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Città dell’uomo notizie – dicembre 2002 – anno XIV, n. 2

La guerra infinita, surrogato di una politica debole

Guido Formigoni

Questa fine estate è segnata da un clima torbido di incertezza e paura. Si rincorrono i segnali corposi della depressione economica e baluginano le premesse di una crisi profonda di legittimazione e di credibilità della civiltà capitalistica. E intanto, puntuale come solo sa essere il tragico della storia, si rincorrono nuove immagini e nuove attese di guerra. La guerra strisciante, snervante e ormai angosciosamente ineluttabile nello scontro israeliano-palestinese. La guerra annunciata, con grande fiato alle trombe propagandistiche, della superpotenza americana all’Iraq. La guerra apparentemente sedata, ma che cova sotto le ceneri del disastro afghano. La guerra dormiente, ma non certo sconfitta, organizzata dai circoli del radicalismo islamico. La retorica guerra al terrorismo, che da un anno ci accompagna tra notizie giudiziarie, fermi di sospetti, punizione di miliziani, oscure manovre di servizi segreti. Le mille guerre sommerse del continente africano, solo a tratti riportate alla luce dal sistema dei media. Tutte situazioni di guerra non convenzionale, non dichiarata, non formalizzata, frammiste a contorti processi diplomatici, intrecciate a palesi od occulti interessi privati.


La guerra al posto della politica

L’inizio del nuovo secolo appare insomma sotto il segno di una normalizzazione e banalizzazione della guerra, i cui aspetti atroci sono mostrati solo occasionalmente agli spettatori del villaggio globale (non casualmente, anzi, secondo una precisa strategia che risponde a logiche di potere). Una guerra infinita, più che una libertà duratura, come recita lo slogan di Bush. La guerra è tornata apparentemente ad essere legittimata. Infrangendo un tabù profondo, maturato dopo le grandi guerre mondiali, che non solo escludeva la possibilità di una guerra globale a causa dei terribili strumenti di distruzione atomici, ma metteva culturalmente al bando la guerra come strumento di soluzione delle controversie, pur non potendo immediatamente sradicarla dal sistema internazionale. Non che questo abbia voluto dire entrare nell’epoca della pace perpetua. Però, le molteplici guerre locali che hanno costellato il cinquantennio postbellico sono state tutte più o meno considerate eccezionali, circoscritte, limitate, forzate, oppure ancora condotte in modo riluttante e con ripetute promesse di conclusione. Sforzo dei contendenti era rendere chiara la propria causa, evidenziarne l’accettabilità internazionale, diplomatizzarne le conseguenze e le procedure, predisporre una pace favorevole ai propri interessi, ottenere obiettivi politici. Naturalmente parliamo della tendenza generale, non delle eccezioni sempre presenti.
La guerra infinita attuale non sembra invece, clausewitzianamente, tornata ad essere continuazione della politica con altri mezzi. Sembra piuttosto diventata sostituzione della politica, suo surrogato continuativo, per distogliere gli occhi del mondo dai tremendi limiti della politica. Si moltiplicano le occasioni in cui la guerra appare diventare spiegazione e fine a se stessa, utile condizione strisciante per fare i propri interessi, ambiente internazionale normale. Non eccezione da controllare, marginalizzare, possibilmente sradicare. La retorica sullo scontro delle civiltà ha aiutato molto in questa direzione, individuando livelli di conflitto non mediabili e risolvibili, ma assolutizzanti. In fondo, era assoluta anche la contrapposizione ideologica della guerra fredda, ma non a caso essa era stata imbrigliata in un vero e proprio sistema di relazioni internazionali relativamente stabile: era stata quindi politicizzata. L’attuale guerra al terrorismo è invece condotta con una retorica di totalizzazione tale da garantirne la durata fino a una vittoria che per essere globale si allontana in un indistinto futuro. Quando mai saremo sicuri di aver sradicato l’ultimo potenziale gruppetto terrorista sulla Terra? Come la guerra al cancro o quella all’obesità, la guerra al terrorismo assuefà all’idea che si tratti di una guerra senza vincitori e quindi normale e indefinitamente continua.
Gli stessi casi éclatanti oggi aperti sullo scenario del mondo suggeriscono una visione di guerra superficialmente – epperò tragicamente – scambiata con una politica decente.


