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Città dell’uomo notizie – dicembre 2000-febbraio 2001 – anno XIII, n. 1

Contro il prudente declino. Sul futuro dei cattolici democratici

Guido Formigoni

Scriveva ormai più di quindici anni fa Giuseppe Lazzati, nel libretto-appello preparato per quella che doveva rimanere l’ultima sua battaglia ecclesiale e civile: “Si ha la sensazione di assistere a un processo d’irreversibile declino-emarginazione della tradizione cattolico-democratica fatta di equilibrio, di lungimiranza, di magnanimità […] che tanto ha dato in tempi lontani e, recentemente, dalla resistenza e dalla costituente in poi, allo sviluppo della democrazia nel nostro paese” (G. Lazzati, La città dell’uomo. Costruire da cristiani la città dell’uomo a misura d’uomo, Ave, Roma 1984, p.10). Questa valutazione, che suonava contemporaneamente come una profezia e un appello, può essere messa assieme ad altre echeggiate in questi anni, che hanno sollecitato nel profondo le nostre coscienze. Ma tutti questi moniti hanno condotto a qualche conseguente impegno?
Ho l’impressione che oggi l’interrogativo debba ritornare con forza, perché la grande preoccupazione degli anni 1992-1995 si è come placata in un nuovo ménage da tempi feriali. Alcune figure variamente collegate al mondo cattolico democratico sono riemerse a ruoli politici di primo piano: da Prodi in giù, in una certa fase politica bastava avere qualche pedigree di questo tipo per essere un buon candidato a ruoli di responsabilità per l’alleanza di centro-sinistra. La fondazione del Ppi dava intanto un minimo di respiro e di visibilità organizzata agli eredi della parte più avanzata della Dc (mentre un certo altro mondo democristiano moderato si riciclava alla grande nel polo di destra). Molta parte di coloro che ancora si dicono cattolici democratici sembrano essersi assestati sulla gestione di una parabola discendente, in forma onesta e morigerata, quanto prudente e accorta (perché è sempre meglio non abbandonare la scena). Ma può essere una situazione sostenibile, alla lunga?


Una lezione radicale dal passato

Credo che chi prenda sul serio la radicalità della lezione che viene dalla storia del cattolicesimo democratico non possa accontentarsi di una gestione accorta del lento declino. Noi continuiamo a credere che il cattolicesimo democratico abbia costituito un esile “filo rosso” di minoranza, a partire dall’incontro con i principi rivoluzionari del 1789, dotato di fora dirompente e costruttiva. Un percorso in cui i due poli di riferimento essenziali sono sempre stati il rigoroso concetto di laicità della politica e una progettualità politicamente avanzata, nel senso della giustizia e dell’uguaglianza. Si potrebbe approfondire su questa pista una tipologia storica delle distinzioni maturate storicamente rispetto ad altre forme di cattolicesimo politico. La riflessione sull'impossibilità di un “cattolicesimo senza aggettivi” nel suo risvolto pubblico, ha condotto a focalizzare la necessaria aconfessionalità della presenza cattolica in politica senza pretese di rappresentanza globale della verità: in questo modo si è andati oltre il "cattolicesimo intransigente" e i suoi equivoci, pur valorizzandone gli apporti di fedeltà alla Chiesa e di lotta per la visibilità sociale della fede e del contributo dei credenti alle lotte storiche e civili di un popolo. Il rapporto storico-critico con la modernità ha poi reso capaci di innestare nelle dinamiche positive delle "rivoluzioni contemporanee" (non a caso lontanamente evangeliche), quei portati del patrimonio ideale tradizionale del movimento cattolico (primato della società; autonomia dei corpi intermedi; concezione veritativa della politica, non ristretta al principio di maggioranza…), depurati dal loro precedente involucro antimoderno e antistatalista, che servivano a impedire le chiusure verticistiche della stessa stagione di rafforzamento degli Stati nazionali moderni: in questo senso il cattolicesimo democratico ha sempre rifiutato ogni cedimento o assunzione acritica della modernità, secondo tentazioni che invece sono state più presenti nell’ambito religioso riformato. La scelta decisa per l'allargamento delle basi dello Stato nazionale e liberale alle masse popolari ha quindi condotto a considerare necessario l'allargamento dei compiti dello Stato, sul piano della redistribuzione del reddito e dell'uguaglianza sociale: su questa discriminate si è verificata la distinzione netta dal "cattolicesimo liberale”, che tendeva ad accettare dal liberalismo il discorso sulle diseguaglianze strutturali tra uomini e donne (di qui l’ampliamento del diritto di voto e poi tutta la vicenda della costruzione del Welfare…). Infine, l'affermazione del valore positivo della politica moderna, ha fatto nascere un senso dell’impegno politico sviluppato sul terreno partitico, ma anche sul piano delle responsabilità nelle istituzioni, della dialettica costruttiva con le altre forze ed eventualmente della gestione del potere: su questo terreno si è superata ogni demonizzazione intransigente o svalutazione clerico-moderata della politica partitica, ma si è andati anche radicalmente oltre il "cattolicesimo sociale", che si è sempre illuso di poter ricondurre la politica alla società senza residui.
Questi quattro terreni fondamentali di distinzione (che certo chiedono una continua rimodulazione storica) sono ancora capisaldi di una identità possibile del cattolicesimo democratico? La risposta a tale domanda chiede di prendere sul serio il carattere articolato di questo percorso, che non assunse mai i caratteri dell’ideologia, dell’identità statica, quanto piuttosto ha sempre rappresentato un riferimento elastico che identifica le scelte, le istanze, i metodi, i contenuti.
La dialettica di queste posizioni con le altre correnti del cattolicesimo contemporaneo è stata continua. Si è trattato di una storia complessa, condotta tra una minoritarietà fondamentale ed effimere occasioni di leadership. Che questo filone abbia quindi vissuto nella Dc o fuori della Dc, è stato comunque minoranza sia fuori che dentro, come nella Chiesa italiana nel suo complesso. Oggi le condizioni ecclesiali e civili sono molto più chiaramente segnate da difficoltà e ostacoli. La nuova linea della gerarchia ecclesiastica, l’esaurimento di modelli educativi tradizionali, la crisi dell’associazionismo, le condizioni politiche di un bipolarismo incerto e poco qualificato, la dispersione partitica dei cattolici democratici… Si tratta di una fase storica di grandi potenzialità, se solo si fosse in grado di rilanciare il livello di sfida: c’è infatti un senso di grande libertà e di necessità di ripartire daccapo, che stimola all’impegno. Ma c’è anche la consapevolezza di una contingenza che presenta rischi letali. Se non ci sarà uno scatto e un cambio di marcia, le varie sindromi da trascinamento del passato e il mancato superamento degli schemi e delle mentalità precedenti il 1989, condanneranno all’estinzione il cattolicesimo democratico. Mi paiono tre i punti decisivi in questo senso: la questione dell’interlocuzione e del ruolo ecclesiale dei cattolici democratici, la questione dell’urgente nuova progettualità e infine quella della visibilità e dell’organizzazione.

