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Laicità e Stato: un nuovo patriottismo della Costituzione, una nuova responsabilità dei credenti

1. La laicità è tornata a fare problema

È un segno dei tempi che si discuta di nuovo di laicità. I motivi sono molti e diversi. Da una parte, i tempi di grave crisi culturale, di insicurezza economica e civile e di guerra incombente, hanno favorito un ritorno della religione nel dibattito civile che assume modalità anch’esse dimenticate da tempo: quasi che il sacro divenisse di nuovo riserva per la vita pubblica delle società, in cui molte persone non sentono più di avere altri sostegni concreti sul piano esistenziale e morale. Proprio per reazione a queste tendenze, si sono rilanciate le polemiche sull’invadenza della Chiesa e dei vescovi nello spazio pubblico e politico (la polemica attorno alla legge sulla fecondazione assistita è stato solo l’ultimo acuto di un tema sempre più vivo). Qualcuno è arrivato fino a riproporre, come reazione al clericalismo di ritorno, denunce del concordato di cui non si sentiva parlare da anni. Ancora, la crescita del fenomeno dell’immigrazione e le (sopravvalutate, ma reali) conseguenze sul pluralismo religioso della nostra società introducono problemi nuovi di convivenza tra religioni, legislazione dello Stato e regole civili. Qualcuno vive il problema come inizio di una «guerra di civiltà», qualcun altro torna a invocare una «identità cattolica» del nostro paese su cui era stato almeno distratto fino a tempi recenti.  Sullo sfondo, si staglia la questione del radicalismo religioso, del fondamentalismo e di tutte le posizioni religiose che condannano la modernità, in nome di un ideale teocratico o ierocratico (posizioni presenti nell’islam, ma non assenti nella galassia delle chiese cristiane o nell’ebraismo ultra-ortodosso). Il problema ritorna, ma il linguaggio e i concetti restano equivoci e ambigui: per questo vorremmo offrire un contributo che speriamo possa essere chiarificatore di un approccio culturale organico al problema.

2. La questione cruciale: lo Stato «casa di tutti» nel pluralismo culturale e religioso

Sembra difficile non partire dalla riaffermazione di un dato che è insieme un orizzonte reale dei nostri tempi e una premessa irrinunciabile della modernità: non si può trascendere, per via statuale o politica, il pluralismo culturale e religioso, di fedi, convinzioni, visioni del mondo, culture, mentalità. Lo Stato è quindi e deve essere casa di tutti. In questo senso appare ambigua l’espressione «età post-secolare», proposta tra gli altri da Jürgen Habermas. Nel campo delle istituzioni, l’acquisizione fondamentale della modernità europea è e deve restare il carattere laico e secolare dello Stato. Istituzioni laiche vogliono dire aperte, accoglienti e neutrali in materia religiosa. Del resto, in Italia, abbiamo un patrimonio avanzato di consapevolezza anche giuridica in questa direzione. La sentenza della Corte Costituzionale 203 del 1989 si esprime così: la laicità dello Stato «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale». Libertà di religione e parità delle religioni vogliono dire rispetto delle religioni e rispetto delle coscienze individuali, con tutti i loro credi, religiosi o non religiosi. Applicando questa regola a un caso molto discusso anche in tempi recenti: il crocifisso nelle aule scolastiche pubbliche può essere un retaggio della nostra storia, ma se anche solo uno dei ragazzi o dei genitori ritiene di essere colpito nei propri convincimenti da quel segno, occorre essere disponibili a toglierlo. Imporlo come «identità culturale» italiana è contro la laicità dello Stato (oltre che contro il carattere simbolico profondo del crocifisso stesso, che per i credenti rappresenta lo «scandalo» della fede e non una qualche rassicurante certezza della cultura).

