• Home
  • /Newsletter
  • /Città dell’uomo notizie – gennaio-marzo 2000 – anno XII, n. 1

Città dell’uomo notizie – gennaio-marzo 2000 – anno XII, n. 1

Debito e sviluppo dei paesi poveri 

Ferruccio Marzano

Il 14 ottobre scorso la Sezione romana di "Città dell'Uomo", in collaborazione con l'Associazione culturale Agorà, ha tenuto un incontro di studio sul problema del debito estero dei paesi poveri. Qui di seguito riportiamo il testo della relazione di Ferruccio Marzano, ordinario di Economia dello sviluppo nella Facoltà di Economia dell'Università degli studi di Roma "La Sapienza".

Più che nei termini del binomio "debito e sviluppo" del titolo, è meglio ragionare nei termini di un triangolo, dove al vertice superiore mettiamo lo sviluppo economico, che è un obiettivo. Non un obiettivo per noi – da noi c'è troppo sviluppo nel senso di produzione di troppi beni materiali e di consumi quantitativi – ma un obiettivo per i paesi poveri, dove c'è poco sviluppo ed esistono ottocento milioni di persone che hanno problemi quotidiani di fame, con 41 milioni di bambini che sono fortemente denutriti. Ai due vertici inferiori del triangolo troviamo, da una parte, il debito e la globalizzazione. Se ci fermiamo a questi, abbiamo una impostazione che si usa chiamare liberista o neoliberista. Una impostazione alternativa a questa è quella della partecipazione – termine forse abusato ma significativo – e della cooperazione internazionale. Per cui: debito come conseguenza e globalizzazione come causa da una parte, partecipazione come conseguenza e cooperazione internazionale come causa dall'altra parte, cioè nell'altro vertice inferiore del triangolo, indicano due modi alternativi, o comunque diversi, di affrontare il problema dello sviluppo.
Ma chiediamoci: che cosa è lo sviluppo economico? Il concetto di sviluppo economico è un' acquisizione recente. Su questo la chiesa cattolica è andata molto avanti già ai tempi di Leone XIII alla fine dell'Ottocento. La teoria economica è invece arrivata più tardi non tanto al concetto di sviluppo economico, quanto allo sviluppo come concetto multidimensionale. In esso, al cuore c'è l'aspetto quantitativo, ma questo non basta. Da tale punto di vista, è il processo di aumento nella capacità che hanno i paesi, le nazioni, i cittadini, di usufruire di una quantità, inizialmente minima, di beni necessari al soddisfacimento dei loro bisogni, in particolare dei "basic needs", cioè i bisogni essenziali per sopravvivere. Ciò è fondamentale, perché i beni necessari alla sopravvivenza non sono disponibili in molte situazioni e luoghi del mondo, ma lo diventano tramite lo sviluppo. Tuttavia, oltre all'aspetto quantitativo, lo sviluppo economico ha degli aspetti strutturali, di rapporti fra settori, fra impieghi per la produzione di beni diversi, fra occupazioni alternative. Ha poi degli aspetti qualitativi:  pensiamo  all'indicatore  della aspettativa  di  vita,  collegata  alla  salute,all'indicatore dell’istruzione, dell'analfabetismo in opposizione all'analfabetismo (la gente che non sa leggere e scrivere anzitutto 'non ha dei valori' e poi non contribuisce all'attività produttiva), all'indicatore  del  tasso  di  partecipazione democratica, che conta ai fini dello sviluppo anche economico, perché la partecipazione incentiva, motiva, stimola, invece la dittatura oppure l'asservimento   alla  televisione   acquieta, intorpidisce, appiattisce.

Se questi sono concetto e obiettivo dello sviluppo, quali sono gli strumenti che vanno utilizzati in una impostazione di globalizzazione-debito oppure di partecipazione-cooperazione? Le condizioni fondamentali perché si abbia sviluppo sono due, ed esse vengono poi precisate in modi diversi secondo le diverse teorie. Primo occorre che l'economia sia in grado di produrre un surplus, un sovrappiù. Questa è una grande scoperta degli economisti cosiddetti classici. Il surplus è qualcosa che si produce in più rispetto alla sopravvivenza (se la gente deve lottare per produrre la sopravvivenza non ha un sovrappiù). Secondo: occorre che il surplus sia impiegato a scopi produttivi. Se, per esempio, il sovrappiù va a finire nelle tasche dei proprietari fondiari o dei redditieri di vario genere (ce ne sono tanti, per esempio in America Latina), non viene usato a fini produttivi. "A fini produttivi" vuol dire usare il surplus per quella che si chiama la accumulazione del capitale, cioè la realizzazione degli investimenti e la formazione dei risparmi. Per tal via crescono la capacità produttiva, l'apparato produttivo, la produzione, si instaura quello che si chiama circolo virtuoso, che deve essere anche in grado di incorporare l'aumento della popolazione. Se la popolazione cresce, il surplus deve essere tale da produrre un aumento del reddito pro capite al di là dell'aumento della popolazione.

