Appunti 1_2006

Scuola e formazione

Beppe Tognon

L’ultimo anno scolastico della XIV legislatura, presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ministra Letizia Moratti, volge alla fine e davanti agli 8.728.000 studenti, istruiti da 720.680 insegnanti (più gli ultimi 3.000 insegnanti di religione immessi in ruolo per le feste natalizie) e 96.650 supplenti; diretti da 10.760 dirigenti e assistiti da 244.230 amministrativi ed ausiliari, si spalanca l’incognita di sapere che cosa in fondo pensare della grande rivoluzione scolastica della destra, i cui effetti sono quasi tutti solo sulla carta. Sono un mare di persone che ogni anno, come per miracolo, rientrano a forza dentro un vestito rattoppato, ma ancora dignitoso. Mobilitano il paese, ma il paese non si mobilita per loro e non sono certo disponibili per un ennesimo scempio retorico della loro dignità. In questo anno elettorale il problema politico della sinistra italiana è di non rimanere prigioniera di un riflesso condizionato negativo e di non gettarsi a capofitto contro una riforma che non c’è per invece usare al meglio le competenze di cui dispone al di fuori di ogni ideologismo.
Non è una impresa facile perché l’anno non sarà un anno glorioso. Si caratterizzerà per la fine melanconica dei grandi progetti riformatori della destra e di ancor più smisurate ambizioni pedagogiche. La riforma organica della scuola imposta in parlamento dalla Moratti con la legge 53/2003 contiene una serie di nodi, di incoerenze, di improvvisazioni e di semplificazioni che sarà difficile per chiunque, anche per la maggioranza che l’ha approvata, considerarla come il campo base avanzato per poter raggiungere la vetta di una stabile modernizzazione del sistema scolastico e formativo nazionale. La vicenda è tale da non entusiasmare nemmeno i più duri avversari politici della maggioranza berlusconiana, perché solo chi è accecato da pregiudizio non vede quanto bisogno ci sarebbe stato e c’è di una rapida quanto condivisa azione rigeneratrice della scuola italiana. Purtroppo bisogna caricare sull’arrogante gestione della Moratti e dei suoi consiglieri non soltanto il peso di non aver saputo far chiarezza sui bisogni del paese, ma anche la responsabilità di aver rifiutato ogni confronto pubblico e politico e di aver sprecato l’occasione di realizzare nella scuola il primo e più importante esempio di riformismo condiviso. L’aver voluto subito abrogare la legge 30 del 2000 preparata e varata dai ministri Berlinguer/De Mauro ha di fatto privato il paese del beneficio di un lavoro di analisi, di ascolto e di proposta che, per quanto criticabile e non alieno da difetti e da incertezze, aveva riacceso la fiducia che con il bipolarismo fosse finalmente finita la lunga crisi di governabilità del paese.

