L’associazione tra passato e futuro
Quindici anni di storia
Sono passati più di quindici anni dalla fondazione dell’associazione «Città dell’uomo», avvenuta sulla spinta determinante di un’intuizione di Giuseppe Lazzati. Intendiamo valorizzare la memoria storica di quel passaggio originario con questo volumetto[1], che raccoglie i materiali di un’apposita iniziativa svoltasi appunto per ricordare il quindicesimo anniversario dell’associazione. In vista di quell’incontro abbiamo chiesto ad alcuni protagonisti di comunicarci i loro ricordi e impressioni. Il professor Luigi Franco Pizzolato si è poi impegnato – molto oltre il semplice ruolo di testimone che gli deriva dall’essere stato socio fondatore e poi a lungo presidente dell’associazione – a raccogliere questi ricordi e a rielaborarli in un vero e proprio saggio ricostruttivo, molto denso e articolato. Lo proponiamo in questo volumetto, corredato di una serie di documenti che testimoniano la lunga riflessione che stava alle spalle della scelta da parte di Lazzati di promuovere questo «servizio», come a lui piaceva chiamarlo con illuminante scelta lessicale.
In questa breve introduzione ci basti ricordare che per noi riandare alle radici storiche non è mai una operazione puramente accademica o celebrativa. Anzi, è l’occasione cercata per rilanciare riflessioni che hanno un notevole impatto progettuale. Comporta confrontare le urgenze e le scelte del passato con i cambiamenti continui di contesto storico, che chiedono adeguamenti, correzioni di rotta oppure rinnovate insistenze, che vanno a volte lucidamente controcorrente.
Anche in quei difficili anni ’80, l’idea di fondare un’associazione di credenti dedicata al rilancio e alla diffusione di una cultura politica era sospesa tra memoria del passato ed esigenze nuove del presente. Rispondeva da un parte a una logica coltivata fin dall’immediato dopoguerra (si ricordi il sodalizio dossettiano fondato nel 1946, denominato appunto «Civitas Humana»). Prima di un’azione politica, occorreva infatti una riflessione culturale, spirituale ed educativa sulla politica: quest’idea era centrale nell’approccio dei cosiddetti «professorini» al dopoguerra. Derivava dalla coscienza dei gravi ritardi storici di un’attitudine al «pensare politicamente» da parte dei cattolici italiani e dalla parallela consapevolezza delle nuove urgenti responsabilità che il contesto storico metteva di fronte alla generazione di laici che si affacciavano alla scena civile del paese dopo la dittatura e la guerra. Tale logica si è poi variamente scontrata con opportunità e limiti dell’azione dei protagonisti e delle richieste ecclesiali e civili, dando luogo a tentativi diversi e anche a momenti di stasi lungo alcuni decenni. Come sempre accade alle intuizioni che viaggiano sulle deboli spalle degli esseri umani.
Giunti alle soglie del decennio ʼ80, la ripresa di quella impostazione da parte di Giuseppe Lazzati esprimeva il senso di una nuova urgenza. Si era infatti di fronte alla percepibile grave crisi di un assetto complessivo dei rapporti Chiesa-società-politica in Italia. L’implosione di un sistema di organizzazioni, strutture e idee che tanto aveva dato alla fondazione della democrazia italiana, rischiava di produrre «l’irreversibile declino e l’emarginazione della tradizione cattolico-democratica» (così Lazzati scriveva nel 1984, presentando il libro-manifesto dei suoi ultimi anni di impegno, intitolato non casualmente La città dell’uomo). Per converso, la cosiddetta «scelta religiosa» della Chiesa italiana, avviata con decisione dalla Cei negli anni ’70, poneva le premesse per una nuova sana autonomia della vita ecclesiale dal contesto politico, ma rischiava in qualche sua traduzione affrettata di trascurare la questione della responsabilità storica della fede. Mentre, dal punto di vista istituzionale, le conseguenze naturali di questa scelta religiosa sul terreno della valorizzazione dell’autonomia laicale stavano maturando in un clima di grandi timori, preoccupazioni e corposi ritorni indietro di taglio clericale. Per questo, occorreva riprendere dalle radici il medesimo discorso progettuale, che continuasse a sviluppare una cultura politica sulla base delle due nuove costellazioni di riferimento fondamentali ormai disponibili: il Concilio Vaticano II (quanto all’autocoscienza ecclesiale, alla consapevolezza laicale e allo sviluppo dei rapporti fede-storia) e la Costituzione repubblicana (quanto al progetto storico-civile e ai princìpi di convivenza degli uomini e delle donne in Italia). Nel 1985, l’insistenza lazzatiana riuscì a raccogliere un gruppo di persone che si impegnarono proprio a sviluppare queste idee.
