Appunti 6_2006

Un'auspicata svolta nella lotta all'evasione fiscale

Roberto Convenevole

Continuiamo a ospitare, come avevamo promesso, una serie di contributi che incalzino l’azione del governo dell’Unione, sollecitandolo a dare risposte «alte» ai problemi enormi che stanno nell’agenda di questo paese. La questione fiscale è decisiva: lo dice il dibattito che è scoppiato attorno alla finanziaria, con la sua «riforma della riforma fiscale» e la correzione delle aliquote Irpef. La coscienza che se non si batte l’evasione non potremo seriamente godere di una redistribuzione fiscale corretta, né di una riduzione delle imposte, implica la necessità di prendere sul serio il momento cruciale che stiamo vivendo su questo terreno. Ci dice un esperto che il problema è di regole, ma anche di comportamenti e mentalità diffusa (sindacati e chiesa potrebbero fare molto).

Il fisco è terreno di conquista: cercate di produrre cultura.
Rino Formica, Ministro delle Finanze, giugno 1991

 

Prima delle elezioni politiche il presidente Prodi ha espresso un concetto molto semplice: per uscire dall’emergenza dell’evasione fiscale non è necessario ricorrere ad una normativa speciale ma è sufficiente che le leggi vengano rispettate. Il difficile sta nell’attuazione di questa direttiva che in sé appare ovvia e banale. Di recente il vice ministro dell’Economia e delle finanze Visco ha riaffermato che la priorità dell’azione di governo è la lotta all’evasione ed elusione fiscale. Anche nella precedente legislatura, chiusa la stagione dei condoni, il governo Berlusconi mutò l’indirizzo precedente su questo tema sicché come hanno osservato alcuni autori2 la centralità della lotta all’evasione è riemersa con la legge finanziaria per il 2005. Da ciò discende che — almeno teoricamente — vi sia un grosso consenso, parlamentare e nel paese, sulla necessità di ottenere risultati concreti. In sostanza siamo giunti ad un punto di svolta e se non si sbagliano le mosse si potranno conseguire risultati rilevanti: se ciò si verificherà vivremo tutti in un paese più civile.

Gli effetti redistributivi dell’evasione

Molto spesso economisti e politici allorché commentano le cifre dell’economia sommersa stimata dall’Istat incorrono in imprecisioni che possono generare equivoci: in particolare si sostiene che circa la metà dell’evasione italiana sia dovuta al lavoro sommerso alle dipendenze3. Ciò non è esatto, come si evince dalla tabella seguente e dai relativi grafici. Se si fa riferimento all’ultima statistica Istat disponibile4 si vede che per il 2003 l’Istat stima un valore del sommerso che raggiunge con l’ipotesi massima i 217.250 milioni di euro (16,7% del Pil). Di questa somma solo poco meno di un quarto è riferibile al lavoro dipendente in nero mentre il rimanente è riferibile agli «altri redditi»: vale a dire ai redditi di titolari di impresa o di lavoro professionale ovvero di soci delle società (di persone e di capitale). Poiché in alcuni settori il sommerso è minimo (banche ed assicurazioni) ed in altre è sì cospicuo ma i settori sono particolari (agricoltura e collaboratrici domestiche), è opportuno focalizzare l’attenzione sul settore privato non finanziario escludendo anche l’agricoltura e le colf (nella tabella definito «settore privato Nafc»).
A questo punto si può vedere quale sia l’effetto distributivo dell’evasione. Infatti, l’economia emersa del settore privato Nafc ci dice che il suo prodotto lordo, al netto delle imposte indirette nette, si distribuisce per il 46% a salari e per il 54% ad altri redditi. Quando però passiamo al sommerso Nafc i salari in nero valgono solo il 20,7% e gli altri redditi in nero ben il 79,3%. Si arriva così al risultato finale (Pil Istat del settore Nafc, colonna 2 della tabella) che ci dice che i salari pesano per il 41% scarso e gli altri redditi per il 59% pieno. In termini assoluti, su un valore complessivo di 181,6 miliardi di euro di sommerso nel settore Nafc, i salari si appropriano di 37,6 miliardi e le imprese ed il lavoro autonomo si appropriano di 144 miliardi di euro: per ogni euro che va ai salari in nero ve ne sono 3,8 che vanno agli altri redditi in nero. A questo punto diventa più chiaro il tema di chi tragga profitto dall’evasione.