La debolezza di una riforma sbagliata

La riforma Moratti è una riforma inconcludente finita nella risacca di un’iniziativa politica pasticciata. Foriera di molti danni e di scarsi vantaggi. Si è retta sulla ambiguità di voler cambiare la scuola senza aver valutato a fondo come era cambiata la società. Ha sposato una rappresentazione falsa dei bisogni degli insegnanti e degli studenti, proponendo formule inefficaci, fuori tempo massimo. C’è chi ha affermato che la riforma Moratti si è ispirata ad un’inesistente, per l’Italia, prospettiva liberista, mascherata da un inattuale revanscismo gentiliano. Sono formule polemiche, ma rivelatrici di quello che rappresenta il limite principale del tentativo, il tradimento di un’idea condivisa e possibile di scuola da costruirsi su quanto di positivo la recente tradizione nazionale aveva saputo elaborare. Penso, ad esempio, all’aggiornamento condotto sui programmi negli anni Ottanta, alla riscoperta di una nuova funzione democratica per la scuola elaborata nella Conferenza nazionale del 1990, al rilancio del raccordo tra scuola ed università, alle speranze suscitate dal processo di autonomia…
La riforma Moratti si è subito voluta come una riforma controtempo, astratta, dove la riproposizione di elementi in linea teorica condivisibili si è rivelata, per il contesto in cui venivano calati, destabilizzante. E’ il caso dell’ insistenza sulla personalizzazione dei piani di studio che nella situazione in cui ci troviamo rischia di svuotare e di tradire quel poco di condivisione e di solidarietà che ancora resta a fondamento dell’idea della classe. Oppure è il caso delle Indicazioni nazionali o degli Obiettivi di apprendimento che sono il frutto dell’ambiguità irrisolta tra il vecchio modello prescrittivo dei programmi e un’idea debole di sussidiarietà e di autonomia scolastica e dunque un ibrido tra parole d’ordine, concetti semilavorati e lunghe tassonomie. L’auspicato obbligo scolastico della seconda lingua straniera è stato realizzato cercando di moltiplicare per miracolo «i pani e i pesci», ritagliando ore e competenze. Il nuovo modello di gestione del personale insegnante, con l’obbligo del completamento dell’orario all’interno del medesimo istituto si è rivelato essere una forzatura i cui effetti benefici sono stati scarsi. La declamata centralità della autovalutazione e della valutazione del sistema si è arenata nell’ennesimo riordino del vecchio Istituto nazionale di valutazione, ormai svuotato di risorse umane e di competenza professionale.  Nessuno in realtà avrebbe potuto fare miracoli e dunque il diritto di criticare deve applicarsi alle responsabilità soggettive, una volta ben individuate. Esse sono comunque evidenti: si è preteso riaffermare la centralità della famiglia senza voler vedere che era la prima a non poter essere caricata di responsabilità che non è più in grado di sostenere; si è preteso mettere a disposizione di una pedagogia umanistica e personalista «minoritaria» la forza e la complessità di un intero sistema scolastico senza capire che si realizzava una contraddizione in termini. Una meditata intenzione «personalistica» avrebbe dovuto suggerire di non perseguire la strada di una ridefinizione a priori delle finalità dell’educare per imboccare invece quella, in apparenza meno gratificante, ma più efficace, di una progressiva liberalizzazione del sistema scolastico che avrebbe potuto consentire di far riemergere dal basso quello spirito di servizio e quel piacere di fare scuola che hanno caratterizzato, sia pure per pochi momenti, la storia educativa nazionale.
Si è creduto di poter porre fine alla lunga ed esangue stagione della pedagogia culturale dominante negli anni Ottanta — per intendersi di stampo brunneriano — per imporre una centralità neoeducativa «forte» che non aveva riscontro nella realtà, trascurando invece di valorizzare al meglio le domande «formative» che una società disorientata rivolgeva ancora alla scuola. In sostanza non si è saputo rispondere alla domanda più ovvia del mondo: dove appoggiarsi per una riforma? Su un’idea, su una diagnosi condivisa, o su interessi politici di parte? Lo scenario cambia a seconda della risposta e solo se si sceglie quella giusta nel momento storico dato si può avere la ragionevole certezza di riassorbire e metabolizzare anche le altre prospettive, perché il successo compiuto di una prima riforma è il miglior viatico per intraprenderne altre magari di maggiore portata.

