Appunti 6_2005
Dalle primarie al partito democratico
| Franco Monaco |
Il risultato imprevisto delle primarie per il candidato a guidare il governo dell’Unione ha aperto nuovi scenari politici. E’ emersa una inaspettata domanda di partecipazione e si è rivelato un processo di fusione delle idee e delle prospettive degli elettori, più forte di quello dei politici. Questa vicenda ha smosso qualcosa di significativo nei partiti stessi, portando ad annunciare scelte che fino a poche settimane prima erano state escluse. E ad aprire nell’agenda politica la questione dello sbocco finale dell’esperienza dell’Ulivo in una nuova forza politica: un partito democratico? Un partito riformista? Il dibattito è già vivace — ma anche per molti aspetti insoddisfacente — e sulla nostra rivista vorremmo cercare di affrontarlo senza reticenze, portando un contributo forte al chiarimento delle prospettive: questo articolo apre quindi un confronto che continuerà.
Sono trascorsi tre mesi dalle primarie dell’Unione e talvolta si ha l’impressione che esse siano state metabolizzate ed archiviate senza che ne sia stata raccolta la lezione. Con i partiti che, complice la nuova legge elettorale, sono già tornati alle pratiche abituali, alla loro pigrizia e ai loro egoismi. Merita invece riprendere e tematizzare il senso di un evento oggettivamente straordinario, che ha trasceso ogni previsione ed attesa. Cogliendo di sorpresa persino i più convinti sostenitori delle primarie stesse. Rammento l’originario scetticismo di pur perspicaci analisti (due di essi, Diamanti e De Rita, hanno fatto pubblica autocritica al riguardo); così pure le resistenze prima aperte poi sorde dei Ds, preoccupati della competizione sul loro fronte di sinistra ingaggiata dal candidato Bertinotti; ancora, ricordo l’apprensione della vigilia negli stessi ambienti prodiani.
Come è noto, Prodi, che le aveva proposte e volute, dopo la limpida e netta vittoria delle elezioni regionali a lui personalmente intestata, si era detto disponibile a rinunciarvi. Sembrava non ve ne fosse più bisogno. Sennonché, dopo lo stop all’Ulivo, da parte di Margherita, che suonava di fatto come un colpo inferto a quello che rappresenta da sempre il progetto politico di Prodi, egli tornò a pretenderle, per legittimare e rafforzare la sua leadership democratica. Opposta, come modello, a quella autocratica di Berlusconi che, le primarie, le ha rifuggite come la peste. Una leadership democratica, quella dell’Unione, e tuttavia autorevole e riconosciuta, un fattore di unità e di forza essenziale a una democrazia governante. Tanto più necessaria per conferire un profilo più unitario a un campo frammentato come quello del centrosinistra italiano. A detta di Arturo Parisi, ideatore e propugnatore delle primarie, esse, concepite quale strumento atto a produrre un avanzamento del bipolarismo, della democrazia governante e dell’alternanza, che dà ai cittadini più potere nella scelta degli esecutivi (anche nazionali, come è già a regime per i governi regionali e locali), oggi, dopo l’introduzione della nuova legge elettorale che ci risospinge indietro al tempo della frammentazione della rappresentanza parlamentare e dell’instabilità dei governi, dell’allentamento del vincolo di coalizione e delle «mani libere» per il ricatto di partiti e partitini, oggi, dicevo, le primarie, ideate per andare avanti verso una democrazia più matura e funzionale, hanno assunto semmai il significato di un argine, di uno strumento di contrasto, nelle mani degli elettori dell’Unione, a una regressione patologica verso il tempo e le pratiche di una democrazia ipotecata da partitocrazia, consociativismo, trasformismo. Cioè alla deriva verso un’Italia che non può tenere il passo dell’Europa.
Le lezioni delle primarie
Dopo la Puglia, contestualmente a Trieste e prima della Sicilia e di Milano (in Calabria si sono fatte primarie di secondo grado, convocando un’assemblea di eletti e quadri di partito), questo è stato il primo esperimento di primarie dell’Unione aperte ai cittadini-elettori su base nazionale. E’ la prima volta, cioè, che gli elettori sono chiamati a concorrere a definire non solo la domanda politica ma appunto l’offerta-proposta, cioè il leader-candidato premier e le sue priorità programmatiche. Ciascun candidato, infatti, aveva predisposto le sue e, appunto su nome e priorità programmatiche, si sono espressi i cittadini. Merita fissare i tre livelli: la Carta dei principi, denominata «progetto per l’Italia», sottoscritta da tutti i leader dei partiti dell’Unione, che fissava la cornice ideale in cui tutti si riconoscono; le priorità programmatiche che ciascun candidato accompagnava al proprio nome; il programma definitivo, in corso di elaborazione ora e che sarà varato tra gennaio e febbraio prossimi, sull’asse delle priorità e sotto la responsabilità di chi le primarie le ha vinte, cioè Prodi. Tenendo conto, certo, anche delle istanze degli altri candidati sconfitti, ma se e in quanto compatibili con le sue. Altrimenti, perché mai si sarebbero fatte?
