Appunti 5_2006

L’occasione del partito democratico

Giovanni Bianchi

Dossettianamente parlando, la difficoltà della nomenklatura partitica a rispondere alle esigenze dei tempi, evidente nella delegittimazione crescente del ceto politico, apre uno spazio che si può definire una «occasione» storica. E nemmeno il governo può da solo riempire un vuoto di politica.
Riprendiamo il filo del discorso sul partito democratico a partire da una vittoria elettorale ormai archiviata e che è figlia di due radicalizzazioni: quella del centrosinistra nei confronti di Berlusconi e quella di Berlusconi nei confronti della sinistra. Parafrasando l’antica e famosa espressione di Aldo Moro potremmo forse dire che invece di due vincitori ci troviamo in presenza di due perdenti. In una fase storica nella quale le radici culturali si disperdono e comunque non si consegnano più alla politica di questi partiti. Muovendoci dunque tra ragioni «tiepide» e programma «caldo», e comunque da non mitizzare, ci lasciamo definitivamente alle spalle i partiti del Novecento. Operazione che ci obbliga da un lato a riaggiornare l’analisi sociale non soltanto del Nord e del Lombardo-Veneto in particolare, ma anche a rimettere le mani nella scatola degli arnesi del simbolico profondo. Ed infatti è finto e impolitico realismo quello che punta tutto e soltanto sullo zoccolo duro degli interessi. La discontinuità di cui prendere atto (le discontinuità accadono, le discontinuità non si programmano) è costituita dal fatto che tutte le nostre culture eccedono la forma partito.

Nomenklature e insufficienze

Questi partiti non sono fortunatamente più i partiti «chiese» alberoniani, ma necessariamente partiti-programma. Tutte le nostre visioni del mondo, cattoliche, laiche o diversamente orientate o agnostiche, non possono più essere contenute dalle maglie dei partiti post novecenteschi. Il primo inevitabile passo chiarificatore, vera pulizia mentale, non può non essere l’abolizione di questa scellerata legge elettorale blasfemamente definita proporzionale. Essa ha fatto emergere, quantomeno nell’ingegneria delle liste, il peggio del centrosinistra, che evidentemente non è riducibile al suo peggio ma che di quel peggio ha fatto uso visibile. Non si tratta dell’epifania di oligarchie, come da più parti si è scritto, ma della corposa presenza di nomenklature e residui di nomenklature. Perché le oligarchie presentano problemi e difetti di partecipazione, ma vivono e fanno vivere un destino. Per capire un nomenklatura non serve studiare Mosca, Pareto o Michels: bisogna riprendere in mano Konrad Lorenz e ripassare qualche nozione di etologia. Gli uomini della nomenklatura amano infatti delimitare territorio piuttosto che dedicarsi alla conquista di nuove terre ed adepti e sovente il loro comportamento può sfiorare il parassitismo. Nell’occasione dell’ultima tornata elettorale la loro voracità s’è appalesata tale da richiamare un antico broccardo di Cocco Bill: «Ne uccide più la gola che la spada». Non a caso un personaggio sperimentato come Gianni Cervetti punta il dito contro i vizi delle tribù ex partitiche e Pietro Scoppola invita a ricostruire, possibilmente in fretta, aristocrazie morali e intellettuali. Il punto consegnatoci è: come mitizzare il programma. Michele Salvati ne prende atto con l’abituale puntualità e correttamente rilancia, temendo l’impraticabilità di un fusione «fredda», il programma «caldo». Condivido. Ci vuole mito, come per il primo Ulivo. E qui si pone un problema di riflessione intorno al tema davvero epocale di un consenso etico tra culture. Ma anche un enorme problema di genialità organizzativa (Sturzo era un genio dell’organizzazione). Altrimenti il rischio è realissimo: che anziché inventare un’organizzazione al livello del pluralismo positivo che c’è, riduciamo le nostre culture all’organizzazione che c’é.