Il «partito della scuola» grande assente della riforma

Una maggioranza parlamentare enorme, come mai si era vista nella storia repubblicana, non è riuscita a far emergere e a dar voce a quel «partito della scuola» che invocato da molti sia a destra che a sinistra, esiste ma non riesce ad imporsi e che le avrebbe permesso di superare le resistenze e le ignavie del sistema politico e imporre ai governanti di metter mano al portafoglio. Si trattava tuttavia di fare esattamente il contrario di quanto è stato fatto, facendo tesoro degli errori compiuti in questo campo dai governi di centrosinistra, e cioè di lasciare che l’iniziativa riformatrice partisse dal basso, che fosse chiesta e non imposta, così da far emergere una «volontà generale» da indirizzare e interpretare con l’intervento normativo ed amministrativo. Invece si è preferito supplire alla mancanza di mezzi e di forza politica con il decisionismo delle idee e delle norme. L’insistere sulle formule e l’ansia di riformare pesantemente gli ordinamenti anche quando non ce n’era sostanzialmente bisogno — come nel caso della riforma della scuola primaria — ha prevalso su di un autentico intervento liberale. Dove lo si è potuto realizzare, come in molti paesi europei, ultima la Francia, si è sempre praticato, nella società, la strada dell’ascolto e del coinvolgimento degli insegnanti (si veda l’esperienza della Commissione nazionale di consultazione Thélot che in soli otto mesi di lavoro ha ascoltato centinaia di istituzioni scolastiche e decine di migliaia di insegnanti).
In Italia, nella speranza di garantirsi la fiducia di una coorte di eletti, come primo atto politico si è invece frettolosamente attribuita la dirigenza ai presidi ed ai direttori scolastici. Meritavano da tempo il giusto riconoscimento, ma esso sarebbe stato più efficace se si fosse accompagnato ad un processo di riqualificazione dell’intero corpo docente, così da rafforzare l’autostima e le possibilità di quel «terzo» di docenti che purtroppo sono prigionieri di quella maggioranza amorfa dei due terzi che a sua volta è vittima di una lunga stagione di gestione clientelare della scuola. La questione del merito e della qualità dell’insegnamento è stata completamente disattesa. Il depotenziamento dell’esame di maturità è forse il più grave autogol dell’attuale maggioranza. Un autogol perché è culturalmente antitetico alle stesse premesse ideologiche e culturali della destra. Berlinguer aveva reso l’esame più completo e più significativo e invece, per pochi risparmi, gli attuali responsabili hanno compiuto un obbrobrio. Tanto valeva abolirlo ed è strano che i consiglieri della Moratti si siano dimenticati di quanto avevano sostenuto Croce Gentile o Sturzo che si erano strenuamente battuti per l’introduzione e la serietà dell’esame di stato. L’agognato decreto attuativo dell’art. 5 della legge 53, sulla formazione degli insegnanti non vede attuazione concreta e ancora non si sa che fine faranno le Scuole di specializzazione e i corsi di laurea in Scienze della formazione primaria. Per poter dire di averla varata, si tenta infine di consegnare la riforma dei licei, diventati otto, a quella sperimentazione che nei programmi della Moratti, dopo venticinque anni in cui ha salvato la scuola superiore italiana, doveva essere chiusa e riassorbita nel disegno luminoso di una nuova scuola. Le Regioni hanno detto chiaro e tondo che non se ne parla prima del 2007.