Il risultato delle primarie è stato inatteso e travolgente. Sia sotto il profilo della partecipazione, sia per la misura del successo di Prodi. Schematicamente, possiamo isolare tre messaggi, tre domande, tre lezioni.
Innanzitutto, una domanda di partecipazione di cui non sospettavamo la misura (il che testimonia la distanza dal sentire dei cittadini di noi politici e osservatori). Una domanda di partecipazione straordinaria per estensione e intensità. Per estensione: una partecipazione doppia rispetto a quella che di norma si registra alle primarie dei due grandi partiti USA e dodici volte superiore ai 350.000 iscritti ai partiti dell’Unione (su un totale di 970.000, i dati sono dell’Istituto Cattaneo) che si attivano per partecipare ai loro congressi, cioè in corrispondenza del punto più alto della loro mobilitazione. Ma anche per intensità, per spessore delle motivazioni, per spontaneità-gratuità nella partecipazione: mettendoci la faccia, facendosi la fila, versando in media cinque euro (ne era richiesto uno solo), firmando l’adesione alla Carta dei principi dell’Unione. Perché non notare che, ai congressi di partito, la partecipazione è decisamente meno spontanea, ci si va sospinti da gruppi e correnti?
La seconda lezione: una domanda di unità. La metafora di quelle file ordinate e «meticce» suggerisce l’idea che i cittadini-elettori dell’Unione sono palesemente più unitari di quanto non lo siano i gruppi dirigenti dei partiti. Sembra cioè confermato il sospetto che sono piuttosto i partiti che proiettano le loro divisioni su un popolo, il popolo delle primarie, visibilmente più unito. Magari invocando gloriose tradizioni e identità, di fatto per non rinunciare a più prosaiche rendite di posizione. Gad Lerner lo ha osservato con onesta brutalità: posti di governo, candidature al parlamento, finanziamenti ai partiti (anche solo dell’1%) e ai giornali di partito, nomine…
La terza domanda: di governo nitidamente alternativo alla Cdl e a Berlusconi. Il voto plebiscitario a Prodi dice entrambe le cose:
a) sì a una proposta di governo, a un baricentro riformista, che coniuga i «voglio» dei post-it di Bertinotti con i «posso», le condizioni di fattibilità di sogni ed ideali, di cui si nutre un’etica della responsabilità che non si contenta dell’etica dell’intenzione. Diciamo la verità: quella di Prodi era la sola candidatura coerente con lo spirito delle primarie, cioè ispirata a una compiuta proposta di governo e non riconducibile all’esigenza di misurare, in un’ottica parziale e di mera rappresentanza, il proprio personale consenso, auspicabilmente più esteso di quello raccolto dal proprio partito (è il caso di Bertinotti, Mastella, Pecoraro Scanio, Di Pietro). Sotto questo profilo, il flop di tali candidature è l’ennesima, confortante testimonianza della maturità politica degli elettori dell’Unione;
b) una domanda di governo sì, ma radicalmente alternativo, sotto il profilo politico e morale. Perché questo è stato ed è il segno della proposta di Prodi. Un’alternativa alla Cdl, non una semplice alternanza/avvicendamento di gruppi dirigenti. E non «centrista», che si contenti cioè di fare meglio le cose che Berlusconi non ha fatto, nel segno di una contiguità di confine al centrodestra. Che pure è posizione che periodicamente affiora tra i centristi dell’Unione.
In sintesi, le primarie hanno conferito all’Unione un grande vantaggio competitivo rispetto alla Cdl e attribuiscono ai suoi leader una smisurata responsabilità: dall’altra parte, cioè nel centrodestra, non c’è neppure l’ombra di una risorsa paragonabile, di un pari giacimento di ideali e di motivazioni atti a mobilitare energie di tali dimensioni. Non raccoglierle, non corrispondervi, non elaborarle sarebbe un delitto. Spetta a Prodi e ai partiti dell’Unione fare tesoro di essi. Dalle primarie non è venuta una delegittimazione dei partiti, una spinta populista. Ma, questo sì, una sollecitazione a riformare i partiti e il sistema politico, nella direzione di quelle tre domande: di partecipazione, di unità, di governo limpidamente riformatore e di centrosinistra. Non contro i partiti, ma per partiti nuovi e, perché no, meno pletoricamente numerosi (ora sono dieci quelli dell’Unione, ma promettono di essere di più grazie alla sciagurata, nuova legge elettorale!).