L’occasione riformista

Non parlerei, a questo punto, di necessità, ma dossettianamente di occasione storica da cogliere a partire da Milano, storica ed ex capitale del riformismo. Chiedendomi per cominciare se la sequela di sconfitte accumulate e i prolungati fasti municipali, e non solo, del berlusconismo, un vero buco nero, non costituiscano paradossalmente essi stessi una occasione opportuna. Quanto al risultato elettorale milanese la ragione dei numeri assolve Ferrante. Non si tratta peraltro di vincere un’elezione ma di approntare un percorso e un programma di lungo periodo. Si tratta, di più, di ristrutturare tutto il campo di forze del centrosinistra: non solo quelle destinate a raccogliersi sotto l’ombrello del partito democratico, ma anche quelle che fanno riferimento alla sinistra alternativa. Perché soltanto l’insieme di entrambe queste operazioni è in grado di garantire la governabilità di tutto il centrosinistra. Eppure l’operazione preliminare consiste nell’attitudine a pensare il partito democratico che non può essere ulteriormente ridotto a un accostamento di biografie e ad una spartizione di posti tra nomenklature troppo note e troppo longeve. Non a caso Aldo Moro, purtroppo ridotto a una specie di ketchup per finti democristiani, aveva l’abitudine di ripetere che il pensare politica è già per il novanta percento fare politica… E invece il partito democratico, subissato di chiacchiere e interviste, continua a non essere pensato nella crisi della democrazia della rappresentanza che stiamo attraversando lungo quella che Gabriele De Rosa, ultimo sturziano doc, ha definito la «transizione infinita». Non si fa mente locale sulla circostanza che questo è l’unico paese al mondo che dopo la caduta del muro di Berlino nell’89 ha azzerato tutto il sistema dei partiti di massa, da sinistra a destra e da destra a sinistra. Chi è incappato in Tangentopoli, chi nei furori del Nord protoleghista, chi è andato alla Bolognina, chi ha passato le acque a Fiuggi… In nessun altro paese al mondo è accaduta la stessa cosa: non in Germania dove pure il muro insisteva, non in Francia, neppure tra il milione dei Lussemburghesi.
Una seconda circostanza è rappresentata dall’esito fortunato del referendum sulla revisione della Costituzione voluta dal centrodestra. In esso, accanto al patriottismo costituzionale mostrato dagli italiani, ha fatto capolino un’inquietante mania riduzionistica di entrambi gli schieramenti politici. Ha incominciato Mediaset con una martellante campagna che si concentrava sulla riduzione del numero dei parlamentari; ha risposto Romano Prodi con il contropiede in fine di campagna, sottolineando che il centrosinistra aveva proposto un più draconiano dimagrimento di entrambe le Camere. Atteggiamento che corrispondeva al livore diffuso tra i cittadini che considerano i parlamentari poco più che degli scioperati mangiapane a tradimento, ma che finiva per porre il tema e il numero dei parlamentari sullo stesso piano della riduzione dell’Ici demagogicamente evocata da Berlusconi alla vigilia del voto politico.
Resta il fatto che il livore e la distanza degli Italiani dai loro rappresentanti e dal ceto politico sono davvero palpabili e preoccupanti e che probabilmente la medicina appropriata non consiste in nessuna demagogica rincorsa. Per questa ragione i partiti italiani sono tuttora in attesa di ristrutturazione. Resta il fatto che il narcisismo mediatico e disperato delle leadership correnti ha radici profonde proprio nella crisi della rappresentanza. Resta il fatto — come si è scritto recentemente in Germania — che le nostre democrazie vivono un presupposto etico che non sono più in grado di legittimare. Non si tratta soltanto di un pensiero tedesco, ma anche milanese: Sequeri, della Facoltà teologica lombarda, ha osservato recentemente che mentre la democrazia fugge dall’etica, «l’etica è tentata di porsi in posizione ortogonale rispetto alla politica». Con posizioni spettacolarmente irrigidite e speculari su un versante e sull’altro: Binetti versus Pollastrini. Dove il rischio per il centrosinistra è di assistere a un divaricamento delle distanze interne, con l’affermarsi di posizioni radical-laiciste da una parte, cui fa da contrappunto dall’altra una crescita degli atteggiamenti clerico-moderati tendenti a cannibalizzare le posizioni della tradizione cattolico-democratica fino ad ora politicamente egemoni.
E torniamo un’altra volta a Milano per rifare i conti con il magistero del cardinal Martini, vero luogo minerario della saggezza cattolico-democratica e vero continuatore degli incunaboli di Sturzo, Rosmini, Maritain, Mounier. Da rivisitare le omelie alla vigilia di Sant’Ambrogio, dove viene messa in dubbio la correttezza politica del metodo che sceglie di assumere e difendere i valori uno ad uno (one issue) e si propone invece una visione complessiva dei problemi in grado di dialogare con posizioni diverse e contrapposte in vista di un bene comune dal quale non può essere esclusa a priori la convergenza intorno a un male minore. Non stupisce allora la recente intervista apparsa sul «L’Espresso» dove il Cardinale gesuita, dialogando con il professor Marino, affronta con saggia cautela i temi eticamente sensibili della procreazione assistita e delle biotecnologie, dopo un lavoro di preparazione e revisione durato ben nove mesi: che è misura del tempo francamente inabituale e inedita per i ritmi di un rotocalco.