Con questo bagaglio fondativo, l’associazione «Città dell’uomo» ha percorso un nobile itinerario, con molti punti alti di riflessione e proposta. Basti scorrere l’elenco dei convegni e delle iniziative di studio e dibattito, delle pubblicazioni messe in campo in questi lustri (che appositamente aggiungiamo in appendice), per avere questa impressione. Ci sono stati dei filoni precisi di attenzione: si ricordi il primo convegno, che lo stesso Lazzati volle dedicare all’art. 1 della Costituzione con il suo riferimento centrale al lavoro come valore fondante la convivenza; oppure al problema degli strumenti della politica, discusso ampiamente nella crisi sistemica già avvertita negli anni ’80, prima della sua esplosione del 1992-94; o ancora alla riflessione sui criteri di comportamento dei cristiani nella transizione politica, nell’attualizzazione dell’istanza della laicità; al terreno problematico ma urgente della strutturazione culturale della nuova democrazia «competitiva» e bipolare; alla questione della difesa e promozione dei valori costituzionali, soprattutto nella fase della collaborazione all’iniziativa di don Giuseppe Dossetti per una difesa attiva e creativa dell’eredità costituzionale; fino ai fondamenti «impolitici» della politica, studiati nei «colloqui» del periodo 1996-1999; per giungere poi all’opera di divulgazione storica attorno alle figure dei testimoni importanti nella storia civile dei cattolici italiani.
Un itinerario nient’affatto irrilevante, ma anche abbastanza isolato nella cattolicità italiana. Non è che molti abbiano colto l’urgenza della sfida che si poneva, chiedendo di ripensare radicalmente in termini nuovi il percorso sedimentato dei primi decenni repubblicani e la parabola dell’influenza cristiana nella società, che andava in parallelo alle sorti – che sembravano allora elettoralmente ancora decisive – del partito di ispirazione cristiana. Si avvertiva invece un forte trascinamento del passato, ci si è cullati nella tendenza diffusa a pensare che ci si sarebbe potuti adattare senza scosse a un lento declino, in un quadro che sarebbe rimasto per molto tempo immutabile. Non molti ambienti si sono fatti provocare a fondo da una proposta che implicava l’esigenza di riprendere a ragionare in modo libero e spregiudicato su alcuni assetti consolidati.
Le nuove sfide della discontinuità
Il contesto storico attuale appare invece ormai a tutti come il frutto di grandi discontinuità. Ormai tutti hanno imparato almeno questa lezione. La crisi del sistema politico nella prima metà degli anni ʼ90 – anticipata lucidamente da Lazzati – è stata radicale, intrecciandosi, con effetti di ulteriore moltiplicazione, su un vorticoso cambiamento sociale che ha portato a fondo il percorso della secolarizzazione nella società italiana. Questa dinamica ha trascinato con sé molta parte delle illusioni di continuismo su cui si reggeva buona parte della pastorale della Chiesa italiana, almeno nell’ottica del ruolo sociale della fede, della presenza ecclesiale, della cittadinanza dei laici cristiani, dell’impegno politico dei cattolici.
