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Città dell’uomo notizie – marzo-giugno 2001 – anno XIII, n. 2

Gli immigrati: risorsa economica, problema sociale, sfida culturale

Rosario Iaccarino

Immigrazione, economia e società

Per l’economia sono una risorsa, per la società un problema: questa è la condizione in cui oggi vive  la maggior parte degli immigrati in Italia. Una realtà confermata nel secondo Seminario organizzato dalle associazioni Città dell'Uomo e Rosa Bianca sul tema Immigrazione, economia, società: lo straniero come problema o come risorsa? Due le relazioni portanti, quella di Emilio Reyneri, sociologo del lavoro e componente della Commissione nazionale per l'integrazione, e di Sandro Antoniazzi, presidente della Fondazione S. Carlo.
Reyneri, coautore del Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia (in uscita da Il Mulino), ha tracciato un quadro sostanzialmente positivo dell'integrazione nel mercato del lavoro degli immigrati, frutto soprattutto di politiche dei flussi che hanno favorito ingressi regolari. Sfatando una serie di luoghi comuni, Reyneri ha messo in evidenza il forte aumento del lavoro regolare tra gli immigrati, quello cioè disciplinato dai contratti collettivi, retribuito secondo norma e quindi registrato presso l'Inps: sarebbero circa seicentomila gli immigrati in questa condizione. Si riduce, quindi, l'area dell'economia sommersa, anche se non scompare del tutto: il lavoro nero si trasforma in lavoro grigio, crescono cioè i cosiddetti "fuori busta": le assunzioni avvengono secondo procedure normali, ma, non tutte le ore o le giornate lavorate – soprattutto nelle piccole imprese e nelle famiglie – vengono retribuite regolarmente. Altro risvolto del lavoro in grigio è la crescita degli immigrati iscritti al collocamento: ma non si tratta, come rilevano gli studiosi, di disoccupati, quanto di persone con contratti sotto le 20 ore settimanali o inferiori ai 4 mesi all’anno, che per legge hanno la possibilità di rimanere iscritti nelle liste. Naturalmente, l'inserimento nel lavoro degli immigrati è fortemente differenziato per area territoriale. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio assorbono i 2/3 della manodopera straniera. Nelle grandi città gli immigrati sono concentrati nel lavoro domestico, nei servizi e nell'edilizia, mentre nel settore industriale sono inseriti prevalentemente nella piccola impresa. Al Nord vi è poi una colonia di immigrati impiegata in agricoltura, in attività di raccolta o nella gestione delle stalle, come ad esempio nel cremonese dove lavorano oltre 1000 indiani che fanno di quest'area della Lombardia una di quelle a più alto reddito in Italia; tuttavia, gli immigrati percepiscono retribuzioni inferiori del 20% a quelle degli italiani: un differenziale che si può giustificare solo se il raffronto viene fatto tra livelli professionali diversi. E questo non è il solo profilo critico del lavoro degli immigrati, oltre agli episodi di sfruttamento, si conferma anche una forte “etnicizzazione” dei rapporti di lavoro che vede gli immigrati, compresi i più scolarizzati, ai livelli più bassi della scala professionale anche dopo diversi anni di lavoro: "questo è un problema – ha affermato Reyneri – perché la domanda di lavoro immigrato si espande dove la forza lavoro italiana è sempre meno presente. Ciò determina un'assenza di concorrenza tra italiani e stranieri: ma il rovescio di questa medaglia è la discriminazione". Qualche sbocco professionale interessante si registra nell'ambito del lavoro indipendente: a Milano ad esempio la Camera di Commercio stima che nel settore della ristorazione e in quello della pulizia un imprenditore su dieci è un immigrato. Per quanto riguarda il futuro prossimo Reyneri ha auspicato la conferma del modello dello sponsor che ha fin qui disciplinato l'ingresso regolare degli immigrati: "il metodo è basato su una logica giusta – ha concluso Reyneri – l'incontro tra domanda e offerta si sviluppa infatti attraverso le relazioni informali e quindi richiede un contatto personale tra chi assume e chi viene assunto".
Ai dati incoraggianti sull'inserimento nel lavoro, non corrispondono purtroppo eguali passi avanti nelle condizioni generali di cittadinanza degli immigrati, come ha sottolineato nel suo intervento Sandro Antoniazzi – presidente di una Onlus che si occupa di casa, lavoro e microcredito per soggetti deboli –  il quale ha messo in rilievo quanto sia complesso e spesso umiliante il percorso che porta un immigrato ad acquisire una certa stabilità. Problema discriminate ai fini dell’inclusione sociale è la casa. Con il disimpegno del pubblico negli investimenti immobiliari e con il mercato privato sempre più caro, la casa è diventata per molti – italiani compresi – un bene accessibile a costi sociali ed economici elevatissimi, sia per problemi di reddito che per questioni di discriminazione: molti proprietari, infatti, non affittano agli immigrati, preoccupati di eventuali morosità o di subire danni all'alloggio. “A Milano ed hinterland – ha affermato Antoniazzi – stimiamo una domanda di alloggio economico attorno alle cinquantamila unità”. Quali allora le strade da percorrere? La prima, già in via  di realizzazione nell'ambito diocesano milanese, è una Agenzia per la casa che ha l’obiettivo di far crescere l’attenzione su una questione sociale decisiva ai fini della cittadinanza e di sbloccare il mercato dell’affitto, offrendo ai proprietari di casa delle garanzie – per esempio fideiussioni bancarie – e alle persone in cerca di alloggio un accompagnamento anche attraverso un sostegno con microcredito. La seconda, più ambiziosa, è la costituzione di un ente non profit partecipato da banche e dalle parti sociali, che possa fare operazioni di un certo rilievo nella costruzione di alloggi economici: “la validità del progetto – secondo Antoniazzi – è determinata non solo dalla necessità di reperire nuove risorse, ma soprattutto di realizzare uno strumento nuovo che unisca all’intervento edilizio quello della socialità, garantendo agli inquilini e ai quartieri una vita più umana e dignitosa”.