Come entra qui il debito? Entra perché, da quando – poco dopo la fine della seconda guerra mondiale – si è cominciato a parlare, sotto la spinta dei  processi  di  decolonizzazione  e  di indipendenza, dello sviluppo economico dei paesi "poveri", ci si è resi conto che uno dei modi per rendere disponibile per lo sviluppo un surplus, che una struttura produttiva poco sviluppata non era in grado di produrre, era di acquisirlo dai paesi "ricchi". I paesi ricchi producono tanto surplus che o va sprecato (non diventa investimento e risparmio) o va esportato; allora i flussi di capitali che sono importanti per integrare le carenze del surplus interno nei paesi poveri rappresentano i deflussi dei capitali che vengono 'esportati' dai paesi ricchi. Lo sviluppo economico ha sempre proceduto in questi termini, tranne che per l'Inghilterra, perché ad esempio gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia hanno assorbito molto surplus di capitali inglesi negli anni della svolta della loro industrializzazione, e lo hanno usato per investimenti oltre il proprio surplus interno. Ora, importare capitali vuol dire indebitarsi, mentre questi capitali li si può ricevere anche come aiuti, però l'aiuto è sempre una piccola parte rispetto alle grandi esigenze di capitali che. integrino il surplus carente nei paesi "in via di sviluppo", o meglio "in cerca di sviluppo". L'indebitamento è allora il frutto dell'accumularsi di questi capitali importati, il che implica poi la restituzione pro quota annua, con ammortamenti e interessi, dei capitali stessi.

Finché le cose funzionavano abbastanza flessibilimente, il debito veniva pagato anche con interessi di un certo rispetto (uso l'espressione in senso tecnico), e ciò è durato fino agli inizi degli anni Settanta. Ma gli anni Settanta sono stati anni di grandissimi turbamenti. C'è stata l'illusione da parte di alcuni paesi, i paesi Opec esportatori di petrolio, di poter 'forzare la mano'. Ci sono state due crisi petrolifere (crisi petrolifera vuoi dire fortissimo aumento del prezzo del petrolio che penalizza i paesi che dipendono dall'importazione del petrolio stesso); c'è stata una forte spinta inflazionistica a seguito della prima e della seconda crisi petrolifera. Orbene, noi dei paesi occidentali – che avevamo e abbiamo altre risorse – abbiamo superato la crisi. Forse potevamo pure cambiare modello di sviluppo allora, ma non l'abbiamo fatto e oggi è più difficile cambiare. Certo, c'è stata la 'spada di Damocle' costituita dall'affermarsi, alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti e in Inghilterra a livello governativo, dell'impostazione monetarista, che è un altro termine  per  dire  impostazione  liberista. Monetarismo vuol dire che i gli andamenti dell'economia sono 'dettati' dalla moneta in maniera determinante. Questo ha comportato anzitutto 'chiudere i rubinetti' degli aiuti ai paesi poveri in un momento nel quale le necessità aumentavano perché la  bolletta petrolifera cresceva. D'altro canto, la stretta creditizia – dato che la moneta tanto più conta quanto più la rendi rara, e poi se la rendi rara, conta chi la possiede – determinava nei paesi ricchi l'aumento fortissimo dei tassi d'interesse e la fortissima rivalutazione del dollaro.
Ora, io condivido quanto viene detto nel documento dei vescovi elaborato in occasione dell'incontro di Colonia del giugno 1999, cioè che il 'problema del debito' è più ampio del principio della restituzione dei debiti. Bisogna aggiungere però che ciò è così perché a causare il problema del debito siamo stati soprattutto noi dei paesi ricchi. Questo è il punto. Il problema del debito è infatti nato perché i rubinetti degli aiuti sono stati chiusi da Governi con una politica economica di impostazione monetarista (Reagan, Thatcher) e poi anche dalle istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario, Ocse). Non solo; ma, mentre da una parte si è avuta una complessiva chiusura sul fronte dei nuovi aiuti, dall'altra parte i prestiti, che erano una necessità impellente per sopravvivere, sono stati dati a dollaro basso e a tasso d'interesse basso e, se al momento della restituzione, magari anche dopo un solo anno, il dollaro era fortemente cresciuto di valore, la quota da restituire diventava fortemente ingigantita. Qui è l'origine del problema del debito.

Certamente c'è stata anche una questione di utilizzo dei prestiti all'interno dei paesi indebitati. Non dobbiamo nascondere le responsabilità di molti paesi, che però non sono responsabilità della gente, ma di governanti di tipo dittatoriale, i Mobutu, i Sukarto, i Marcos, che hanno dirottato ingenti flussi di capitali nei loro conti personali. Se aggiungete le spese per armamenti, i progetti faraonici, gli sprechi di vario genere, trovate un utilizzo dei prestiti assai deludente; un utilizzo non produttivo dei prestiti  è perciò da non sottovalutare.