Far crescere nella Chiesa il senso della mediazione politica

Sul primo punto, occorre ricostruire una interlocuzione ecclesiale “libera e fedele” al contempo. Non si può che respingere l’illusione che il modo di incidere e di rendersi visibili sia combattere sui presunti “valori cattolici” all’interno delle proprie coalizioni, in quanto il campo è troppo affollato e ambiguo. Le schiere innumerevoli degli “atei devoti” sono magari estranei rispetto alla fede, ma pronti a presentarsi come suoi difensori in politica: sono dinamiche già viste, cui non sempre la gerarchia ecclesiastica presta consapevole attenzione. Direi che è fondamentale per i cattolici democratici rifuggire dalla “sindrome di Costantino”, cioè dall’illusione di poter essere defensores fidei.
Occorre invece prima esprimere (e poi anche rivendicare) una capacità di mediazione culturale e politica, ispirandosi saldamente alla promozione degli uomini e delle donne secondo il messaggio della fede, ma nella salvaguardia del terreno costituzionale della laicità dello Stato. Una mediazione politica non intesa soltanto minimalisticamente, come auto-riduzione degli obiettivi dell’azione legislativa, sui terreni delicati di maggior impatto con i valori, a quelli soli raggiungibili tramite intese di maggioranza con altre forze, sacrificando quindi realisticamente visioni troppo minoritarie (salvate con la figura dell’obiezione di coscienza). Una mediazione politica intesa invece in modo più ricco, in quanto basata sulla convinzione che almeno potenzialmente la democrazia non si regge senza discorso comune tra i diversi, senza una comunità dialogica reale. Di qui l’impegno a cercare livelli sempre più alti di condivisione e di comprensione attorno alle questioni delicate, senza mettere tra parentesi nemmeno le problematiche più spinose dal punto di vista dei “valori cristiani”. Tale visione ricca ed esigente della democrazia è da introdurre come portato storico del cattolicesimo democratico, ben oltre l’idea della democrazia come semplice neutralità delle istituzioni. Occorre spiegare alla gerarchia  ecclesiastica che questa è l’unica visione lungimirante anche per l’affermazione non malintesa dei valori umani conseguenti a una visione di fede. Non si può infatti essere solo negativi, chiudendosi nella “difesa” dei valori da qualsiasi novità si presenti nel campo della ricerca o della pratica scientifica e sociale, ma si deve entrare nella complessità della metodologia che chiede di trovare sempre nuove modalità legislative di tutela del valore (sempre provvisorie e limitate, quanto il diritto, che è irrimediabilmente parziale), in termini spregiudicati e dialogici.
Su questa mediazione, la diversità di approcci e quindi anche di posizioni tra cattolici spesso si verificherà profonda (si ricordi quello che è successo su temi come la legislazione sulla droga, oppure sulla fecondazione assistita). Queste differenziazioni non sono frutto di cattive volontà, ma della diversità strutturale di sensibilità e culture (io credo anche – sempre più chiaramente – di teologie e di spiritualità, cioè di modi di intendere e vivere la fede). Su questo terreno, il cattolicesimo democratico non può abdicare all’urgenza di dare il proprio contributo per elaborare uno “statuto ecclesiale” di questa condizione pluralistica, che ne discuta limiti e valori, continuando a chiedere a ogni cattolico schierato in politica di discutere e verificare continuamente, in ambito comunitario e confrontandosi con l’autorevolezza del magistero, le proprie forme di coerenza con la fede.