Il sommerso secondo l’Istat (2003)  
(1) PIL (2) Settore (3) Emerso (4) Sommerso (5) intensità  totale  privato NAFC     NAFC  NAFC (4):(3)x100 
Valore aggiunto 1.300.926 1.029.124 847.477 181.647 21,43%  
Redditi da lavoro 543.817 355.375 317.807 37.568 11,82%  
dipendente  Altri redditi 584.432 514.566 370.487 144.079 38,89%  
Imp. Indir. nette 172.677 — — —  
Legenda: cifre in milioni di euro; il Pil è quello totale comprendente la pubblica amministrazione; il settore privato Nafc esclude, oltre alla pubblica amministrazione, anche l’agricoltura, le banche ed assicurazioni e le colf.

Il passo successivo, che qui non viene trattato, consiste nell’attribuire l’evasione precedente alle imprese (cioè alle partite Iva attive) considerate per fascia dimensionale. L’universo è quello dei soggetti Iva attivi nel settore Nafc. Ad occhio e croce almeno il 90% dell’evasione è attribuibile alle imprese che hanno un fatturato inferiore a 5,1 milioni di euro: sono le imprese assoggettate agli studi di settore.

Cosa fare, quindi?

Se la situazione è quella delineata prima appare ben evidente che la strada sulla quale spingere sia quella rappresentata dagli strumenti che sono in grado di far crescere l’adempimento spontaneo. Vale a dire che la sola strada possibile per uscire dalla grande evasione consiste nel convincere la gran massa delle piccole imprese (ed i lavoratori autonomi) a dichiarare redditi più credibili, riuscendo ad esercitare un’azione di deterrenza. Lo strumento principe per realizzare la deterrenza sono gli studi di settore. Anche se negli ultimi anni esso ha dato risultati molto deludenti, ora si pensa di rilanciarli con una gestione più accorta ed una strategia innovativa5. Le linee di intervento sono quelle delineate dal vice ministro dell’Economia e delle finanze in Parlamento6. Un obiettivo realistico può essere quello di arrivare in un quinquennio a dimezzare l’ampiezza dell’evasione fiscale. Questo risultato lo si può ottenere tarando meglio gli studi e quindi innalzando man mano, ma con regolarità, l’asticella che il «contribuente con partita Iva» vede, applicando alla sua realtà lo studio di settore: in tal modo il contribuente sa quello che il fisco si aspetta da lui e sa anche che se adempie alle richieste non verrà controllato7. Pertanto, gli studi di settore, gestiti in maniera accorta, possono rappresentare una sorta di assicurazione per il contribuente. Questo non vuol dire debellare l’evasione ma vuol dire ricondurla a livelli più accettabili: i contribuenti devono essere portati a dichiarare redditi decenti e non già indecenti come accade oggi.
Faccio un esempio macroeconomico tornando alla tabella iniziale. Si è visto come nel settore Nfac l’evasione delle imprese e dei professionisti ammonti a 144 miliardi di euro nel 2003. Si ipotizzi che l’evasione delle grandi imprese possa valere tra i 15 ed i 20 miliardi (ad abundantiam); le piccole imprese assoggettate agli studi di settore valgono dunque 125 miliardi di base imponibile non dichiarata come redditi di impresa a cui si aggiungono i 37 miliardi di euro come salari pagati in nero8. Attualmente gli studi di settore stimano, nel loro complesso, circa 22 miliardi di «maggiori ricavi» che le imprese devono dichiarare. Vale a dire il 14% del complesso dei redditi non dichiarati (imprese, lavoro autonomo e salari in nero), in pratica 1/7 del totale. Per dimezzare l’evasione su questo segmento di imprese, gli studi di settore devono essere tarati in maniera tale da generare un maggior ricavo da dichiarare pari ad almeno 80 miliardi di euro. Questi maggiori ricavi si dovrebbero tramutare in maggior base imponibile ai fini Irap e delle imposte dirette. Se ciò accadesse è evidente che si sarebbero poste le basi per recuperare una parte cospicua del sommerso Istat. Sulle imprese escluse dagli studi di settore, l’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle entrate e Guardia di finanza) deve procedere con le verifiche fiscali periodiche.
Impostato il problema in questi termini, l’Amministrazione finanziaria dovrebbe concentrare i suoi sforzi, in maniera massiccia solo sui contribuenti che risulteranno «non congrui» con le nuove richieste degli studi di settore. A questo punto tali contribuenti dovranno scegliere tra due strade: adempiere alle richieste del fisco oppure rifiutarsi ed essere quindi accertati. Per funzionare, il meccanismo deve essere tale per cui adempiere spontaneamente sia più conveniente che essere accertati. In concreto, è illusorio chiedere a chi evade di pagare sulla totalità dei redditi in nero, ci si deve accontentare che essi paghino su una parte del loro nero. Dopo aver impostato il problema nei termini precedenti, il fisco, a mio modo di vedere, si dovrebbe sforzare di riuscire a discriminare tra l’evasione da sopravvivenza e quella che invece garantisce livelli elevati di reddito cui non corrisponde un’adeguata partecipazione al finanziamento della cosa pubblica. Su questa seconda parte andrebbero concentrati gli sforzi.