I lavori architettonici

Un cantiere lungo attende dunque la nascita del partito democratico se il problema non è accostare biografie ma mettere a confronto tradizioni culturali e politiche con un nuovo convincente progetto. Un problema che attraversa la Margherita, dove non pochi reduci del popolarismo si vanno ponendo l’interrogativo se non sia più opportuno e più serio entrare nella nuova formazione in nome di un’identità culturale e sotto un vessillo cattolico-democratico. Funziona in tal senso la memoria che l’origine della Margherita prevedeva essa pure il confronto tra culture politiche diverse, sorta di primo stadio nella prospettiva, già allora, del futuro partito democratico. Un incontro che non si è verificato lasciando la Margherita come una sorta di incompiuta. E’ qui che si situa il primo dilemma degli ex popolari. Perché, per chi guarda da questo punto di vista, il primo problema non è il come ma il chi. Tutto ciò rimanda alla circostanza che deve essere ribadita: in politica le culture se non organizzate scemano e si disperdono e un partito perde i pezzi quando sta fermo, non quando si muove.
Inoltre, il ruolo giocato da Rutelli nel referendum sulla procreazione assistita, proprio per la sua professionale puntualità, lo ha reso un campione del clericomoderatismo. Ma il clericomoderatismo è altro, è addirittura la sostituzione del cattolicesimo democratico: il clericomoderatismo — direbbe Gabriele De Rosa — rende inutile il cattolicesimo democratico e si pone naturaliter in dialogo con le culture cosiddette moderate o centriste che gli sono affini. E’ un altro percorso. Vi sono poi i prodiani doc, i democratici, i reduci dell’Asinello: essi tendono a concentrare tutto il problema nella governabilità e nel governo. Questa drastica riduzione non tiene conto del fatto che la politica precede, accompagna, va oltre il governo. Vi è ancora chi, interpretando lo spirito del tempo, vorrebbe tutto concentrare nella leadership e nelle sue funzioni, esaltandone il ruolo weberiano. Alla maniera di Sturzo che riassunse in sé fondazione e iniziativa del Partito Popolare. Stando così le cose, in assenza di luoghi interni e duraturi di dialogo, la Margherita soffre di un eccesso di ingessatura con semplice giustapposizione di biografie: da Polito a Fisichella, a Binetti e Bobba. E d’altra parte mi pare improponibile l’affrontare un serio dialogo interno alla Margherita e allo stesso partito democratico in assenza della cultura popolare e cattolico democratica, soprattutto in presenza di una evidente estensione del perimetro dei temi eticamente sensibili.
Tutto quanto detto non può non riproporre il tema davvero epocale della laicità. Una laicità che non si colloca più tra moderno e antimoderno, ma piuttosto, come ricorda Sequeri, nel rapporto tra democrazia ed etica, postulando la ricerca, ineludibile, di un consenso etico tra culture. Siamo così ancora una volta rimandati al celebre dibattito tra Habermas e Ratzinger nel quale si riconosce concordemente che la fede implementa e non deprime la ragione dei moderni e che vanno individuati e costruiti luoghi di incontro e dialogo — i foyers sperimentati durante la Repubblica di Vichy da Chenu e Mounier — per continuare una ricerca che non può non essere comune. Per questo il percorso del partito democratico dovrà dotarsi tempestivamente di luoghi di confronto sul territorio e nel quotidiano, con un lavoro umile e «caldo» di messa in rete, perché le convention e le inevitabili kermesse non procurino, lasciate a sé, i danni da concentrazione nell’immagine che surrogano la politica con lo spettacolo e la leadership con il divismo.