Coltivare una progettualità forte

La seconda urgenza è mettere alla prova la possibilità di ritrovare una capacità propositiva. Si parla troppo di “identità” nel nostro mondo. Occorre rifuggire dalla sindrome di Narciso, che sarebbe poi un Narciso della decadenza. L’identità esiste solo se c’è progettualità ed estroversione. Penso a una propositività forte, che è veramente capace di futuro solo se è lungimirante e non retrospettiva; sintetica e capace di forza emozionale, non solo attenta alla complessità e alle interlocuzioni politiche; capace di superare di slancio le mediazioni pur nobili del passato. Il “valore aggiunto” del cattolicesimo democratico alla stanca politica  di inizio millennio non può essere da spiegare in un manuale, ma deve essere chiaro e visibile attraverso scelte simboliche e parole immediate e convincenti. E’ necessario  cioè individuare con chiarezza un nuovo orizzonte simbolico di significatività politica: come nel 1789 il problema era stare dalla parte dei principi rivoluzionari, nel 1898 era stare dalla parte delle masse popolari in via di emancipazione quando altri cattolici temevano la rivoluzione, nel 1945-1947 era stare dalla parte del nuovo Stato sociale dopo la grande crisi degli anni Trenta e la sconfitta dei totalitarismi mentre altri cattolici erano decisi a restaurare uno Stato confessionale. Quale diventerà la scelta discriminante per l’oggi? Se non esiste un terreno analogo e cruciale, allora forse il cattolicesimo democratico è veramente esaurito, per aver contaminato altre posizioni e compiuto il suo compito: può quindi onestamente scomparire.
Penso invece che esista un terreno delicato su cui lavorare, anche se è lontano dall’essere già fonte di un messaggio ideologico compiuto. Non è possibile riproporre in forme aggiornate l’obiettivo comunitario (caro alla parte più avanzata della nostra tradizione), contro l’individualismo e il “pensiero unico” neoliberista, ma in forme non stataliste e rispettose dell’odierno primato delle libertà? La prossima stagione politica sarà caratterizzata infatti dal dominio di una politica funzionale a una società individualista, che non può essere ritenuta soddisfacente per i cattolici democratici. Come non può essere ritenuta plausibile una risposta di chiusura identitarie nelle piccole patrie localistiche. La “comunità”, non intesa soltanto come un dato della tradizione, può diventare un obiettivo della politica? Mi pare un terreno importante su cui collegare disperse energie e balbettii politici, per uscire dall’attuale afasia.
Naturalmente, sottolineare l’importanza di questa propositività non deve portare a costituire ostacoli alla capacità di far lievitare gli schieramenti politici complessivi, nella direzione dei valori forti. Mi pare che stia nel “dna” del cattolicesimo democratico l’immagine di una identità che si spende su progetti e punta sempre a intese più ampie, non si afferma come identità chiusa e lobbystica. Se l’Ulivo doveva essere l’incontro delle culture seriamente riformatrici del paese (quando però nessuno lo ha preso sul serio in questa direzione…), esso chiedeva che ciascuna componente desse il meglio di sé in chiave progettuale. E’ inutile pensare alla contaminazione di culture deboli e tutte introverse, che si trovano smarrite e incerte di fronte ai cambiamenti avendo abbandonato antiche certezze: su questo terreno si costruiscono solo compromessi di potere. E infatti…
Sono fortemente convinto che il cattolicesimo democratico trovi oggi su questo terreno il suo “Hic Rhodus, hic salta”. Se non si rilancerà questa prospettiva, sarebbe meglio pensare al  silenzio purificatore. Occorre avere in mente le esigenti parole dell’ultimo Dossetti sulla contingenza del ruolo politico dei credenti (ad esempio nel lungo discorso al Congresso eucaristico di Bologna nel 1986).  “Accade” talvolta – diceva in sintesi don Giuseppe – che il puro dato biblico si incontri con elementi culturali e risorse intellettuali e volontaristiche umane, per dar vita a progetti politici di credenti, ma solo a condizioni rigorosissime rispetto alla purezza di intenti e al rispetto dell’eccedenza del cristianesimo, e senza niente di scontato e di ovvio.