Il conflitto israeliano-palestinese

Pensiamo al groviglio israeliano-palestinese. Mai come in questo caso siamo di fronte a un conflitto duraturo, strisciante, periodicamente riacutizzato, apparentemente irresolubile per il peso dei decenni e per la memoria ferita delle generazioni che vi sono implicate. Ma mai come in questo caso sappiamo già come sia possibile chiudere il conflitto, mai come in questo caso abbiamo la soluzione politica bella chiara davanti ai nostri occhi, con tutti i suoi costi e benefici, studiati da anni e chiaramente definiti. Due popoli in due Stati, legittimati reciprocamente. I confini del 1967 ridisegnati in modo non radicale, per lasciare in territorio israeliano qualche insediamento di coloni, con compensi per i palestinesi nelle zone abitate da prevalente popolazione araba. Lo smantellamento di altri insediamenti dei coloni ebrei. Un piano per il rientro dei profughi palestinesi graduale e realistico, che non distorca radicalmente le tendenze demografiche (che già sono sfavorevoli agli ebrei all’interno dei confini di Israele). Una qualche articolata divisione delle competenze e delle amministrazioni, se non delle sovranità, su Gerusalemme. Un piano di investimenti internazionali per ripristinare condizioni di vita decenti negli ex territori occupati. Insomma, qualcosa di molto vicino a quanto israeliani e palestinesi avevano già elaborato nei colloqui di Taba del gennaio 2001 (significativamente diverso invece da quel diktat che Barak e Clinton avevano tentato di far passare a Camp David nell’estate del 2000, solo per poter sostenere – da allora fino a oggi – che Arafat aveva perso la «grande occasione»).
Sappiamo già che non potrà che andare a finire pressappoco così. Eppure, la soluzione sembra allontanarsi. Del cosiddetto «processo di pace» di Oslo si sono perse le tracce. E allora viene il sospetto che da una parte e dall’altra si pensi ormai alla condizione di guerra permanente come il male minore, a cospetto della propria impotenza e debolezza politica. Da una parte, la classe dirigente israeliana coltiva un’ossessione della sicurezza che ha ormai profondamente militarizzato il proprio modo di vedere le cose, dando spazio alle pulsioni bene incarnate dal governo Sharon e dai suoi sogni di «grande Israele». Ma nemmeno i laburisti – come dimostra la loro partecipazione a tutti i costi al governo – pensano di riuscire a superare gli ostacoli politici della resistenza di 200.000 coloni estremisti o dei partiti religiosi, e imporre quindi all’interno l’opzione della pace. Dall’altra parte, il vecchio Arafat ha probabilmente ormai scelto anch’egli la via della tensione permanente, perché gli appare l’unica via per salvare la propria traballante leadership, minata dalla corruzione diffusa all’interno del suo manipolo di dirigenti e dalla presa sempre più ampia di Hamas e delle altre organizzazioni integraliste, nel controllo reale del territorio palestinese.
Quindi, guerra infinita. A tutti i costi. Al costo dello stillicidio di attentati e delle operazioni anti-guerriglia, con relativo elenco di morti. A costo della distruzione di ogni normalità nella vita di generazioni di giovani israeliani e palestinesi. A costo della devastazione dei territori dell’Anp e della crisi implosiva dell’economia israeliana stessa. Purché una politica troppo fragile non venga messa a nudo nelle sue drammatiche impotenze. E i maggiori osservatori-attori internazionali, non dando nessun segnale di voler fattivamente contribuire a modificare queste tendenze, danno anch’essi testimonianza di debolezza politica infinita, nonostante la ricchezza finanziaria e la capacità militare sovrabbondante di cui sono dotati. Gli stessi Stati Uniti, che certo hanno in mano molte chiavi della questione, non hanno operato quella svolta che sembrava intravedersi dopo l’11 settembre 2001. Non si è voluto o potuto dispiegare la propria influenza per avviare la soluzione del problema, nemmeno in vista dell’obiettivo di rinsaldare la coalizione mondiale contro il terrorismo.


