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Città dell’uomo notizie – novembre-dicembre 1999 – anno XI, n. 4

Domande sulla città

Franco Riva


"Tuttavia le metafore che riassumono il pensiero di Heidegger non provengono dalla città, ma da una vita originaria e anteriore: i ‘pastori dell’essere’, i ‘cammini forestieri’”
H. Lefebvre, Il diritto alla città

La città pone dinnanzi fenomeni contrapposti, per quanto non privi di relazione, che nella loro opposizione caratterizzano una situazione che ci riguarda. All’urbanizzazione forzata si accompagna difatti la disurbanizzazione; alla città mondiale la fuga dalla città verso una memoria di natura oramai divorata; agli stili cittadini internazionali, anonimi e uniformanti, il riflusso sui regionalismi; alla identificazione culturale che deriva dall’appartenenza cittadina, la disidentificazione dovuta anche alla stratificazione e alla verticalizzazione eccessive della città, come se nella città stessa le città fossero in realtà molteplici e spesso drammaticamente irrelate. Un altro segnale contrastante vede crescere insieme l’alienazione, la violenza e il degrado, accanto all’esaltazione della grande città, al mito della metropoli, che trova un’espressione politica nel ruolo protagonistico crescente dei sindaci e nelle figure dei city manager, per sé indicative di una cultura cittadina.
Movimenti contrastanti come questi segnano senz’altro delle precise contingenze storiche, sociologiche ed urbanistiche. Gli stessi movimenti contrapposti rinviano a tensioni fondamentali e persistenti, che interrogano in certo modo da sempre, e nonostante la varietà del suo manifestarsi , lo spazio cittadino. Entrano in gioco allora il rapporto tra la città e la natura, la città e la storia, la città e la cultura, la città e la giustizia. Nascono anche delle domande sullo sfondo di un immaginario consistente e duraturo, per quanto duttile nelle sue riproposizioni. Queste domande investono l’avventura o la stabilità, l’incertezza di un esodo senza sosta o la sognata sicurezza delle mura, di uno spazio cioè umanamente articolato. Le domande interessano il nomade e il cittadino, che rinviano  non solo a due tipi di umanità, e dunque di esistenza, ma ad altrettanti, diversi, modi del pensiero. L’apertura o la chiusura,  la scoperta e l’enciclopedia, la partenza o la quiete si sospingono dialetticamente l’una contro l’altra. E forse non è un caso che proprio un personaggio de La città di Claudel dica che “nulla è”.
Seguendo il filo di queste contrapposizioni si potrebbe pensare di pervenire a una sorta di paradosso, denunciato da Henri Lefebvre. Lefebvre osservava infatti la discrepanza tra la nostra età urbana e la carenza di riflessione nel Novecento proprio sul tema della città, prendendo come spunto di questo paradosso l’imporsi culturale di immagini agresti e pastorali: “oggi, che rapporto vi è tra la filosofia e la città? Un rapporto ambiguo. I più eminenti filosofi contemporanei non ispirano i loro temi alla città. Bachelard ha lasciato ammirevoli pagine consacrate  alla Casa. Heidegger ha meditato sulla città greca e il Logos, sul tempio greco. Tuttavia le metafore che riassumono il pensiero di Heidegger non provengono dalla città, ma da una vita originaria e anteriore: i ‘pastori dell’essere’, ‘i cammini forestieri’. Sembra che sia alla dimora e alla contraddizione tra Dimorare e Vagabondare che Heidegger ispiri i suoi temi. Quanto alla riflessione detta ‘esistenziale’ essa si fonda sulla coscienza individuale, sul soggetto e sulle prove della soggettività piuttosto che su una realtà pratica, storica e sociale”.
L’età urbana sarebbe dunque invasa da metafore pastorali, che rinviano ad una origine diversa. Nella diversità di questa origine sta l’essere, l’inascoltato, e con questo il sacro. Si dà così un problema di origine: l’immagine del pastore è evocata dinnanzi alla questione della tecnica, che rinvia alla dismisura prometeica che coinvolge nuovamente la città moderna. Secondo Jonas la caratteristica della città universale, della città contemporanea, sta nell’impensabile orgoglio tecnico: “infatti il confine tra ‘polis’ e ‘natura’ è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto. La differenza tra l’artificiale e il naturale è sparita, il naturale è stato fagocitato dalla sfera dell’artificiale”. Il “pastore” rimette così in circolo le domande sulla città: il rapporto con l’origine, la relazione con la natura, la ricerca di una dimensione essenziale che sembra ora cercata ora smarrita proprio nella città. E la persistenza di queste domande coincide con il ritorno dell’interesse per il politico.
Bisogna però anche considerare come, accanto alle metafore pastorali, si impongano pure le riflessioni sulla parola e sull’abitare (Heidegger, Lévinas), che rinviano a una dimensione costitutivamente intersoggettiva dell’umano, tanto più in risalto quanto più cresce per converso il grado di inospitalità complessiva della città. La città rimane allora in primo piano, per quanto secondo vie diverse di attenzione: la città mercantile di Weber, la città postmoderna di Lyotard, la polis greca della Arendt, la città onirica delle utopie, o la città-incubo delle antiutopie, la città virtuale dell’informatica; e questo sullo sfondo di parallele teorizzazioni, in ambito sociologico, del villaggio globale. Si impongono ad ogni modo altre metafore, cittadine questa volta, come lo erano un tempo quelle di Agostino, e di cui rappresentano un esempio paradigmatico la dialettica di Strauss tra “Atene” e “Gerusalemme”, o la cifra “Babele” ripresa da Zumthor e da Derrida.
Lungo ciascuno di questi profili tornano in circolo e si intrecciano quasi inestricabilmente le antiche domande. Oswald Spengler è convinto che l’”uomo originale” sia un “animale errante”, ed inquadra la città dentro il tramonto dell’Occidente. Il tramonto può significare pure una nuova nascita. Il tramonto di Zarathustra corrisponde allo scrollarsi di dosso i pensieri, come quelli di Dio e della morale, che impediscono all’uomo di arrivare all’uomo: quel tramonto è infatti anche un discendere dal monte della contemplazione verso la “città” degli uomini.
La città e l’uomo: altra domanda che ripropone nodi significativi. Mentre la mente va ancora alla dialettica con la natura, insiste pure sull’intreccio con il divino, di volta in volta incluso o escluso a seconda dell’interpretazione data dell’umanità dell’uomo. Insiste ancor più sulla pluralità dell’umano perché, come dice Walter Benjamin parlando di Parigi, “la città si rispecchia in migliaia di occhi, in migliaia di obiettivi”. La creazione di uno spazio umano, la città, va di pari passo con il pluralismo e la convergenza dell’umano o, nel linguaggio di Popper, con l’imperfezione. E di qui si impongono i temi dell’immagine che l’uomo crea di se stesso attraverso la città – e dunque dell’immagine stessa della città – e dell’istituzione della convivenza tra soggetti e culture molteplici.
La natura e l’origine, la storia e il sacro, l’immagine e il diritto, sono alcuni binari che attraversano la complessità della città e lungo i quali risorgono di continuo domande attuali e antiche.

(prefazione al volume di M. Renna – F. Riva – M. Rizzi – S. Xeres, La città. Un’alba o un tramonto, Edizioni Lavoro, Roma 1999. Il volume raccoglie gli atti della Scuola estiva di Città dell’Uomo, tenuta a Novara nel settembre del 1998).