Per quanto riguarda la Chiesa italiana – a uno sguardo sintetico – sembra di assistere a una stanchezza organizzativa e progettuale del «mondo cattolico» organizzato (anche di quello più storicamente vicino alla cultura lazzatiana, in prima istanza definibile come «cattolicesimo democratico»). Appare essersi consumata una lunga tradizione di «teologia dell’incarnazione» e di parallela «cultura del progetto»: non c’è più un nesso scontato e naturale tra spiritualità e politica. Non a caso, appare un certo stacco delle «generazioni conciliari» – se possiamo accomunare sotto questa etichetta i protagonisti della fase conciliare e la generazione che si è formata proprio nell’onda della sua prima attuazione – dai giovani che stanno crescendo negli ambienti ecclesiali attuali a cavallo della svolta di millennio.
I problemi sono poi forse addirittura più fondamentali. La difficoltà di una pastorale statica di conservazione della tradizione si intreccia ormai con evidenti ansie ai livelli radicali della trasmissione stessa della fede. Se c’è un problema vivo per il futuro del cristianesimo, oggi, è la qualità della fede vissuta dei credenti, non certo immediatamente l’influsso sociale o politico della cultura cristiana.
A fronte di queste consapevolezze, si sta assistendo da qualche anno a una certa svolta pastorale, guidata dai vertici della Conferenza episcopale italiana. Dopo anni di identificazione stretta dell’unità sui valori cristiani con l’unità politica dei cattolici, assistiamo invece a un certo distacco della Chiesa-istituzione rispetto alla frammentazione politica dell’eredità democristiana. L’istituzione ecclesiastica non si schiera apertamente nella diaspora dei cattolici impegnati, prende atto del pluralismo, ma lasciando anche una netta impressione di svalutazione della sfera politica, cui ci accosta solo per ragioni strumentali e occasionali. Questo sembra solo l’aspetto più immediato e superficiale di un mutamento di strategia complessiva. Emerge una Chiesa che intende essere visibile nel «sociale» (soprattutto di quel sociale moderno che appare attraverso i media), e che quindi vuole lanciare messaggi di ricomposizione della società ed esercitare ancora una certa funzione di guida, non politica ma nemmeno esclusivamente spirituale. Non si tratta quindi di una Chiesa-istituzione in difesa, che intenda soltanto negoziare i propri interessi con lo Stato. È una realtà religiosa che si pensa forte nella società e che quindi vuole avere ancora una parola da dire al paese. Così forse si possono intendere alcune delle più recenti battaglie culturali a forte sfondo politico (sussidiarietà, scuola libera, bioetica…). Così si può intendere l’insistenza sulla necessità di costruire un nuovo «progetto culturale» e sulla centralità della «dottrina sociale della Chiesa». Per converso, è una Chiesa in cui meno si insiste sulla radice spirituale e formativa della presenza sociale, sul radicamento nella Parola e sulla vita evangelica della comunità cristiana, che sono realtà date quasi per presupposte. E appare una Chiesa in cui la stagione formativa all’impegno politico si rivela data ormai stancamente per conclusa. In cui, inoltre, si confida molto poco sulla responsabilità politica del laicato e sulla scommessa della sua maturità.
