I nuovi referendum e la nostra democrazia (14 aprile 2000)

La nuova ondata di referendum che ci saranno proposti per il voto il prossimo mese di maggio costituisce come sempre un’occasione delicata di responsabilità democratica. Sono in gioco complesse questioni legislative, le quali sottendono chiare opzioni etico-politiche, che è bene decifrare, depurandole dalla demagogia con cui spesso sono presentate.  Inoltre, l’appuntamento solleva importanti questioni più generali riguardo all’istituto referendario stesso e al suo significato in una democrazia matura e già per molti aspetti sofferente, come quella italiana.


1. Il referendum è sempre un’occasione di democrazia, ma di troppi referendum la democrazia può morire.

La convocazione degli elettori per tornate massicce di quesiti referendari non è una novità. Ultimamente, essa è frutto in modo particolare delle iniziative del partito radicale, che si ripetono ogni anno su disparate materie, sfruttando un’organizzazione ormai perfettamente oliata che permette di gestire con disinvoltura la raccolta del numero necessario di firme per proporre un referendum. L’abilità mediatica della coppia Pannella-Bonino sfrutta con forza questi appuntamenti per dettare i temi dell’agenda politica, con un abile tocco di gridato vittimismo, relativo alla presunta scarsa pubblicità della campagna di raccolta delle firme e poi dei quesiti stessi. Quest’anno si è aggiunta anche la polemica montata ad arte contro la Corte costituzionale, rea di aver ritenuto inammissibili molti quesiti tra i venti proposti: in realtà alcuni di essi erano stati inventati con chiari intenti provocatori, in quanto trattavano materie come quella fiscale che la costituzione espressamente vieta poter essere oggetto di referendum.

In generale, la strategia referendaria pone però più di un problema. Il referendum abrogativo di leggi esistenti (questa è la forma con cui la nostra costituzione lo ha previsto) è infatti indubbiamente un grande strumento di democrazia diretta, ma la sua fisiologia in un sistema democratico maturo richiede che sia gestito con prudenza e non venga inflazionato, riservandolo a casi in cui veramente esista una difficoltà del parlamento a riformare la legislazione per via ordinaria, oppure si siano approvate leggi altamente controverse nella coscienza civile, che meritino una sorta di «giudizio d’appello» dei cittadini. Naturalmente non tutti i referendum su cui siamo chiamati a votare sono frutto di irresponsabilità nell’iniziativa dei promotori. Ma nel grande numero, molti quesiti appaiono proprio fuorvianti, tanto da gettare un’ombra su tutta la strategia. Infatti, si presentano molteplici e ricorrenti quesiti molto tecnici e particolari, che spesso non mirano ad abrogare una legge ma a riformarla ritagliando minuziosamente specifiche misure e previsioni. Di fronte ad essi, la saturazione dell’elettorato è ormai evidente, mentre l’insistenza ripetuta sul modello referendario contribuisce a scalzare ulteriormente l’idea che la classe politica parlamentare possa e debba affrontare in via ordinaria le materie più delicate che interessano ai cittadini. Altre distorsioni riguardano lo stesso esercizio del voto: di fronte a quesiti complessi e delicati, su cui la formazione di un’opinione precisa e motivata è cosa ardua, gli schieramenti si creano in modo demagogico e spesso ogni quesito trascina l’altro, senza una reale possibilità di giudizi ed espressioni ponderate del voto.

I rimedi a tutti questi pericoli possono essere di tipo normativo (ad esempio si potrebbe modificare la legge istitutiva del meccanismo referendario, per alzare la soglia delle firme necessarie), ma devono essere soprattutto legati a una seria riflessione della classe politica, che non può e non deve, per strette ragioni di parte, mettere in questione il sano funzionamento della democrazia.


2. I quesiti sulle leggi sociali.

In questo settore, i due quesiti sopravvissuti al giudizio della Consulta riguardano: l'uno, la disciplina sui licenziamenti individuali, e l’altro il sistema di riscossione delle quote associative di alcune categorie di lavoratori dipendenti e autonomi. Quest'ultimo quesito risulta peraltro incongruente con l'obiettivo annunciato dai referendari, i quali sono incappati in un errore tecnico piuttosto grossolano. Infatti, l'eventuale abrogazione della legge 311/73, che è quella sottoposta a referendum, non colpirebbe – come era nelle loro intenzioni – il meccanismo di ritenuta alla fonte da parte degli enti previdenziali delle quote sindacali dei pensionati (regolato invece dalla legge 485/72), ma il sistema di riscossione delle quote associative –  tramite gli stessi enti – dei lavoratori dipendenti in mobilità o in cassa integrazione e di alcune categorie di lavoratori autonomi. Tale svarione, tuttavia, se restringe l'obiettivo dei radicali finalizzato ad indebolire una fonte significativa del reddito delle confederazioni sindacali, colpendo la forte categoria dei pensionati, non riduce la portata simbolica di una iniziativa a carattere squisitamente antisindacale.

