Appunti 3_2005

Agire politicamente da cattolici e democratici

Lino Prenna

L’ultima assemblea di Agire politicamente, «Rigenerare la democrazia», è diventata l’occasione per riflettere ancora una volta sul ruolo dei cattolici democratici nella società politica odierna. Ne sono emerse riflessioni sull’originalità di una tradizione culturale (la mediazione virtuosa), e sulla attualità di questa eredità, in un contesto di facili schematizzazioni e di una preoccupante verticalizzazione del potere.


La «questione democratica» come «questione cattolica»

Il tema di questa assemblea, «Cattolici e democrazia: un progetto di società», appare evidentemente legato alla tematica sviluppata dalla 44ª Settimana sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Bologna nella prima metà dell’ottobre scorso, alla quale noi abbiamo partecipato anche attraverso un documento elaborato nel seminario estivo di formazione2. Ma già da alcuni anni abbiamo messo nel cantiere della nostra riflessione il tema della democrazia, divenuto incalzante e sempre più urgente proprio mentre ne andiamo registrando la caduta di qualità e siamo consapevoli che, se può dirsi concluso il faticoso processo che ha portato i cattolici a riconciliarsi con la democrazia, a riconoscere la democrazia come sistema di valori e non solo di regole, rimane aperta e suscettibile di risposte diverse la domanda sui contenuti e sulla qualità del sistema democratico.
«Rigenerare la democrazia» è il titolo che abbiamo dato alla terza assemblea congressuale della nostra associazione, tenuta nel marzo di due anni fa, con il sottotitolo «la questione politica dei cattolici». Volevamo dire che la questione democratica è il problema centrale dell’attuale stagione politica e che ai cattolici è richiesto ancora una volta di inserirla tra le priorità della loro agenda politica. Ma dire anche che la nuova questione cattolica non è la difesa o la tutela del proprio perimetro identitario ma l’attitudine, la disponibilità a portare il contributo della propria storia all’opera comune e plurale di rigenerazione del costume democratico. È dunque la questione che poniamo al centro dei lavori di questa assemblea. Ma con una evidenza maggiore del rapporto tra democrazia politica e democrazia sociale, consapevoli che è sotteso all’idea di democrazia un progetto di società. Di qui la duplice sezione tematica: ripensare la politica; ripensare il sociale.


Nell’epoca delle «passioni tristi» il sequestro della politica

Ancora una volta siamo costretti a ricorrere a dei verbi che la grammatica chiama iterativi e che si direbbero ripetitivi: rigenerare la democrazia; ripensare la politica… Ma noi non vogliamo ripetere, se non nell’accezione originaria di ricercare ancora, di rinnovare, di saper accogliere le novità con la prudenza della mente e la speranza del cuore.
Tuttavia, questa difficoltà terminologica, di semantizzazione, questa impotenza lessicale è il segno di una condizione esistenziale e sociale della stagione che attraversiamo, definita in un recente saggio, pubblicato in Italia da Feltrinelli, L’epoca delle passioni tristi3. Non è un libro di politica ma di psicologia sociale. I due autori, due psichiatri, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, preoccupati dalla crescente domanda di aiuto che viene rivolta loro, in particolare dai giovani, mettono a nudo il malessere diffuso, la tristezza che spegne l’élan vital, lo slancio di vita di tutte le fasce sociali. Dunque, secondo la loro analisi, viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le «passioni tristi». Il filosofo dell’Ethica, «more geometrico demonstrata», non voleva intendere la tristezza del pianto e delle lacrime, ma l’impotenza, la disgregazione, la delusione. Il saggio registra il fallimento del messianismo scientifico che ha costruito un’antropologia del dominio sul futuro e segnala il senso pervasivo di impotenza di fronte ad un mondo che ha cessato di sperare e che nel suo stesso sistema organizzativo è divenuto minaccioso: un mondo che propone l’utile come bene, facendo dell’utilitarismo il volto seducente dell’ideologia neoliberista.
E la politica? — ci chiediamo noi — È divenuta anche la politica una «passione triste»? Certamente è ancora in atto un «sequestro», un «esproprio» della politica. Per esempio, una stagione non breve, ha accreditato la politica come amministrazione, per cui i tecnici sono stati chiamati a sostituire i politici. Una versione di questo paradigma dell’azione politica è il «governo degli onesti», come se l’onestà sia qualità specifica del governare e non piuttosto virtù morale richiesta dall’esercizio di qualsiasi attività umana. Oggi la politica è ostaggio dell’economia. Questo sequestro è stato possibile perché si è accreditata l’idea della politica come mercato e del Paese come un’azienda (non si dice, e non solo da parte di Berlusconi, «l’azienda-Paese»?): per cui il miglior politico è l’imprenditore! Forse sono questi e altri i paradigmi dell’agire politico che hanno prodotto nella società una cultura antipolitica: il discredito, l’insofferenza, l’indifferenza della società civile per i luoghi, le persone, le istituzioni della politica.
La divaricazione ha portato ad enfatizzare la società civile e a sostenere una sua presunta superiorità rispetto alla società politica. È vero però che la società è mossa da una dinamica progressiva che la politica insegue affannosamente. Anzi, mentre la società registra un movimento di accelerazione, di periferizzazione, di pluralizzazione, la politica torna a verticalizzare la sua azione, a centralizzarla, accrescendo il suo già vistoso ritardo. Questo ritardo risulta perfino strutturale perché, mentre la società tende ad organizzarsi secondo una geografia orizzontale e policentrica, la prassi politica ripropone un modello verticale e gerarchico, tanto più gerarchizzato quanto meno autorevole. Lo stesso ritorno dei partiti di cui ultimamente si è parlato non ha favorito il ritorno della/alla politica.