Contro la discontinuità degli ambiti formativi

Lo studio delle riforme legislative, soprattutto di quelle che non hanno successo, è in effetti molto istruttivo per coloro che ambiscono a definire il rapporto tra intenzione politica e responsabilità di governo. Le riforme complesse, come le grandi battaglie della storia, si misurano anche sulla base della strategia che ne accompagna il sorgere e ne sostiene il cammino. Non c’è dubbio, purtroppo, che la riforma Moratti non ha brillato per intelligenza, nel merito e nel metodo. E ciò pone non pochi interrogativi sulla consistenza di un autentico pensiero riformatore nel nostro paese. Essa è stata frettolosa non soltanto nei modi, come si sarebbe potuto concedere a maggioranze incerte, ma, quel che è ben più grave, nei concetti. Non è riuscita a liberarsi dal ricatto di molti luoghi comuni, anche di quelli ereditati dal governo precedente, primo fra tutti quello che l’occupabilità sia davvero l’unica frontiera della scuola, restando prigioniera di una retorica tanto diffusa quanto di ceto.
L’insistenza, ad esempio, sulla costruzione di un secondo canale di formazione, orientato alla professionalità diffusa tra i giovani e per il lavoro, è stata presentata come la realizzazione di qualche cosa di cui si sentiva la necessità da decenni, senza chiedersi se quanto si scriveva e si diceva alla fine degli anni Settanta, al momento della prima legge organica sulla formazione professionale, fosse ancora valido. Riproporla di nuovo, senza ripensamenti nelle fonti ed anzi inserendola in un meccanismo di autoesclusione reciproca tra formazione liceale e formazione professionale fondato su un disallineamento della terminalità e dei curricula, è stato un grave errore. Recenti dati lo confermano: per l’anno in corso si assiste ad un forte aumento delle iscrizioni ai licei, in particolare al liceo scientifico, e ad una diminuzione di iscritti negli istituti tecnici e professionali. Semmai andava accompagnata da un’attenta diagnosi delle pratiche virtuose ma anche di quelle perverse del mercato del lavoro, in modo da non svendere la buona idea per una cattiva moneta, come è di fatto il proliferare del cosiddetto terzo canale, breve o brevissimo, che è la negazione di ogni premessa emancipatrice del lavoro giovanile. Nell’impostazione della riforma Moratti c’era il vizio di credere che la formazione professionale potesse essere costruita per semplice differenza dal modello liceale senza capire che per emanciparsi avrebbe dovuto essere sostenuta dall’alto, attraverso la parallela creazione di un sistema di formazione superiore non universitaria che facesse da traino al secondo canale, nobilitandolo e garantendo una piena verticalità di apprendimento tra i 14 e i 21 anni. Solo in questo modo si sarebbero potute gettare le basi di un modello nuovo di scuole per il XXI secolo entro il quale superare la discontinuità tra formazione secondaria e formazione professionale superiore, tra scuola e università, che è la vera sfida a livello europeo.
Sono passati trentasei anni dalla liberalizzazione degli accessi all’università, ma ancora l’estrazione sociale dei giovani che frequentano i licei è più alta di quella degli altri studenti: l’asimmetria nelle terminalità tra primo e secondo canale formativo non farebbe altro che peggiorare la situazione e rendere di fatto, malgrado la previsione di frequentare anni integrativi, ancora più rigida la selezione. D’altra parte, l’alternativa tra percorso quinquennale rigido e percorso quadriennale flessibile è stata una caratteristica non felice di tutta la storia scolastica italiana fin dai primi decenni dell’unificazione, che ha visto un continuo passaggio di competenze e prerogative tra i ministeri della scuola e i ministeri produttivi sui diversi tipi di scuole tecniche e professionali con il risultato positivo, al momento della prima industrializzazione, di favorire la nascita e lo sviluppo parallelo di tutta una serie di efficaci iniziative e istituzioni scolastiche private e libere, ma negativo, nei decenni più recenti, di conservare all’istruzione professionale un carattere di precarietà. Invece di insistere su di un modello instabile di riorganizzazione del sistema scolastico, sarebbe stato utile dedicare molta più attenzione alle persona già formate, magari male. Nella nostra società il peso degli apprendimenti informali e non formali diventa sempre più grande e sempre di più questi assumono un ruolo prioritario rispetto alla formazione in aula finalizzata ad un titolo. Si tratta dunque di prendere atto che nella società attuale, governata da tecnologie nuove e potenti, costruita intorno a banche dati e a procedure che cambiamo repentinamente, l’apprendimento di base assume il ruolo del metodo che viene trasmesso dalla cultura pregressa, ma non può più assumere la funzione di una formazione definitiva e stabile.