Ancora più delicato è l'altro quesito referendario, con il quale si chiede la cancellazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, cioè di quella norma oggi in vigore nelle unità produttive con più di 15 addetti che prevede, in caso di licenziamento decretato dal giudice come illegittimo – quindi in assenza di giusta causa o di giustificato motivo – la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro. Con il referendum, i promotori puntano a ridurre la protezione oggi esistente in materia di licenziamenti individuali, superando la quale scatterebbe per le aziende di ogni dimensione la cosiddetta tutela obbligatoria attualmente prevista nelle imprese con meno di 15 addetti: in caso di licenziamento che venga dichiarato illegittimo, l’azienda potrebbe optare o per la riassunzione del dipendente – economicamente meno gravosa della reintegra, in quanto il lavoratore perde tutti i benefici retributivi e di anzianità professionale fino a quel punto maturati – o per la corresponsione al lavoratore di un’indennità monetaria pari ad alcune mensilità della sua retribuzione.

I referendari, consapevoli di toccare un tema delicato per l'opinione pubblica,  mascherano la loro impostazione ultraliberista sostenendo che la vittoria referendaria renderebbe maggiormente flessibile un mercato del lavoro sostanzialmente ingessato, in modo da creare maggiori opportunità di lavoro. In realtà, con un successo del sì, il nostro paese arretrerebbe sensibilmente sul versante della tutela dei diritti fondamentali del lavoratore, abrogando una normativa che ha soprattutto rappresentato un deterrente per l'uso del licenziamento discriminatorio e come strumento di pressione verso quei lavoratori indisponibili a cedere sul piano dei diritti sindacali. Per tale motivo risultano inadeguate anche quelle proposte legislative in materia che sono state messe in campo – da soggetti politici di entrambi gli schieramenti – per evitare la consultazione referendaria e che di fatto, proponendo la cancellazione della reintegra, abbassano la soglia delle garanzie del lavoro, sostituendole con accorgimenti di natura soprattutto finanziaria. Il diritto al lavoro, anche in presenza di un licenziamento ingiusto e dichiarato illegittimo dal giudice, diverrebbe così una variabile dipendente da parametri socioeconomici contingenti. Siamo quindi di fronte a un ennesimo aspetto dell’offensiva culturale e politica neoliberista, in cui l'approccio alla questione dell'occupazione appare sempre più monotematico (flessibilizzare l'offerta di lavoro e il suo costo appare l’unico imperativo).


3. La questione elettorale.

Uno dei poli di attrazione di questa tornata è la riproposizione del referendum sull’abolizione della residua quota proporzionale per l’elezione del 25% dei deputati, prevista dalla legge elettorale del 1993 (il cosiddetto Mattarellum). Si tratta della fotocopia di un referendum già votato l’anno scorso, cui mancò il quorum della metà più uno degli elettori necessario per convalidarne gli esiti.

L’iniziativa della sua immediata riproposizione – assunta dai vecchi sostenitori del maggioritario e da partiti come Alleanza nazionale e i Democratici – è stata ritenuta legittima, ma lascia molto perplessi come metodo, quasi si volessero prendere gli elettori per sfinimento. La vittoria referendaria lascerebbe una legge elettorale funzionante ma paradossale (in molti collegi sarebbero eletti sia il vincitore che il perdente). La questione sostanziale è poi molto tormentata e discussa: i promotori sostengono che l’abolizione di quella quota, facendo scomparire dalla scheda le liste di partito a favore delle presenza delle sole aggregazioni che competano per il governo, sarebbe un passo decisivo verso il maggioritario secco e la creazione di un bipolarismo efficiente. Inoltre presentano l’iniziativa come un gesto simbolico per arginare il ritorno dei vecchi metodi politici. I critici obiettano invece che si tratta semplicemente di una minaccia di sostanziale penalizzazione verso i partiti che non intendano collegarsi nei due «poli» maggiori, e di un più generale segnale politico contrario al ruolo dei partiti.

Fondati dubbi sono possibili sugli effetti virtuosi di una vittoria del referendum nella riduzione del caricaturale pluralismo partitico che è fiorito sulle macerie del crollo del vecchio sistema politico: sembra infatti lo stesso meccanismo del maggioritario uninominale che incentiva le due alleanze a blandire gruppi e personalità marginali, i cui rappresentanti sono eletti nei collegi uninominali da tutti gli elettori della coalizione e il giorno dopo le elezioni riprendono ad agire in proprio, con criteri del tutto tradizionali. Più in generale, occorre ricordare che la sudatissima transizione italiana dal 1993 ad oggi ha visto fin troppa enfasi sulla modificazione dei meccanismi istituzionali come via alla riforma della politica. Oggi dovremmo essere tutti più sobri e un po’ scettici su questa unilaterale visione: le riforme istituzionali hanno certo la loro importanza, ma la riforma della politica ha bisogno di ben altri strumenti congiunti, quali la riforma dei soggetti e delle culture politiche, per poter dare i suoi frutti.