Il ruolo chiave del movimento sindacale

Finché l’evasione fiscale rimane ancorata a dimensioni simili a quelle ricordate prima si può fare ben poco per rilanciare la politica economica per accrescere le infrastrutture di cui l’Italia ha bisogno e/o diminuire la pressione fiscale sui contribuenti più virtuosi. Più che formulare richieste al governo, il sindacato dovrebbe interrogarsi su cosa esso possa fare per la collettività proprio sul versante del contrasto all’evasione. In altri termini, come il sindacato può dare una mano allo Stato. Com’è ben noto, il sindacato ha una presenza radicata nell’amministrazione finanziaria che vale la pena riassumere in poche cifre. Nell’Agenzia delle Entrate su 36.213 lavoratori vi sono 919 dirigenti. Tra i lavoratori non dirigenti (35.294) i sindacati dispongono di:
–  circa 2.000 delegati (eletti periodicamente) che assorbono 17.500 ore retribuite;
–  127 delegati distaccati su base annua (vale a dire 190.000 ore retribuite);
–  circa 280 dirigenti sindacali, non in distacco, che usufruiscono di circa 40.000 ore retribuite.
Si tratta di una presenza qualificata e capillare che va utilizzata per rilanciare la produttività degli uffici proprio sul versante della lotta all’evasione9. Due, in particolare, sono gli obiettivi di medio periodo da conseguire: rifiutare la prassi consolidata degli avanzamenti di carriera erga omnes (tramite la contrattazione integrativa) e chiedere che si affermi il principio del merito, quale faro per guidare sia la politica retributiva sia quella degli incentivi10. E’ necessario dunque realizzare una sorta di rivoluzione copernicana abbandonando la comoda politica assistenziale che crea facili consensi ma non dà risultati, se non effimeri. Ricordandosi che tale politica da un lato è subalterna alla dirigenza e dall’altro dà spazio alle spinte più reazionarie sempre presenti nella dirigenza pubblica11. Nella macchina fiscale l’elemento umano rimane quello decisivo. Per quanto possa essere spinta l’automazione informatica non si può prescindere dall’uomo che conduce un controllo. E non c’è nulla di più deleterio che avere funzionari demotivati perché non vi sono strumenti per riconoscere il loro merito. Se si facesse leva sul merito si otterrebbero risultati importanti anche sul fronte dell’assenteismo e sotto il profilo etico, aspetto questo che non va mai trascurato considerando che, in sostanza, un controllore fiscale deve far pagare le tasse a chi non vuole adempiere spontaneamente agli obblighi costituzionali12. E’ solo sulla base del merito che si potranno ottenere risultati importanti sul fronte della lotta all’evasione.

