganizzazione del pianeta-scuola si sta realizzando anche attraverso la complessa riforma dei cicli scolastici e dei percorsi curricolari: la legge 30/2000 ha configurato a questo proposito la più radicale innovazione strutturale dai tempi di Giovanni Gentile. La sua logica complessiva è quella dell’unificazione di elementari e medie in un’unica “scuola di base” (che durerà un anno in meno del passato), e la semplificazione dei percorsi della frammentata scuola superiore attuale. In questo modo, con l’obbligo scolastico elevato a 16 anni, si giungerà all’approdo universitario – oppure al nuovo delicatissimo settore dell’istruzione post-secondaria di altra forma – a 18 anni, in linea con i maggiori paesi europei. In questo quadro, dovrebbero essere più efficaci l’orientamento, la flessibilità e la continuità educativa, in modo da ridurre traumi e abbandoni scolastici ancora elevatissimi. La riforma apre prospettive interessanti per il lavoro degli insegnanti a diretto contatto con gli alunni. Si rende effettivamente possibile una prassi didattica meno statica e ripetitiva, più ricca sul piano qualitativo, più idonea a creare trasversalità tra le diverse discipline. Senza dubbio la fisionomia dei nuovi cicli può far nascere qualche perplessità e andrà incontro a difficoltà di tipo organizzativo. La volontà di introdurla a tappe forzate, coinvolgendo fin da subito due classi d’età, è stata criticata per le conseguenze delicate che avrebbe avuto a un certo punto sulla scuola superiore. Soprattutto, la verifica dei nuovi percorsi curricolari (cioè la costruzione dei cammini didattici con le materie di studio e la loro relativa distribuzione) è appena avviata e non sarà semplice: alcune delle prime anticipazioni hanno già destato perplessità e discussioni. E’ naturale e giusto che il dibattito sia anche vivace a questo proposito, con l’auspicio che in esso intervengano non solo i gruppi di esperti, ma anche la più ampia comunità civile.
5. Il nodo della “parità scolastica”.
I processi di cambiamento in atto nella scuola gettano una nuova luce anche sulla annosa questione della parità scolastica. Attraverso il superamento di arcaici pregiudizi e delle convenienze economiche e politiche di parte, sembrano faticosamente acquisite le basi di un nuovo approccio al problema: la dicotomia tra scuola pubblica e scuola privata oggi va superata. L’esercizio della funzione “pubblica” della scuola va vista in un contesto non di univocità, ma di pluralità, in un sistema pubblico di istruzione che abbia componenti statali e non statali: questa acquisizione sta già nel dettato della legge sulla parità scolastica approvata dal parlamento. Proprio lo spirito dell’autonomia ci porta a vedere la scuola come una realtà plurale che, nella misura in cui è effettivamente una risorsa della comunità, acquista una rilevanza e una funzione costitutivamente pubblica. Ma per questo è indispensabile una progettualità coerente, un quadro comune di riferimento di ordine culturale e giuridico, di cui devono farsi carico sia le istituzioni e i soggetti politici, che le stesse realtà scolastiche statali e non statali. I meccanismi attuativi di un tale modello complessivo sono peraltro ancora discussi: ad esempio, a noi sembra del tutto inadeguato il modello del cosiddetto “buono scuola” – cioè l’assegno statale per coprire i costi dell’istruzione, attribuito alle famiglie, che possono impiegarlo in qualsivoglia istituzione scolastica – perché favorisce un approccio privatistico, che ricadrebbe poi a favore dei settori privilegiati della società, che lo utilizzerebbero certo al meglio; indurrebbe poi una frammentazione insensata della formazione scolastica, favorendo la formazione di scuole culturalmente chiuse e poco integrate tra loro; infine, rischierebbe di squilibrare il bilancio dell’istruzione, a danno irreversibile dell’offerta scolastica dello Stato, che è un dovere previsto dalla Costituzione. Un sistema di convenzioni e di riconoscimenti pubblici della diversa qualità degli istituti privati di istruzione (connesso anche alla copertura pubblica di alcuni costi degli istituti non statali, che la collettività giunga a riconoscere come significativi, in ordine alla funzione sociale della scuola non statale) ci sembrerebbe più consono a un modello serio di integrazione delle risorse. Non a caso, tale modello è stato efficace nel sistema della formazione professionale (almeno nelle regioni più avanzate del paese). D’altronde, c’è il corrispettivo nodo aperto della responsabilità che gli istituti non statali assumerebbero in questa direzione e quindi delle forme di controllo sociale ed istituzionale che essi sarebbero disposti a sostenere.
6. Un lavoro da compiere con il coinvolgimento di tutte le risorse.
Come in tutti i processi di riforma, molteplici difficoltà e resistenze esistono anche in questa occasione. Spesso si tratta di resistenze ideologiche, motivate da una semplice contrapposizione agli autori del progetto. Non si è, ad esempio, compresa nello specifico la ragione della critica delle forze politiche di centro-destra alla riforma, condotta in campagna elettorale con toni smaccatamente generalizzanti e demagogici. La stessa proclamata volontà del nuovo governo di far slittare la riforma – e quindi di modificarla profondamente – resta per ora motivata in modo abbastanza vago. C’è poi una semplice resistenza da inerzia del passato, con le relative incrostazioni di piccoli interessi e di comodità che si sentono minacciate. Ci sono anche critiche più fondate, che vengono dall’interno del mondo della formazione, che sottolineano le perplessità diffuse tra gli operatori, la sensazione di inadeguatezza a gestire il cambiamento, la mancanza di strumenti concettuali e operativi diffusi. Il rischio di una risposta verticistica e in qualche modo “illuministica” esiste: non si può invece a nostro parere tagliare la testa alle difficoltà con l’imposizione di progetti maturati in ristrette sedi. Occorre coinvolgere tutti gli operatori e in particolare il decisivo corpo insegnante, che deve essere responsabilizzato, deve poter partecipare all’elaborazione, ed essere anche incentivato a sperimentazioni e mutamenti del proprio ruolo (con gli adeguati necessari investimenti anche economici). Come, d’altra parte, analoga attenzione dovrà essere rivolta alle famiglie, che non possono soltanto ricevere istruzioni dall’alto senza essere adeguatamente informate dei forti e improvvisi cambiamenti che interessano i propri figli. Questo iter partecipato e capillare – che non è ancora stato avviato con la necessaria determinazione – ci parrebbe una delle premesse indispensabili per la buona riuscita del progetto riformatore.
15 giugno 2001