La guerra preventiva all’Iraq

Anche sull’Iraq spirano venti di guerra. L’Amministrazione Bush, con grande spiegamento di mezzi mediatici, sembra aver ormai deciso di lanciare un’operazione militare per spazzare via il regime di Saddam Hussein, più di dieci anni dopo Desert Storm. Le cose non sembrano ancora definitivamente precipitate, non tanto per gli incerti distinguo dei maggiori alleati, per il dissenso diffuso delle cancellerie del mondo arabo o per l’operatività limitata dell’Onu, ma solo perché appare aperta una vera spaccatura – per quanto si riesce a percepire – all’interno della classe dirigente americana stessa. Voci perplesse dei militari, avvertimenti dei maggiori organi di stampa che hanno ripreso una distanza critica dal governo dopo i giorni convulsi delle Twin Towers, espliciti contrasti nella stessa amministrazione tra i falchi di Rumsfeld e Cheney e i realisti alla Powell. Vedremo se, come temiamo, anche in questo caso il braccio di ferro si chiuderà con la decisione per la guerra.
E’ difficile non ritenere quanto meno ambiguo il contesto politico di questa guerra attesa. La motivazione ufficiale, che ruota attorno alla presunta preparazione irachena di armi di sterminio, è addirittura risibile. L’Iraq del cinico dittatore Saddam è uno Stato allo stremo: non ha risorse finanziarie (anche i proventi del petrolio sono congelati e servono solo per importare sotto controllo alcune merci); ha un apparato militare distrutto; non ha il controllo del proprio territorio, in gran parte sottratto dalle regole imposte nel 1991; non ha la possibilità di importare tecnologie appropriate; è stato per anni sottoposto a severi controlli dei tecnici dell’Onu. Le risorse che – non dimentichiamolo – i paesi occidentali stessi gli hanno fornito negli anni ’80 sono ormai state consumate nel lampo della Guerra del Golfo.
Allora, c’è qualche altra motivazione per l’attacco? Segnali del suo sostegno ad Al-Qaeda non sono stati resi pubblici dagli Stati Uniti, quindi è presumibile non esistano nemmeno lontanamente. E suona invece sinistra la tesi per cui occorre finalmente esportare la democrazia anche in Iraq: forse che l’argomento non varrebbe per gli alleati di ferro americani della regione? A parte ogni discussione su quali basi abbia una democrazia presentabile in quel paese, con le sue divisioni etnico-religiose. L’incognita su come sostituire il dittatore senza scontentare troppo le potenze vicine (dall’Arabia Saudita, alla Turchia…) era stato il vero motivo della scelta di Bush padre di non condurre a fondo l’operazione del 1991, con l’invasione dei carri armati fermata a pochi chilometri da Baghdad.
Aggiungiamo che la stessa cinica motivazione economica per cui la guerra avrebbe un effetto anti-recessivo sul ciclo produttivo è altamente dubbia in questo caso. Le spese militari americane sono già state alzate dopo l’11 settembre, mentre la variabile petrolio è del tutto aleatoria: quasi sicuramente la guerra farebbe inizialmente alzare il prezzo, mentre se l’enorme riserva irachena dovesse essere finalmente smobilizzata, alcuni esperti sostengono che il prezzo internazionale crollerebbe, con gravi danni per i produttori e le compagnie trasformatrici. A un anno di distanza, la guerra annunciata all’Iraq non sembra avere nemmeno positivi effetti sulla cosiddetta «grande coalizione mondiale contro il terrorismo»: la Russia si è rumorosamente dissociata, gli sceiccati del golfo e i sauditi sono sempre più inquieti, l’Europa divisa balbetta anch’essa parole di distinzione, con la Germania alla guida del fronte critico.
Il significato del nuovo scenario bellico appare quindi molto incerto e il suo orizzonte politico debolissimo. Torna invece l’ipotesi esplicativa di una guerra che semplicemente si autoalimenta. L’amministrazione americana ha probabilmente bisogno di un altro successo militare dopo quello afghano (dimezzato dall’incertezza sulla sorte di bin Laden). Occorre sostenere il morale del «fronte interno», dopo aver proclamato la guerra senza quartiere ai nemici del grande paese delle libertà. E al contempo, si può cogliere l’occasione per sfatare un’altra remora del passato: la condanna della «guerra preventiva». Se c’è un concetto chiaro in tante prese di posizione dei vertici americani è questo: contro Saddam vale il principio per cui si può prevenire le minacce con l’uso della forza, non ci si deve solo opporre alla violenza  aperta. E’ un’altra piccola barriera semantica che crolla, e in politica internazionale il linguaggio e la ricerca di legittimazione sono elementi di grande importanza. La superpotenza militare riconferma così per il futuro la propria sempre più arbitraria capacità di intervento unilaterale e generalizzato, senza dover scendere sul delicato terreno dell’iniziativa politica. La guerra copre l’inattività e la debolezza di ogni svolta politica seria per affrontare i problemi reali. Così fino alle prossime elezioni, così fino alla prossima verifica dell’andamento di Wall Street, senza nessun orizzonte più ampio. Proprio quando si alzano i toni della retorica proclamando a tutto il mondo un disegno globale e duraturo di lotta alle molteplici forze del male, si appare sempre più chiusi in un circuito politico di piccolo cabotaggio, nella logica del giorno per giorno.
Guerra infinita, invece di politica realistica. Triste condizione delle leadership mondiali. Tragica sorte per chi deve continuare a morire solo per mancanza di lungimiranza, impegno e volontà in chi dovrebbe orientare la politica internazionale.