Tiriamo le fila

L’evasione italiana è cospicua ed incompatibile con la nostra permanenza nell’Unione Europea. Per rientrare dalla grande evasione è necessario ideare una politica programmata di recupero fiscale13. Si tratta di un obiettivo che rappresenta una sfida per la politica riformista, date le caratteristiche della società e dello Stato, e che quindi necessita il concorso di tutti. Nei primi sei mesi del nuovo governo (DL 223 di luglio e finanziaria per il 2007) sono state fatte cose importanti:
–  modifiche al funzionamento concreto dell’Iva per accrescerne il gettito senza aumentare le aliquote (cosa che avrebbe penalizzato innanzitutto i cittadini più poveri);
–  norme per limitare i danni provocati dalle frodi Iva in materia di scambi intra-comunitari (importazioni di autovetture sul mercato parallelo e commercio di beni legati all’informatica);
–  tracciabilità dei compensi ricevuti dai lavoratori autonomi (medici, avvocati, ingegneri ecc.);
–  riordino del funzionamento dell’imposta personale sul reddito (Ire) sanando le incoerenze ereditate dalla riforma Tremonti;
–  modifiche al funzionamento degli studi di settore (la cosiddetta nuova coerenza).
Le misure ricordate dimostrano che c’è la volontà di affrontare il toro per le corna. Ma essa da sola non basta e soprattutto va mantenuta ferma per molti anni. Per risolvere i problemi dell’economia italiana la sola strada possibile è quella di un graduale e costante recupero di base imponibile. L’impresa è ardua e non può essere ottenuta solo con la repressione: è indispensabile una vigorosa crescita dell’adempimento spontaneo sostenuta da un rinnovato spirito civico. Tutti devono essere chiamati a fare la loro parte: le organizzazioni di categoria, gli ordini professionali, i sindacati, la scuola, la politica e le istituzioni: in una parola la società civile. Oltre ai sindacati, di cui già si è detto, molto possono le organizzazioni morali e tra queste la Chiesa. Gli uffici territoriali dell’Agenzia sono circa 400 mentre le parrocchie sono 25.980: la loro diffusione è estremamente capillare. La Chiesa avrebbe tutto da guadagnare dal restringimento dell’evasione perché esiste il meccanismo dell’8 per mille sul gettito dell’imposta personale che la finanzia. Io credo che si debba utilizzare l’opportunità rappresentata dall’altissimo magistero di papa Benedetto XVI affinché la Conferenza episcopale italiana si schieri fattivamente accanto alle istituzioni dello Stato per combattere la doppia morale sottostante l’evasione fiscale. Il Vescovo di Chieti è stato esplicito nelle scorse settimane14. Io credo che la Cei non debba lasciarlo isolato com’è accaduto, in altri contesti, ai magistrati impegnati nella lotta contro la mafia. Se alla Cei stanno a cuore i «quozienti familiari», come più volte ha detto chiedendo una politica per la famiglia, l’istituzione si deve impegnare per reperire le risorse necessarie. Altrimenti la Conferenza formula solo una richiesta velleitaria15.
Vorrei terminare ricordando una tremenda frase di Simone de Beauvoir che ben si attaglia alla situazione che vive il nostro Paese: «bisognerebbe capire che le cose sono senza speranza e ciò nonostante continuare a battersi per cambiarle».