Arrivo alla domanda: che fare? Se queste sono le cause del debito e se i suoi effetti sono devastanti – perché, per pagare quello che si chiama il servizio del debito (che è la somma delle quote di ammortamento e degli interessi che ogni mese, ogni trimestre, ogni anno, devono essere pagate), i paesi indebitati devono 'stringere la cinghia' in tanti campi fondamentali sia come qualità della vita, cibo, sanità, istruzione, sia come surplus investibile che è fonte dello sviluppo – se questa è la situazione, come intervenire? E' qui che emerge la contrapposizione tra il momento della globalizzazione – secondo cui bisogna dare spazio ai mercati, alle imprese estere, alla concorrenza sempre e comunque, dato che, si dice, solo  cosi  si  valorizza  l'aspetto  della responsabilizzazione di questi paesi  – e il momento della cooperazione, nel senso di coinvolgere specificamente in progetti di sviluppo le popolazioni del posto, progetti di sviluppo che siano effettivamente tali e al cui finanziamento si arrivi tramite la cooperazione (come finalizzazione alternativa del nostro surplus).n effetti, possiamo rintracciare quattro approcci per affrontare la questione, che richiamo conclusivamente  il primo riguarda i debiti ufficiali, cioè i debiti a fronte di prestiti effettuati dagli  Stati o da organizzazioni pubbliche internazionali. Qui le cose sono andate avanti. Recentemente si è avuto l'accordo di Colonia, poi è venuto quello di Washington, ed è stata chiesta dal direttore generale del Fondo monetario internazionale la cancellazione dei debiti ufficiali. La stampa parla di cancellazione tout court dei debiti, ma non è così. Si tratta soltanto della cancellazione dei debiti ufficiali e, finora, questa è stata approvata per 51 miliardi di dollari USA. Poi ci sono i debiti privati, e qui il problema resta aperto. Si tratta di debiti verso le grandi banche private, le grandi banche commerciali, in gran parte americane. Di questi debiti non si parla di solito, eppure si tratta di una cifra enorme, qualcosa come 2200 miliardi di dollari. Però c'è una posizione congiunta della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale – la cosiddetta iniziativa HIPC (Highly indebted poor countries) – secondo cui si prevede una procedura assai complessa per una graduale riduzione del debito, procedure che si basa sulla individuazione di alcuni parametri da rispettare da parte di un certo paese debitore perché esso sia "eligibile" per la riduzione. Tale iniziativa configura il secondo approccio.na terza via, che si chiama HIPC2 e che consiste in un diverso modo di formulare i parametri da utilizzarsi in sede di riduzione del debito dei paesi del tipo HIPC, secondo cui il debito stesso viene collegato non alle esportazioni o al pil, ma al bilancio pubblico, e più precisamente al totale degli introiti fiscali. L'iniziativa HIPC2 è più interessante di quella HIPC1, perché 'responsabilizza' i paesi interessati a reperire le imposte, magari non facendole pagare agli indigenti, ma tassando – per esempio in Brasile, se ci si arriverà – i proprietari terrieri, o addirittura facendo la riforma fondiaria con una conseguente tassazione più 'equa'. In relazione all'iniziativa   HIPC2   c'è   anche un'interessantissima proposta del Cafod (Catholic found for overseas development) – un'associazione privata di economisti al servizio delle iniziative della Chiesa cattolica inglese – che ha riformulato la proposta HIPC2 in termini diversi, perché sottrae alle imposte la parte di spesa pubblica fondamentale per venire incontro ai bisogni essenziali della popolazione  (cibo, pensioni sociali, sanità, istruzione).

Infine c'è la quarta ipotesi, quella dell'intervento umanitario solidaristico delle Organizzazioni non governative, tra cui l'iniziativa della Chiesa cattolica italiana, ma non solo quella In generale, l'ipotesi è di comprare dai Governi dei paesi creditori quote di debito e di abolire questi pezzi di debito m rapporto all'impegno da parte dei paesi beneficiari ad impiegare per lo sviluppo, soprattutto sociale, le somme a cui i debiti in questione si riferiscono Questa proposta chiama i cittadini dei paesi ricchi all'impegno personale diretto e favorisce una maggiore presa di coscienza pubblica da parte nostra della questione, presa di coscienza oggi piuttosto carente. Si tratta di proposta assai valida, che va senz'altro approvata; masi ricordi che è pur sempre una 'goccia nell'oceano' grande e crescente del debito estero di tanti paesi poveri e poverissimi, o meglio di tanti nostri fratelli che vivono nella fame e nella disperazione.