A livello civile, abbiamo assistito in questi anni alla fine del sistema politico imperniato sulla Dc e al conseguente disorientamento del mondo cattolico, con la sopravvenuta esplicita divisione politica dei suoi rappresentanti e la conseguente diffusione di un forte timore di subalternità politica. Paradossalmente, per altro, da una parte e dall’altra del bipolarismo politico, i cattolici impegnati, anche in posizioni di responsabilità, non mancano. L’impressione di una perdita di incisività forse è debitrice di una sopravvalutazione della memoria della coerenza ideologica e dell’efficacia valoriale del passato, contrassegnato dalla centralità politica del partito di ispirazione cristiana. Più profondamente, per altro, sotto queste vicende mi pare da leggere una lenta consumazione della grande tradizione del cosiddetto cattolicesimo democratico, inteso come componente cultural-politica della storia nazionale. È stata una consumazione che definirei avvenuta per «eccesso di mediazione», in quanto si è condotta all’esasperazione una delle virtualità maggiori di questa cultura, che aveva giustificato molti dei suoi successi. Da una parte, molte delle sue istanze anti-utopistiche e anti-rivoluzionarie sono state metabolizzate e ormai largamente accettate: il sano equilibrio realistico sui limiti e le virtualità della politica può essere ormai ritenuto acquisito anche da ambienti culturali molto distanti. Si può quindi parlare di un successo storico. Ma d’altro canto l’insistenza su queste risorse ha avuto dei costi. L’elasticità di questa cultura, la sua capacità di dialogo, la sua dimensione scarsamente ideologica, sono state piegate lentamente a un approccio pragmatico e disincantato, arrivando a svuotarne ogni contenuto progettuale, nella figura ultima della «mediazione pura». Così, la presenza politica spesso tuttora incisiva di alcune personalità che provengono da questa tradizione si accompagna a una certa opacità del filone cattolico-democratico, rispetto alla capacità culturale e politica di guida dei processi storici.
Anche in questo caso, bisogna osservare, le dinamiche relative alla presenza civile dei cattolici sono condizionate da tendenze più generali, che coinvolgono tutti i soggetti sociali e culturali e che non vanno affatto sottovalutate. Si pensi alla sensazione di essere di fronte alla fine del ciclo innovativo postbellico della politica «orizzontale», a base di massa, incarnata nel partito democratico moderno, che per una lunga fase si è mostrata capace di guidare la società (nel bene come nel male). La politica attuale è sempre più marginale nella società.
Si è verticalizzata, specializzata, è sempre più limitata a un compito tecnico-amministrativo molto circoscritto e sempre più dipendente dalla prorompente dinamica del primato di un’attività economica rilanciata dai canoni del pensiero neoliberista. Un liberale come lord Dahrendorf è arrivato qualche tempo fa a parlare di «fine della democrazia». Del resto, la società contemporanea stessa non è più quella in cui i partiti di massa hanno funzionato da grandi soggetti emancipatori. È una società «riflessiva» (per dirla con l’espressione di Anthony Giddens), cioè individualista e ricca di autonomia e progettualità dispersa e molteplice (pur presentando comunque consistenti rischi di omologazione massificante). È una società in cui non ci sono più solidarietà scontate. Dove le vivacità di singoli e gruppi e gli svariati protagonismi incontrano difficoltà a costruire progetti collettivi e duraturi. E una certa versione della tradizionale concezione cattolica dell’«autonomia del sociale» sembra apparentemente prosperare coniugata sempre più strettamente in un abbraccio mortale al «pensiero unico» neoliberista. Se questa non appare certo via d’uscita praticabile dalla crisi, è bene notare che su altre risposte occorre affinare la ricerca.
Perché la storia aiuti un discernimento serio sul futuro
Se stanno questi spunti di analisi, fin troppo schematici e iniziali, abbiamo subito la consapevolezza che siamo di fronte a problemi grossi, non risolvibili con risorse modeste. Molti di loro sono frutti addirittura di tendenze e problematiche storiche esterne al cattolicesimo democratico o alla vita ecclesiale in senso stretto. Questo senso delle proporzioni ci deve impedire di pensare a battaglie ingenue, contro i mulini a vento. Non ci deve però fare dismettere l’impegno, seminando elementi fecondi e contenuti «radicali» (cioè attinenti alle radici del ben pensare e del ben operare), anche in un contesto difficile. Occorre tentare di valorizzare gli aspetti positivi della situazione, fin da ora, in attesa di un ciclo complessivo più favorevole. Non è infatti detto che la situazione sia immobile o che le tendenze in atto non siano modificabili o addirittura rovesciabili. Spesso la sorpresa accompagna la storia, come un ospite dimenticato ma ricorrente. C’è chi ha paragonato i grandi cicli storici al fluire delle stagioni, non tanto per la ripetitività (che in storia non esiste), ma per il fatto che i mutamenti astronomici reali che giustificano i mutamenti di clima sono in atto ben prima che noi ne percepiamo l’esistenza: la superficie del ciclo climatico dipende da una struttura che non vediamo e di cui non cogliamo l’effetto se non quando è già ampiamente dispiegato. Quindi, potrebbero essere all’opera nella nostra epoca processi sotterranei ancora invisibili ma portatori di grandi rivolgimenti.