1  Le opinioni espresse nell’articolo impegnano solo la personale responsabilità dell’autore e non anche quella dell’Agenzia delle entrate.
2  Tra gli altri si veda R. Faini – S. Giannini – D. Gros – G. Pisauro – F. Kostoris Padoa Schioppa, I conti a rischio. La vulnerabilità della finanza pubblica italiana, Il Mulino, Bologna 2006.
3  «Le stime più accurate dell’economia sommersa e quindi nascosta fanno riferimento al 2003 e indicano che ci sono più di 200 miliardi di euro di valore aggiunto su cui non si pagano imposte con evidenti conseguenze sul gettito. Di tale ammontare, circa 100 miliardi derivano dall’utilizzo di lavoro non regolare e più di 93 miliardi da sottodichiarazione di fatturato ottenuto con occupazione regolare»: dall’audizione parlamentare del vice ministro dell’Economia e delle Finanze Visco del 12 ottobre 2006.
4  La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali, in «Statistiche in breve», 22 settembre 2005.
5  Per approfondire la tematica degli studi di settore si veda l’intervento di chi scrive, con Stefano Pisani, Quello che gli studi di settore non dicono, «LaVoce.info», edizione del 10 novembre 2006.
6  In questa nuova ottica, è molto importante un passo dell’intervista rilasciata dal prof. Visco a «Famiglia cristiana», 17 settembre 2006: «Conta molto l’organizzazione ed un controllo efficace, ma pesa anche l’opera di persuasione. La repressione è l’ultima delle opzioni. Si deve creare un clima per cui pagare le tasse conviene, perché così si evitano guai, si riducono le imposte per tutti e si possono finanziare le opere che servono alla collettività».
7  Alla fine di tutto, lo studio di settore partorisce un software informatico personalizzato, chiamato Ge.Ri.Co., che tramite l’inserimento dei dati strutturali e contabili della singola impresa calcola automaticamente i ricavi che il fisco ritiene congrui. Se l’impresa non si adegua ai risultati essa può venire accertata con lo strumento degli studi di settore. In futuro, le richieste di Ge.Ri.Co. dovranno essere sempre più personalizzate al fine di meglio cogliere i comportamenti devianti.
8  Nelle grandi imprese vi può essere il fenomeno degli straordinari pagati in nero e dunque senza ritenute fiscali e contributive. Si dovrebbe pertanto fare un’ipotesi sulla rilevanza quantitative di questo fenomeno. Su questo aspetto il sindacato potrebbe dare una testimonianza importante.
9  Sui 2.000 delegati sindacali le confederazioni Cgil, Cisl ed Uil ne hanno circa i due terzi. E’ da questa base unitaria che si deve partire per mobilitare anche le altre rappresentanze sindacali.
10  Di recente il Governatore della Banca d’Italia ha osservato che «Il riconoscimento del merito non è garanzia di equità, ma, senza, la società è sicuramente più iniqua, perché accentua la discriminazione generata dalle condizioni di partenza; allo stesso tempo, è anche più povera, perché spreca le risorse» (Cfr. Lectio Magistralis tenuta alla Facoltà di Economia di Roma La Sapienza). L’Agenzia delle Entrate può essere un laboratorio per sperimentare vie nuove finalizzate alla crescita dell’efficienza e della produttività.
11  Ricordo due vette eccelse di negatività toccate dai sindacati quando sono stati subalterni alla dirigenza. Nel 1998 la dirigenza del Dipartimento del catasto suggerì il ricorso all’utilizzo dei «lavoratori socialmente utili» per smaltire gli arretrati catastali (volture, planimetrie, classamenti ecc.). Ebbene per far accettare ai lavoratori un’iniziativa da paese di socialismo reale la dirigenza del catasto pensò bene di proporre un patto scellerato: i lavoratori socialmente utili avrebbero concretamente svolto il lavoro e sarebbero stati pagati di conseguenza; i dipendenti del catasto avrebbero «assistito» i primi, percependo una remunerazione identica. In sostanza il recupero dell’arretrato venne pagato due volte. Nessuna sigla sindacale si oppose, al di là di qualche mugugno. Più di recente, Gian Antonio Stella ha reso pubblico sul «Corriere della Sera» del 29 dicembre 2005 il meccanismo di corresponsione del premio di produttività (titolo: Tesoro, la legge dona 407 milioni ai dipendenti. Occhiello: E’ il ‘premio di produttività’ legato ai controlli fiscali e ai risparmi di spesa. In media sono andati 6 mila euro a testa, ma i vertici ne hanno avuti 55 mila). La denuncia era tutta esatta salvo precisare che mentre nell’Agenzia delle Entrate i dirigenti sono giustamente esclusi dal premio di produttività sin dal 2001, nelle altre Agenzie fiscali e nei Dipartimenti del Ministero dell’Economia ciò non accade. Si badi bene che la scelta giusta è quella dell’Agenzia delle Entrate dal momento che i dirigenti ricevono una parte cospicua del proprio stipendio (dal 30% al 50%) per via dell’incarico che svolgono e che è appunto «dirigenziale». Nella altre Agenzie e nel Ministero, invece, è prevalsa una logica clientelare che ha concesso a tutti, indistintamente, la corresponsione del premio: in tal modo i dirigenti del Tesoro e delle altre Agenzie si sono appropriati di qualcosa che era dei lavoratori di base. Anche in questa circostanza i sindacati sono rimasti muti e non si sono opposti.
12  Il funzionario che fa un controllo fiscale può essere indotto dalla controparte ad alterare la sua leale condotta di pubblico dipendente. Questo rischio esiste per definizione in tutti i paesi, anche quelli occidentali, e da noi, per motivi storici e culturali, è più elevato.
13  Per un’articolazione di questa ipotesi si veda dello scrivente Per una politica programmata di rientro dall’evasione, comunicazione al convegno di Ancona del febbraio 2002, in P. V. Renzi (a cura di), Gli studi di settore come strumento di politica federalista. Il ruolo della regione, Franco Angeli, Milano 2003.
14  La stampa nazionale ha dato grande risalto all’intervento che l’arcivescovo Bruno Forte ha tenuto il 10 novembre 2006 all’Università di Chieti (Etica, mercato e disuguaglianza nel ‘villaggio globale’ e nei contesti locali).
15  Nel 1991 la commissione ecclesiale Giustizia e pace della Cei ha pubblicato un fondamentale documento dal titolo Educare alla legalità. In premessa il presidente della commissione ecclesiale ricordò «la caduta del senso della moralità e della legalità nelle coscienze e nei comportamenti degli italiani», osservando che questo era «un altro fattore che mette a rischio la giustizia e la pace nel nostro Paese».