Visibilità sociale e culturale, prima che politica

Sul terzo fronte, della visibilità organizzata, che è conseguente ai primi due ma non meno importante, distinguerei il livello sociale da quello politico. Nella società, mi pare più che maturo il tempo di costituire una “casa comune” di tutti coloro che intendano lavorare e progettare sul tronco di questa cultura. Certamente, è difficile imporre dall’esterno l’unificazione di sigle, movimenti, associazioni, cenacoli, riviste, singoli individui, che sono tra l’altro eredi di una serie di vicende che spesso si sono contrapposte nella storia degli ultimi dieci-quindici anni. Nessuno ha oggi l’autorevolezza per farlo. Allora si deve pensare a forme di collegamento reticolare, in cui occorrerebbe rendere evidente gli snodi e i momenti di incrocio, se esiste una forza organizzativa e operativa sufficiente. In tempi di vacche grasse ci si poteva permettere di lavorare sulle sfumature, oggi occorre trovare convergenze. Dobbiamo tener conto che occorre contare esclusivamente sulle proprie forze. Non si avrà niente di garantito e nessuna delega informale o formale della gerarchia. Ma per compiere questa operazione, occorre mettere in campo alcune parole sintetiche che uniscano e facciano ritrovare la forza del progetto, quanto distinguano con chiarezza la propria prospettiva dai coltivatori di ambiguità. Ci vuole un punto di riferimento dotato di forza attrattiva: penso a un “manifesto”, un appello, un testo su cui lavorare con cura, che valorizzi quanto della cultura cattolico-democratica può parlare agli “addetti ai lavori” della sfera pubblica, ma soprattutto alle giovani generazioni. Altrimenti, se l’unificazione viene cercata nella stanca logica dei “forum” o delle federazioni in cui ciascuno gioca per sé, non si andrà lontano. Questa è però la vera scommessa dei nostri tempi.
Nella politica, invece, non mi preoccuperei di visibilità. Anzi, la cercherei solo se potesse essere veramente coerente e radicale (a prezzo di riduzioni di consenso: d’altronde, cosa c’è ormai da perdere ancora?). Altrimenti, meglio la diaspora, che serva a fermentare altre esperienze e a nutrire capillarmente la democrazia. La visibilità delle formule vuote non è visibilità reale. Non si può dar vita a pretese riedizioni del modello democristiano in sedicesimo, con tutti i suoi riti, pensando di poterle guidare da posizioni di minoranza. La “sindrome della mosca cocchiera” purtroppo è una insidia fortissima dei nostri ambienti. Naturalmente, una qualsiasi visibilità futura dipenderà non solo da scelte interne a questo mondo culturale, ma anche dalla sedimentazione generale delle forme politiche: andremo verso grandi partiti di raccolta delle opinioni a debole forma ideologica, oppure si rinverdiranno le soggettività? E dipenderà dall’evoluzione della questione europea, con la vittoria del modello Kohl o del modello Delors sulla plausibilità e sulle forme di una presenza cristiana nei grandi partiti e nelle coalizioni politiche. E’ possibile ritenere l’animazione cattolico-democratica tutta previa al terreno politico, oppure immaginare un’elastica e mobile corrente cattolico-democratica in una federazione o un grande partito, o infine anche sognare nuove vitalità partitiche.
Ma si tratterà di opzioni che si chiariranno col tempo, se saranno raggiunti gli obiettivi prioritari del rilancio propositivo, della visibilità socio-culturale e della riscoperta di un ruolo ecclesiale del cattolicesimo democratico. Se sui primi livelli non saremo in grado di esprimere innovazione, sarà meglio abbandonare la stessa coltivazione di un simulacro svuotato dai suoi contenuti. Nessuna idolatria davanti alla tradizione è permessa ai credenti liberi e forti: solo se si è capaci di futuro si è all’altezza della ripetizione delle nobili parole del passato.