Naturalmente questo impegno di discernimento ci chiede di considerare con grande attenzione la lezione lazzatiana e, al contempo, di sottolineare gli elementi nuovi che occorre innestare su quel tronco per rispondere alle nuove sfide. C’è oggi un gravissimo deficit di memoria storica, nella società dell’immagine. Dobbiamo resistere a questa deriva e continuare a curare i nessi tra il nobile passato (che ci portiamo dietro come un dono prezioso) e l’esigenza del presente e del futuro. Non è possibile però intendere questo compito quasi avessimo qualche forma di «vulgata» da ripetere o adattare semplicemente, per farla tornare viva. Occorre piuttosto incarnare creativamente la lezione del passato nell’oggi. Il che vuole dire anche aiutare con una lettura storico-critica del passato la comprensione delle sfide del presente.
Ma poi anche impegnarsi a comunicare questo difficile equilibrio tra identità e rinnovamento: trovare le parole nuove per dire le cose fondamentali di sempre, in modo che siano comprese dalle giovani generazioni. Cioè tentare sempre di collegare persone vive alle idee vive, soprattutto in chiave formativa: le idee da sole non producono cambiamenti.
È compito complesso, che qui non è possibile liquidare in poche battute. Ma indicare un semplice indice di problemi su cui lavorare forse non è inutile. Proprio per dimostrare la fecondità della riflessione storica. Mi limiterei a due aspetti che mi paiono della massima urgenza.
Maturità laicale e paradossale testimonianza cristiana
In primo luogo, occorre probabilmente valorizzare nuovamente tutta la forza della lezione lazzatiana sulla «maturità del laicato». Di fronte a evidenti tentazioni di sottili clericalismi e di riemergenti asfittici laicismi, la sfida del dialogo e della mediazione tra fede e politica è decisiva. Ma non è possibile intendere questo metodo – come in qualche versione di quella che è stata definita la «cultura della mediazione» – come nostro unico vero portato. La ripresa del primato della laicità deve più che mai accompagnarsi a un investimento creativo e propositivo, che tenti di dimostrare nei fatti la paradossale fecondità storica della fede cristiana. La capacità di affrontare i problemi di tutti, non solo quelli tradizionalmente considerati problemi cattolici, mostrando che si interloquisce nelle discussioni vive e che si ha una parola da dire sulla convivenza concreta (sulla città degli uomini e delle donne reali), è più che mai decisivo. E occorre condurre questo compito da credenti, cioè vivendo con umiltà tranquilla la fedeltà alla Parola e alla Chiesa, nell’autonomia laicale, prendendo i nostri rischi e assumendoci le nostre responsabilità. Tra l’altro, non si può più concepire la mediazione come dialogo con altri progetti ideologici forti, da smussare e moderare, quasi si lavorasse in un quadro stabile di centralità sociale del cristianesimo. Certo, da questa riflessione non scaturisce nessun titanismo dei credenti, nessuna idea di tornare all’esclusivismo della fede e all’isolamento nelle dinamiche civili: il dialogo e la contaminazione culturale restano terreni decisivi, a livello civile. Ma funzionano tanto più quanto più ci possa essere una spinta originale e una ricerca vivace e feconda di ogni soggetto, non nell’appiattimento dei riferimenti fondamentali.