Lo scongelamento dell’Ulivo
Non sorprende che, ventiquattrore dopo le primarie, Margherita che, con una miope e lacerante decisione a maggioranza, nel maggio scorso aveva congelato l’Ulivo (non solo la lista, ma il progetto), abbia riconsiderato la sua decisione. Grazie al pungolo interno della minoranza ulivista decisa a dare battaglia sino al limite della rottura, ma soprattutto grazie alla spinta travolgente delle primarie. Che hanno dato forza a Prodi e dunque al progetto, l’Ulivo, che egli era stato costretto, suo malgrado, ad accantonare. A produrre tale ripensamento ha concorso la prospettiva incombente della nuova legge elettorale, che, intenzionalmente, incoraggia la divisione e la frammentazione anche dentro i due schieramenti. Non a caso una legge elettorale fortissimamente voluta da Casini per smarcarsi da un Berlusconi giudicato perdente. A fronte di questa novità dura, sistemica, della cui portata noi stessi non abbiamo ancora acquisito compiuta consapevolezza, DS e Margherita si sono trovati ad un bivio: o cedere anch’essi a una logica di aspra competizione intestina, mortale per l’Ulivo e per l’Unione o, alla rovescia, dare alla sfida divisiva della regola elettorale una risposta squisitamente politica di segno contrario, cioè ispirata alle ragioni superiori dell’unità strategica. Dunque, riaprendo la prospettiva dell’Ulivo. Così è stato. Margherita, dunque, ha rovesciato il suo no alla lista unitaria alla Camera con un voto unanime, un po’ sorprendete se si considera che solo cinque mesi prima aveva deliberato il no a larga maggioranza (i 4/5). A ben riflettere, non solo invertendo il segno della decisione ma soprattutto le sue motivazioni: e cioè la teoria secondo la quale, a maggio, ci si orientò su liste distinte di partito perché, ai fini della complessiva raccolta del consenso, un’autonoma lista di Margherita — questo l’assunto — avrebbe più agevolmente intercettato voti in uscita dalla Cdl. Questo assunto, a ben vedere, varrebbe a maggior ragione con la nuova legge elettorale che incoraggia la differenziazione dell’offerta. Ma tant’è. Ci si è ripensato ed è bene che sia così. Non solo, ma addirittura, quasi a compensazione della brusca frenata sull’Ulivo, ci si è buttati avanti con l’evocazione del Partito democratico. Troppo, troppo precipitosamente, con decisione verticistica e ratifica unanimistica, per non suggerire una pausa di riflessione e per accertarsi che una scommessa di tale portata sia sostenuta da adeguata consapevolezza, convinzione, determinazione, volontà politica condivisa. Sono bastati pochi giorni perché affiorassero ambiguità e problemi. Ne segnalo alcuni: nei DS, la cui ostentata tensione unitaria si giovava delle resistenze di Margherita, a fronte della tematizzazione del Partito democratico, si manifestavano diffuse resistenze trasversali a tutte le componenti sino alla bizzarra costituzione di un sedicente «club socialista» (ma socialista non è, da quindici anni, la divisa di tutto il partito?), più che altro impegnato a osteggiare il Partito democratico; il caso Sicilia, che ha visto divisi Ds e Margherita e che, smaltita la retorica delle primarie, le derubricava a eccezione anziché a regola, cui fare riscorso solo quando Ds e Margherita non trovano l’intesa ovvero per ratificare il loro accordo a due (tesi Franceschini); la disputa sulle risorse da assegnare non alla persona di Prodi ma all’Ulivo come soggetto in certo modo distinto e non riconducibile a un rigido patto a due tra partner, rigorosamente distinti, Ds e Margherita (questa della gestione delle risorse è la cartina di tornasole più eloquente della reale disponibilità dei partiti a investire politicamente sull’Ulivo); infine, l’inspiegabile soluzione diversa per il Senato, ove concorrerebbero le distinte liste di partito di Ds e Margherita e le resistenze di entrambi (si vedano i rispettivi deliberati, ove figurano confusissime formule) ad impegnarsi a dare vita a gruppi parlamentari unitari, del cui supporto avrà bisogno un eventuale governo Prodi per fronteggiare problemi giganteschi e spinte particolaristiche di partito.