4. Il finanziamento pubblico dei partiti.

Anche in questo caso, siamo di fronte a una vicenda annosa e tormentata, segnale di un problema delicato e difficilmente superabile. Già si è svolto un referendum su questa materia nel 1993, che ha abolito la precedente legge che stabiliva un finanziamento pubblico per i partiti. Le forze politiche sono subito corse ai ripari: prima approvando la normativa che consentiva ai cittadini, su esplicita dichiarazione, di destinare il 4 per mille dell’Irpef al fondo per il finanziamento dei partiti (normativa oggi caduta nel silenzio, probabilmente per i risultati miseri nella scelta dei cittadini). In seconda battuta, il parlamento, con una grande maggioranza, ha approvato nel 1999 una legge  che elevava in modo consistente il cosiddetto rimborso delle spese elettorali, distribuito in proporzione ai voti raccolti dalle liste in tutte le numerose tornate elettorali. Questa legge è oggetto ora del referendum radicale, che insiste sull’abolizione di ogni forma di finanziamento pubblico. Curiosamente, però, il referendum non interviene sul meccanismo delle cosiddette «erogazioni liberali» ai partiti detraibili dall’Irpef fino alla bella quota di 200 milioni di lire. Il che vuol dire che privati cittadini potrebbero comunque usare soldi pubblici (lo sconto fiscale rappresenta infatti una quota di risorse di tutti i cittadini), per finanziare solo alcuni partiti a propria scelta. Se si volesse scegliere un meccanismo totalmente privatistico e volontario, occorrerebbe più coerenza.

Più in generale, occorre osservare che la questione dei costi della politica è in realtà molto delicata: il finanziamento pubblico è inviso alla gran parte dei cittadini, ma forme di totale privatismo favorirebbero solo chi ha ingenti risorse economiche da investire, e inoltre forse funzionerebbero da ulteriore incentivo per meccanismi di corruzione. Certo, da tempo siamo peraltro convinti che il modo migliore per sostenere pubblicamente e onorevolmente i costi della politica, come attività che uno Stato democratico ha il dovere di favorire nel suo svolgersi pluralistico, non siano le erogazioni in denaro a pioggia, ma gli sconti e i rimborsi su servizi effettivamente utilizzati (affitti di sedi, spese postali, telefoniche, editoriali…).


5. I quesiti sulla magistratura.

Tre referendum vertono sulla magistratura: si chiede di abolire il meccanismo elettorale della componente «togata» del Consiglio Superiore della Magistratura (cioè dei magistrati che compongono l’organo di autogoverno dei giudici assieme a membri eletti dal parlamento) nella parte che prevede il voto di lista, di abolire le norme che permettono ai magistrati di passare da ruoli inquirenti come quelli di pubblico ministero a ruoli giudicanti nei collegi giudiziari, e infine di abolire la possibilità per i magistrati di svolgere altri incarichi fuori dei propri compiti istituzionali.

Si tratta di quesiti piuttosto tecnici, che appaiono però accomunati da un certo spirito punitivo nei confronti dell’ordine giudiziario (in nome di una campagna «garantista» che crea più di un sospetto sulle sue reali motivazioni). Si può dire in sintesi che il primo quesito è un attacco alle organizzazioni «di corrente» politico-culturali dei giudici, ritenute fonte di inquinamento dell’imparzialità della magistratura, mentre i loro difensori le qualificano come ambiti decisivi di dibattito, in cui si è sviluppata nel tempo la crescita di una coscienza complessiva del ruolo della magistratura non di tipo strettamente corporativo. Il secondo quesito (la cosiddetta «separazione delle carriere») appare il più delicato e per certi versi pericoloso: infatti la specializzazione dei ruoli di pubblico ministero (il giudice che conduce le indagini) rischia di sottrarre questa figura al quadro dei diritti e delle norme per farne sempre più una funzione para-poliziesca. Inoltre, non dimentichiamo che la richiesta – presente da tempo nei programmi di tutti i partiti che si sono distinti per gli attacchi ai magistrati di «Mani Pulite» – costituisce il primo passo per la subordinazione del pubblico ministero al governo, norma che continuiamo a ritenere rischiosissima, soprattutto nel quadro italiano. Il terzo quesito interviene su una materia lungamente discussa dalle componenti più democratiche della magistratura stessa (infatti si riteneva fonte di distorsioni e vere e proprie corruzioni il fatto che i giudici potessero svolgere lucrose funzioni di collaudo o arbitrato privato): oggi però ci sono già circolari interne al Csm che vietano queste prassi, per cui la vittoria del referendum non modificherebbe di molto la situazione.

Anche in questo caso, va piuttosto ricordato che le ricorrenti polemiche sul malfunzionamento degli apparati giudiziari, laddove mettono in luce disfunzioni reali e non sono condotte per partito preso da parte dei difensori di poteri occulti e corrotti, non potranno trovare sbocchi con iniziative di questo tipo. L’unica via maestra per assicurare veramente la tanto sbandierata «giustizia giusta» ci pare essere l’attribuzione alle attività giudiziarie di una quota di risorse più consistente, in linea con paesi più avanzati e civili del nostro.

14 aprile 2000