Non accontentarsi delle buone intenzioni

Non è facile prevedere quale sarà lo scenario prossimo per la scuola italiana. Da molte parti si invoca la necessità di non ricadere ancora una volta nelle tentazioni demiurgiche e nelle vendette ideologiche sulla pelle dei giovani e degli insegnanti. I lavori preparatori per il programma dell’Unione di centrosinistra hanno dimostrato una encomiabile volontà di non dividersi, una matura consapevolezza di quanto sia importante non commettere gli errori già compiuti, ma anche una sostanziale difficoltà nell’individuare idee nuove per reimpostare la formazione degli italiani. E la coalizione è ancora più ampia e frammentata di quella del 1996.
Nelle premesse della bozza di programma dell’Unione per la scuola leggiamo molte buone intenzioni: «La nostra intera politica deve partire non solo dalla rimozione delle politiche sciagurate del centro destra ma soprattutto dalla consapevolezza che i costi del sapere sono incomparabili con i costi che l’ignoranza fa pesare sul Paese, sul sistema di Welfare delle città, sulle politiche del lavoro, sulle politiche industriali. Investire in sapere conta rispetto alla qualità della vita di ognuno di noi ben più che ridurre le tasse in maniera indiscriminata: anzi gli investimenti in sapere delle persone e delle imprese possono essere il fondamentale punto di riferimento per una politica di detrazioni fiscali finalizzate all’innovazione e alla sostenibilità sociale. Le parole che scegliamo sono tre: saperi, tecnologie, riflessività. Per renderle concrete e per esser credibili occorre indicare con precisione gli obiettivi, gli investimenti, le cadenze temporali delle realizzazioni».
Più concretamente i punti su cui i rappresentanti dei partiti e delle associazioni che partecipano all’elaborazione del programma dell’Unione cercheranno di convergere sono i seguenti:
a)  Un forte potenziamento dell’offerta educativa per gli anni 0-6, progettata in un’ottica di continuità, pur nel rispetto della specificità del nido e della scuola dell’infanzia;
b)  La generalizzazione della scuola d’infanzia per tutti i bambini e le bambine dai 3 ai 6 anni, con abolizione della norma sugli anticipi per le iscrizioni alla scuola dell’infanzia ed elementare;
c)  Il mantenimento dell’articolazione del primo ciclo in scuola elementare e media, di durata di otto anni, potenziando gli elementi di continuità didattica e di percorso per valorizzare i ritmi di apprendimento e di crescita di ragazze e ragazzi, particolarmente diversificati in questa età;
d)  La valorizzazione del tempo pieno e del tempo prolungato, ripristinandone la normativa nazionale, da realizzare come modelli didattici, con il riconoscimento della pari valenza educativa di tutte le attività previste;
e)  L’elevamento dell’obbligo di istruzione gratuita fino a 16 anni, al primo biennio della scuola superiore e l’innalzamento dell’età minima per l’accesso al lavoro dai 15 ai 16 anni;
f)  L’obbligo formativo dai 16 fino ai 18 anni, anche attraverso un sistema nazionale di qualifiche professionali e di dispositivi condivisi di certificazione e di riconoscimento dei crediti;
g)  Il rafforzamento dell’ esame di stato, per il quale devono essere reintrodotte commissioni a prevalente composizione esterna;
h)  L’unitarietà del sistema scolastico, inclusa l’istruzione professionale e con tutti i percorsi della secondaria superiore che devono avere durata quinquennale;
i)  La ristrutturazione della formazione professionale sulla base delle intese con le regioni e le associazioni di categoria e le associazioni sindacali.
Non tutto è coerente e molto appare sulla carta più semplice di quanto in realtà sia. All’Unione va chiesto di fare chiarezza sul modo di valorizzare e sussidiare l’autonomia dei singoli istituti o di loro reti. Va chiesto di non nascondersi dietro false coscienze: l’età tra i 14 e i 16 anni è, ad esempio, la meno sensibile ad una scolarizzazione forzata. Va chiesto di indicare dove recuperare risorse finanziarie. Va chiesto di affrontare alla luce del sole il problema delle scuole paritarie, all’occorrenza adottando il modello francese per il loro finanziamento e dunque prevedendo anche una mirata riforma della Costituzione per modificare l’inciso del «senza oneri per lo Stato». Va chiesto di riprendere in mano il dossier della valutazione premiale degli insegnanti. Va chiesto di alzare la dignità di una professione e di un servizio pubblico. Va chiesto di prendersi cura della società italiana in formazione abbandonando velleità risorgimentali e dirigistiche. Va chiesto di diffondere formazione anziché di ricentralizzarla. Va chiesto di dare fiducia alle imprese, soprattutto quelle piccole e medie. Va, insomma, chiesto di avere l’intelligenza di non rimanere prigioniera dell’ansia di abrogare e di rifondare: se giungerà al governo, quello che dovrà essere corretto andrà fatto con decisione e senza indugio, ma sarà poca cosa al cospetto di quello che potrà essere costruito con quel «buon senso» che non è l’emblema di una terza posizione politica, strumentale e un poco ipocrita, ma la qualità che già Descartes riteneva, non senza un pizzico di ironia, fosse la più diffusa tra gli uomini. Ovviamente di buona volontà, capaci di intendere e di volere.