Verso il Partito democratico
Pur considerando limiti e ambiguità, va salutata con soddisfazione la tematizzazione del Partito democratico. Un approdo decisivo per dare compimento alla lunga transizione politica, per stabilizzare il bipolarismo italiano, per dare finalmente anche all’ Italia un grande partito di centrosinistra, come si conviene a tutte le democrazie mature che si reggono appunto su grandi partiti (da noi il più grande o più esattamente il meno piccolo si attesta sul 20%). Sul Partito democratico, mi limito a sei semplici rilievi assolutamente preliminari:
a) il Partito democratico non può sortire da alchimie tra vertici di partito, tantomeno può risolversi in un patto esclusivo ed escludente tra DS e Margherita. Esso non può che prendere le mosse dal popolo delle primarie, che ne rappresenta la virtuale base associativa. Giuliano Amato e Arturo Parisi, in un intervento su «La Repubblica» di qualche giorno successivo all’evento, si sono spinti a sostenere che quei 4.300.000 elettori sono, in nuce, gli iscritti a una sorta di partito unitario del centrosinistra che, per dimensioni, non ha eguali in Europa. Ed effettivamente, a ben guardare, essi si sono mobilitati come cittadini che si riconoscono nella casa politica comune dell’Unione e nel suo «progetto per l’Italia». Oltre gli attuali partiti e trasversalmente ad essi;
b) finalmente, si parla di «partito» senza più timidezze e ambiguità lessicali (soggetto, federazione). Se le parole hanno un senso, se ne ricava che ci si impegna a procedere oltre gli attuali partiti, che si concepiscono come a termine. Certo, per far vivere (e non estinguere) il loro patrimonio entro il Partito democratico;
c) non ci si contenta più di accedere a un processo il cui esito sarebbe affidato ad altri o ad accadimenti esterni, ma come un obiettivo, una meta da perseguire programmaticamente e che, sin d’ora, orienta e guida la nostra azione;
d) i tempi non saranno brevi, ma deve trattarsi di tempi politici, non biblici. Il Partito democratico non è più proiettato in un futuro remoto e indefinito. Ci si è sbilanciati, forse ottimisticamente, con riferimento al tempo della prossima legislatura;
e) si devono rigettare due tentazioni: quella Ds dell’annessione in chiave egemonica e quella velleitaria di una Margherita che si rappresenti come il nuovo opposto al vecchio (Ds), per cui … il Partito democratico sono io, contando sulla circostanza che già in Europa Margherita ha concorso a costituire un partito così denominato ma, in vero, dal profilo più centrista che non di centrosinistra. Due parole devono dunque connotare il futuro Partito democratico: «nuovo» e «insieme». «Nuovo» in quanto altro e diverso da quelli oggi esistenti e da costruire «insieme» tra pari, in dignità e in protagonismo;
f) Rutelli ha isolato tre questioni che, nell’intensificare la cooperazione con i Ds, fanno problema e che è bene ed è giusto mettere a tema, non esorcizzare: la ricerca di un nuovo e comune riferimento europeo; una cultura e una forma politico-organizzativa del partito che assicuri il principio dell’autonomia della politica dai gruppi economico-finanziari; la bussola di una laicità non laicista né clericale e il reale pluralismo delle culture in seno al partito. Tutte signore questioni che è giusto porre, ma nel segno della reciprocità: sia nel senso che, su quei tre fronti, tutti devono rimettersi in discussione, sia nel senso della disponibilità ad aprire altri dossier sui quali, magari, è la Margherita piuttosto che i Ds ad avere più problemi. Penso, per esempio, a sue tentazioni centriste, a derive confessionali, a subalternità a settori dell’establishment, a slittamenti verso il partito personale. Dunque problemi serissimi, ma appunto problemi sui quali aprire un serrato confronto col proposito di risolverli insieme. Problemi e non pregiudiziali ostative da enfatizzare.
Insomma tutti devono essere pronti a mettersi in discussione.