3. Laicità non è solo tutela delle diversità, ma riconoscimento comune su un tessuto di valori costituzionali

Questa rigorosa difesa della laicità non comporta assolutamente indifferenza tra le diverse religioni, mettendo sullo stesso piano scelte, comportamenti, valori. Non possiamo concepire una società basata soltanto sulla «differenza», come se la convivenza si esprimesse in una sorta di arcipelago di gruppi e confessioni religiose chiuse in loro stesse e non stimolate a verificarsi sul proprio modo di vivere e convivere. Società multiculturale non vuole dire necessariamente una società frammentata, senza fraternità. Il tessuto comune di queste diversità, il loro fecondo incontro, non può che essere realizzato attorno ai valori costituzionali, che non sono «neutrali» e sono anzi discriminanti in materia morale e civile. Su questi valori essenziali deve potere essere richiesta l’adesione a tutti i cittadini (anche chi sia portatore di culture e religioni altre, diverse da quelle radici anche religiose cristiane in cui i valori del costituzionalismo europeo si sono sedimentati). I valori costituzionali rappresentano inoltre il termine di riferimento decisivo per la tutela delle persone e della libertà delle coscienze individuali, anche rispetto a pratiche o comportamenti dei diversi gruppi religiosi o etnici che neghino concretamente questa libertà. Un esempio estremo in questa direzione può essere costituito dalla legge recente che vieta le mutilazioni sessuali femminili. La libertà religiosa non è mai concepibile soltanto come libertà delle comunità religiose, ma deve essere libertà di ogni coscienza e di ogni individuo, anche nei confronti della propria scelta o tradizione religiosa (nel senso con cui il Vaticano II ha parlato di libertà religiosa: solo attraverso un’adesione interiore si può arrivare alla verità). Lo Stato laico tutela questa libertà in nome dei suoi valori costituzionali positivi, attorno a cui sarebbe bene riscoprire un sano patriottismo.

4. Laicità non è un’ideologia secolare antireligiosa, ma un atteggiamento
programmatico di rispetto verso ogni religione

Al contempo, non è accettabile configurare la laicità come una a-religiosità dello Stato, quasi fosse una posizione ideologica essa stessa dotata dei crismi di una visione del mondo, e precisamente di una visione del mondo non religiosa. La laicità non è concepibile come il progresso che si contrappone all’oscurantismo della religione. Una visione «francese» (nel senso della Francia di inizio Novecento) della laicità come ideologia secolare, che tolleri al massimo la religione nella coscienza dei singoli ma la espunga rigorosamente da ogni occasione e comportamento pubblico, è oggi superata ovunque, e anzi rischierebbe di ripresentare un pericoloso monismo da Stato etico, da evitarsi a ogni costo. In questa direzione, per altro, anche l’evoluzione della visione «repubblicana» francese (come espressa dalle conclusioni della recente Commissione Stasi) ci pare di grande interesse, in quanto esce dai vecchi equivoci e supera d’un balzo ogni contrapposizione clericalismo-anticlericalismo, nonostante le residue ambiguità della legge contro i simboli religiosi nella scuola pubblica. Il rispetto verso ogni forma religiosa è infatti l’altra faccia della rigorosa tutela della libertà religiosa delle comunità e dei singoli.

5. Laicità non è indifferenza, ma riconoscimento dialogico da parte dello Stato delle forme religiose esistenti

La non indifferenza religiosa dello Stato chiede una prassi di dialogo e riconoscimento reciproco, anche istituzionalizzato. Più si dialoga, più c’è spazio per la crescita comune e l’accoglimento reciproco di insegnamenti e lezioni. Questo comporta il riconoscimento istituzionale delle forme organizzative comunitarie della religione, che occupano di per sé uno spazio pubblico. Opportunità importante è per esempio l’organizzazione, ancora multiforme e instabile quanto promettente, dell’islam europeo in forme autonome. Con questi organismi tenere aperti canali istituzionali è fondamentale per le istituzioni dello Stato laico: l’organizzazione di «consulte» o organi di confronto è sempre utile, anche coinvolgendo le posizioni più radicali, purché disponibili a una interlocuzione trasparente.  I cosiddetti autodefiniti «laici» (intesi qui nel senso di persone non credenti) sono sfidati a esprimere una loro concezione morale e civile, non possono trincerarsi dietro la logica della neutralità: la laicizzazione, fondamentale acquisizione di metodo, non è autosufficiente, ma va arricchita con il dialogo delle coscienze e il dialogo tra le istituzioni civili e religiose. A scanso di equivoci, questo riconoscimento istituzionale non coincide con la fissazione di eventuali situazioni di privilegio nei confronti di «religioni storiche»: che ci siano forme pattizie di intesa è senz’altro una possibilità, ma tale scelta non deve smentire l’orizzonte del riconoscimento del pluralismo e della libertà religiosa, come sopra definito. In questo senso, appare insensato ridiscutere l’intesa concordataria del 1984 in Italia, che per altro ha portato il paese al di fuori di ogni privilegio per il cristianesimo, non più «religione di Stato» (come dimostrano le altre intese tra Stato e confessioni religiose).