Convivere da diversi: religioni e diritto in uno Stato democratico

E' possibile in un paese democratico e di tradizione cattolica come il nostro una convivenza civile tra cittadini di culture e religioni diverse? La questione è stata discussa nell'ultimo dei tre seminari di Città dell'Uomo e Rosa Bianca sull'immigrazione. L'integrazione è una sfida di alto profilo, ha osservato Guido Formigoni, presidente di Città dell'Uomo, ma non è scontata, vista l'ostilità crescente verso lo straniero, alimentata anche da posizioni politiche strumentali. In questa fase inedita, i cristiani sono chiamati a favorire la piena accoglienza dello straniero, non per buonismo assistenzialista, ma per rendere credibile la loro fede. La “stranierità” – ha sottolineato Luciano Manicardi, biblista della Comunità di Bose – è infatti categoria della rivelazione. Gesù occorre conoscerlo come straniero, colui cioè che non si sa da dove viene e di cui non si comprende la lingua – "perché non comprendete il mio linguaggio?" (Gv 8,43). E Gesù proprio in quanto straniero rivela il volto del Padre e grazie alla sua “stranierità” si può entrare in relazione con Dio. Tale ricchezza teologica è presente anche nei testi legislativi veterotestamentari – dall'Esodo, al Deuteronomio, al Levitico, ai Profeti. Nella storia di Israele l'immigrazione è una realtà esistenziale diffusa ed è soprattutto la condizione del popolo ebreo prima della liberazione. In Esodo 22,20 si legge: "non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto". Proteggere lo straniero significa per Israele professare la fede in Dio che l'ha liberato – ha aggiunto Manicardi – e quindi proseguire una prassi di liberazione: "è fare un gesto sacramentale". Parificandolo a figure deboli come l'orfano e la vedova, la legge veterotestamentaria riconosce all'immigrato il diritto al lavoro, al salario, alla giustizia, ai prodotti della terra, alla partecipazione alle feste della comunità civile, fino al diritto all'eredità della terra nella quale egli è ospite: "nella tribù in cui lo straniero è stabilito, là gli darete la sua parte"(Ez 47,22-23). Eppure anche il popolo ebreo non fu scevro da sentimenti xenofobi, ma il legislatore estese i diritti allo straniero perché Israele realizzasse la sua vocazione: amare Dio e l'immigrato. Nello straniero Israele vede se stesso, se lo discrimina contraddice la sua identità culturale e teologica – ha concluso Manicardi: "sullo sfondo vi è sempre la memoria dell'esperienza egiziana. La memoria dell'evento storico diventa legge e la legge diventa memoriale dell'evento storico. Al cuore di questo circolo ermeneutico c'è l'immigrato che rimanda all'israelita e al non israelita".
Ma oggi in che rapporto stanno religioni e diritto in uno Stato democratico? Sulla questione è intervenuto il prof. Nicola Colajanni, consigliere di Cassazione e docente di Diritto Ecclesiastico all'Università di Bari, per il quale non vi può essere né omologazione dell'immigrato alla nostra cultura né separatezza tra culture diverse; la sfida è quella dell'integrazione, che sul piano del diritto significa chiedere agli immigrati di osservare le nostre regole senza che essi rinuncino alla loro cultura: "tale amalgama dovrebbe essere costituito da quei diritti fondamentali che fanno corpo con la nostra democrazia". Ma come conciliare il diritto di uno Stato laico con quello di uno Stato confessionale, come ad esempio il diritto musulmano? Colajanni ha precisato che, malgrado la difficoltà a disciplinare la materia, non siamo all'anno zero. I riferimenti ci sono: il testo costituzionale, la legge del '93 sull'immigrazione, il diritto vivente scritto nelle sentenze dei giudici, la giurisprudenza di paesi europei dove il fenomeno migratorio è più antico, e in particolare l'istituto dell'ordine pubblico internazionale, che limita possibili invasioni di legislazioni straniere. Tale istituto è relativamente flessibile: a volte si irrigidisce, quando l'ordinamento straniero mette in discussione un diritto fondamentale, ad esempio la tutela dei figli all'interno di una convivenza fallita tra due musulmani, che per la legge coranica – che non permette rapporti extramatrimoniali – non potrebbero essere riconosciuti; a volte si attenua, come nel caso della poligamia che, ha spiegato Colajanni, se non può essere da noi riconosciuta può tuttavia assumere, ad un secondo livello, il valore di un fatto, che viene considerato in quanto tale per riconnettervi determinati effetti. In ogni caso la bussola è la dignità della persona, che forma la sua identità nel pluralismo e nelle relazioni sociali, così com'è definita nell'art. 2 della Costituzione, ispirato a suo tempo da Giuseppe Dossetti. Laica ma assai prossima alla visione cristiana tale concezione intersoggettiva della persona è – per Colajanni – "la premessa antropologico-culturale del nostro Stato costituzionale, che ci permette di passare da una cittadinanza politica data solo agli italiani ad una cittadinanza cosmopolita".