In questo ci sembra di ricollegarci alla proposta lazzatiana, là dove insisteva sui solidi fondamenti della politica su un terreno «metapolitico»: quello della cultura e quello della fede cristiana adulta, vissuta nella coscienza laicale. La sua visione della laicità, come sarà evidente per chi leggerà queste pagine, non indulgeva affatto a ammorbidimenti o a logiche compromissorie: insisteva invece sulle radici in un «pensiero forte», propositivo e creativo. Tanto addirittura da rivalutare le ideologie, in un momento di largo discredito verso questa figura intellettuale e sociale.
Radicalità della crisi sistemica e della ricerca culturale necessaria
In seconda battuta, occorre diffondere la consapevolezza che sono in gioco elementi radicali della convivenza. La crisi che stiamo vivendo appare «sistemica», non epidermica e passeggera. Appaiono infatti all’orizzonte questioni fondamentali come l’interrogazione sullo statuto storico-politico della fede, la ricerca sul senso cristiano di una politica delegittimata e marginalizzata dopo il secolo della sua onnipotenza. Più in generale, sono in discussione fondamenti del pensiero politico e valori etico-civili che davamo per acquisiti e presupposti. Facciamo un solo esempio tra tanti. Si pensi al nesso tra libertà-uguaglianza-fraternità, nelle forme che furono limpidamente esposte nei primi articoli della Costituzione repubblicana del 1948, che per noi ha sempre assunto un valore centrale. Il legame indissolubile tra primato dei diritti della persona, sviluppo delle autonomie sociali nella libertà, impegno delle istituzioni repubblicane nella costruzione dei livelli necessari di uguaglianza. Un’eredità che Lazzati aveva molto a cuore. Oggi tale nesso è esplicitamente oggetto di attacco culturale e politico (anche all’interno del cosiddetto «mondo cattolico»), mentre fino a qualche anno fa si teorizzava che la discussione vertesse soltanto sulla seconda parte del testo costituzionale (fatti salvi i princìpi e i valori fondamentali). Il nucleo «ideologico» fondamentale della nostra Costituzione è questione aperta: per noi si impone un’azione culturale di difesa ma anche soprattutto di promozione. Nel senso di provare a svilupparne la fecondità incrociando i problemi attuali. Ma lo stesso discorso potrebbe farsi per una tradizione personalistica e comunitaria che è lentamente svaporata nell’indistinto, quando non è aggressivamente contrastata da un montante liberalismo individualista.
Se è vero che l’apparente omologazione sociale non riesce a nascondere la radicalità delle sfide antropologiche ed etiche che abbiamo di fronte, la nostra cultura politica deve assumere un tratto propositivo, battagliero e schierato. Non si tratta ovviamente di politicizzare il servizio di «Città dell’uomo» rispetto alle dinamiche contingenti e cangianti del sistema politico (anche se non c’è discussione sulla nostra collocazione nel bipolarismo: siamo senza indugi nell’orbita riformatrice). Si tratta piuttosto di uno schieramento più fondamentale. Di rilanciare la critica e aprire fronti battaglieri rispetto alle grandi tematiche su cui si gioca la fine di un’epoca. Su cui quindi si costituiscono anche le spaccature politiche fondamentali. Tutto ciò, naturalmente, senza farsi catturare dalla superficie della dinamica cronachistica e dalla tentazione di spendersi su esigenze di breve respiro.
Su questi temi è aperta la discussione, che certo non si potrà chiudere a breve raggio, ma anzi sarà da rilanciare nell’associazione e fuori di essa.
Note
[1] Si fa riferimento al testo: G. Formigoni – L.F. Pizzolato, Giuseppe Lazzati e il progetto di “Città dell’uomo”, a cura dell’associazione Città dell’uomo, Cooperativa In Dialogo, Milano 2002, pp. 5-19.