Due osservazioni per chiudere sul Partito democratico. La prima: non ci si deve impressionare per limiti, opposizioni, ritardi, se solo si considera la portata della sfida. Quasi un’utopia in senso buono. Cioè una scommessa alta al limite dell’impossibile. E’ bene esserne consapevoli anche per non scoraggiarsi a fronte delle difficoltà. Non a caso si fa spesso il paragone con il processo di costruzione europea. Strappare potere e sovranità ai partiti è come strapparli agli Stati nazionali a beneficio dell’Unione europea. Si deve accedere, qui sì, a un metodo processuale che, sia chiaro, si nutre di realismo ma anche di visione, di coraggio, di determinazione. E, perché no, anche di avanguardie un po’ testarde. Seconda osservazione: proprio perché il traguardo non è facile e non è dietro l’angolo e le false partenze sono già state molte e hanno generato disincanto e frustrazione, è bene fare tutti ma anche solo i passi di cui si è convinti. Meglio un passo in meno, ma fatto con consapevolezza e convinzione. L’importante è non dissimulare un convincimento che non c’è, non farsi trascinare dagli eventi. E’ bene che i dissensi vengano a galla perché comunque i problemi irrisolti, le riserve sottaciute, le ambiguità sotto traccia, prima o poi, inesorabilmente, te le ritrovi davanti.
La spirale clericalismo-laicismo
I cinque mesi trascorsi tra il congelamento dell’Ulivo non sono stati senza prezzo. Non solo si è messa in moto una insana dinamica competitiva tra DS e Margherita che la ripresa della lista unitaria alla Camera non è bastata a placare. L’impressione è che siano ora i Ds i più determinati a presentarsi con liste di partito al Senato, muovendo dalla convinzione/ambizione (competition is competition) di mettere così a verbale un differenziale che ne sancisca l’egemonia. Ma soprattutto quella miope decisione ha letteralmente ferito a morte lo Sdi, cioè il partito che, più di ogni altro, aveva scommesso sull’Ulivo di Prodi, nella versione del partito riformista. Senza più la lista dell’Ulivo e comprensibilmente preoccupato per la soglia elettorale (allora fissata al 4%), lo Sdi è stato costretto a operare una repentina riconversione della sua prospettiva strategica nella plausibile direzione dell’unità socialista con il «nuovo PSI» e di una formazione radical-socialista, un tuffo all’indietro nelle sue remote radici libertarie e laiciste. Il partito in gestazione della Rosa nel pugno ha fatto del laicismo una sua bandiera, sino al punto di porre la questione di una riconsiderazione del Concordato. In sessant’anni, mai la questione era stata posta in termini unilaterali e polemici. Tra gli anni settanta e ottanta, sino all’accordo di revisione del Concordato siglato nel 1984 da Craxi e Casaroli, era stata posta in termini cooperativi e negoziali.
Non è un piccolo problema per l’asse culturale e politico dell’Unione, per la pace religiosa nel nostro paese, cioè per uno dei capisaldi dell’unità morale di una comunità che, con Berlusconi, ha già conosciuto troppi strappi e lacerazioni che l’hanno sfibrata, e un vulnus per lo stesso Ulivo, al quale — temo — la formazione radical-socialista sottrarrà non pochi consensi. Il laicismo militante oggi rischia di attecchire, di premiare chi lo cavalca. A dare fiato ad esso ha concorso un esorbitante attivismo politico della Cei. Per la sua storia religiosa e civile, a partire dalla «questione romana», il nostro paese è stato segnato dalla spirale perversa della coppia laicismo-clericalismo che si alimentano a vicenda. L’Ulivo, entro il quale lo Sdi non aveva mai ceduto a tali impulsi laicisti, fu ideato anche per questo: venire a capo dello storico contenzioso tra laici e cattolici, all’insegna di quell’equilibrio, quella mediazione alta, quella sintesi avanzata che va sotto il nome di laicità e che si discosta dagli opposti estremi del laicismo e del clericalismo. Una sintesi di cui Prodi, «cattolico adulto» (è un inquietante segno dei tempi che un’espressione conciliare ineccepibile, che ha sempre designato un abito virtuoso, gli sia imputata a colpa), è interprete e garante. Si spiega, dunque, che il congelamento pur temporaneo dell’Ulivo abbia contribuito a riaprire vecchie ferite nel rapporto tra laici e cattolici. E’ l’ennesima testimonianza della miopia di chi non aveva considerato gli effetti sistemici del no all’Ulivo. E anche della tentazione, che a tratti fa breccia tra le nostre fila, di fare da zelante terminale politico della Cei dentro l’Unione, come in occasione del referendum sulla procreazione assistita. Tutte circostanze che spiegano ma certo non giustificano la campagna condotta dai radical-socialisti in nome di un laicismo corrosivo e militante di cui il paese (e l’Unione) non ha certo bisogno e che palesemente risponde ad anguste ragioni di marketing elettorale.