6. Non è tollerabile nessuna strumentalizzazione della religione cristiana come forma di identità culturale

Per quanto riguarda il cristianesimo, il discorso sopra svolto impedisce di pensare a qualsiasi scorciatoia che identifichi la religione come nuovo baluardo di un’identità culturale e civile (dell’Italia o dell’Occidente), in chiave di distinzione e contrapposizione con altre religioni. I cosiddetti teo-con, che si ispirano a tale logica, compiono un doppio errore: dimenticano la forma essenziale della laicità che la storia europea ha consegnato ai nostri popoli e strumentalizzano indebitamente una religione che per principio è universale («cattolica») a fini indubbiamente ristretti e particolaristici, anche ove questi fini siano addirittura comprensibili, nella ricerca di sicurezze identitarie per le nostre popolazioni colpite dall’ansia epocale del nostro periodo storico. Non stupisce che questa operazione sia svolta con disinvoltura da personalità ostentatamente non credenti (dietro di loro rispunta il vecchio cinismo dei libertini: la religione è utile alle élite disincantate per tenere i popoli controllati; un tempo si temeva la rivoluzione sociale, oggi sono i costumi individuali che mettono a rischio la coesione). Stupisce di più che queste posizioni culturali godano di qualche udienza e attenzione nel mondo cattolico, in cui esiste chi le considera equivocamente come fautrici di un positivo riconoscimento del valore sociale della religione. La Chiesa dovrebbe invece vigilare molto sui rischi di aperta strumentalizzazione dei propri valori essenziali ai fini di una contrapposizione fasulla e pericolosa delle «civiltà».

7. Occorrono maturità e responsabilità della Chiesa e dei credenti

In questa logica, i cristiani e le chiese devono abituarsi a non contare sui puntelli istituzionali (anche dove essi siano esistenti per ragioni storiche o per situazioni civili particolari), oppure sulla tradizione e quindi sulla presunta forza spontanea del proprio ruolo storico. Per compiere l’opera di evangelizzazione, legittima (e dal nostro punto di vista di credenti potremmo dire doverosa), occorre non confidare in altro che nella formazione dei cristiani stessi a un senso veramente evangelico della vita e quindi nella capacità di trasmettere la fede nel libero confronto delle coscienze, che possa svilupparsi spontaneamente nella società. Questa è anche la via maestra unica per influire a lungo termine sulla sensibilità sociale, sul consenso pubblico e, quindi, sulle istituzioni e sulla legislazione di un paese. Non ha senso chiedere attenzioni e privilegi per un dato storico o per una presunta capacità di integrazione sociale che la religione svolga di diritto. Nessuna legge positivamente contrattata da istituzione a istituzione, oppure da forza sociale con le forze politiche, potrà salvaguardare in modo duraturo i cosiddetti «valori non negoziabili», se questi valori sono quotidianamente «negoziati», incompresi, banalizzati nelle coscienze dei cittadini di un paese. Attorno alla verità di questi valori va costruito pazientemente un consenso che parta dall’interiorità delle persone.

8. Per costruire questo equilibrio, anche nelle Chiese, occorre ascoltare i laici e la loro esperienza

I vertici istituzionali e gerarchici della Chiesa cattolica farebbero bene, in questa prospettiva, a riconoscere che non su tutte le questioni essi possiedono un’esperienza tale da potere esprimere una parola cristiana definitiva (cfr. la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, n. 43). Una loro eccessiva esposizione pubblica non giova alla comprensione e alla diffusione del messaggio evangelico, anzi può essere facilmente equivocata come ricerca di posizioni di potere e suscitare quindi spinte politiche contrapposte. Valorizzare invece la capacità di discernimento, la ricerca sofferta, le doti di positiva mediazione politica proprie dei laici cristiani adulti e maturi, è la via maestra per «iscrivere la legge divina nella vita della città terrena». Il fatto che nessuna soluzione concreta trovata dai credenti per i problemi scottanti della società umana rivendichi a sé l’autorità propria della Chiesa, servirà anche per rendere meno aspro uno scontro tra posizioni cattoliche e posizioni non cattoliche (impropriamente dette «laiche»), che non fa bene in nessun modo né alla crescita paziente della coscienza comune né alla lievitazione cristiana della storia umana.

20 novembre 2006