La modernità estenuata e la questione degli «ex»

A ben vedere è questo l’esito di una modernità estenuata che ha messo in discussione la modellistica stessa di rappresentazione della realtà. Intendo dire che il tratto più rilevante della modernità scientifica è stato quello di costruire modelli rappresentativi ed interpretativi della realtà, modelli scientifici di classificazione e modelli ideologici di sistemazione totale e perfino totalizzante. La fine della modernità è anche la fine della modellizzazione del mondo, la fine dell’illusione coltivata dalla razionalità scientifica di rappresentare compiutamente il mondo in un sistema unitariamente interpretativo. L’estenuazione della modernità ci ha consegnato una realtà insofferente degli schemi ideologici e non ri(con)ducibile a sistemi classificatori: incompresa perché strutturalmente in-comprensibile. Ora, i paradigmi dell’agire politico e, innanzitutto, i partiti sono fermi alla rigidità perfino sclerotica della rappresentazione della realtà, della quale, appunto, non sono più rappresentativi, attendibilmente interpretativi; e la realtà (la società) a sua volta non si sente rappresentata e non si identifica con essi. Ecco, dunque, l’urgenza di ripensare la politica, di riabilitarla, di riconsegnarla al suo statuto originario o, almeno, all’altezza della nostra ispirazione più che alla forza della nostra aspirazione. Da questo scenario inedito e complesso noi ci sentiamo provocati come cattolici e democratici. Non per ingenua presunzione né per smodata ambizione, riteniamo che il cattolicesimo democratico abbia in sé un potenziale di ascolto, di interpretazione, di progettazione della nuova domanda politica. «Nel cimitero delle ideologie — ha detto Scoppola, qualche anno fa in un incontro all’Istituto Sturzo — non c’è la tomba del cattolicesimo democratico». Voleva dire, credo, che il cattolicesimo democratico non è uno di quei sistemi rigidi di interpretazione della realtà che la modernità ha moltiplicato e, tuttavia, estenuato. Né esso coincide con un partito pur avendone animato alcuni e potendone animare altri. Un libro recente sui cattolici nell’Ulivo esordisce affermando che «siamo tutti post»: «post democristiani, post comunisti, post socialisti, post fascisti»4. Tutti post e, perciò, tutti ex! Per le ragioni accennate prima ritengo che non ci sia un post-cattolicesimo democratico: perciò, noi non ci consideriamo «post» e non siamo «ex»!
Nel 1946 Romano Guardini scriveva di sé: «Personalmente credo di essere realmente un democratico; aggiungo immediatamente: un democratico cattolico che riconosce dei valori assoluti e delle verità oggettive come date»5.
Ecco: vorremmo, ciascuno di noi, fare nostra la timorosa eppur esplicita dichiarazione di Guardini. Innanzitutto, democratici, per indicare la nostra nascita alla terra, alla città degli uomini, nonché la solidale appartenenza alla vicenda umana che nella democrazia si declina secondo uno statuto di regole condivise. E poi, cattolici, per indicare l’appartenenza alla comunità dei credenti in Cristo e la vocazione al Regno, del quale la Chiesa è l’iniziale storica realizzazione. È questa la duplice cittadinanza che abbiamo accettato di esercitare pienamente, non calcando un modulo alternativo o subordinativo, ma complementare, consapevoli della misteriosa compenetrazione di «città terrena e città celeste» che percepiamo nella fede, ma anche esigenti nella distinzione dell’ordine spirituale dall’ordine temporale, dell’assoluto della fede dal relativo della politica.


Una cultura di mediazione

Questi richiami al magistero conciliare legittimano il cattolicesimo democratico come cultura di mediazione, paradigmatica del nostro agire politico. È la cultura che storicamente ha consentito alla Chiesa cattolica di riconciliarsi con la modernità e con la forma politica della modernità che è la democrazia ma è anche la cultura che ha segnalato ad una Chiesa ancora appesantita dalle «spoglie d’Egitto» (Rosmini) un percorso di libertà dello spirito e di spogliazione dell’ingombrante potere temporale. Nel secondo congresso della Lega democratica, tenuto a Rimini, nel settembre 1908, Tommaso Gallarati Scotti esprimeva, nella sua relazione sulla politica ecclesiastica, la convinzione che la logica di sviluppo della società democratica, cioè il processo di democratizzazione della società, non potesse rappresentare un pericolo per il cattolicesimo, ma l’occasione opportuna per riportarlo «verso quella che è la sua sfera d’azione, sfera superiore e intangibile e dalla quale illumina le coscienze e le associa, senza partecipare direttamente alle vicende e ai pericoli della lotta di classe e al fluttuare tempestoso delle maggioranze parlamentari». È enunciato qui il principio di laicità che è lo statuto regolativo della mediazione politica. Una mediazione che ha nella fede il suo fondamento religioso ma che agisce autonomamente nella società attraverso la responsabile coscienza dei credenti.
La cultura della mediazione è alternativa alla cultura della presenza, giacché la prima sostiene l’agire «da cattolici», mentre l’altra legittima l’agire «in quanto cattolici». Il cattolicesimo democratico è minoritario anche perché, oggi, sono in difficoltà le culture della mediazione e tendono a prevalere le culture fortemente identitarie. È questa la chiave che ci permette di leggere gli ultimi capitoli della «questione cattolica», in versione nostrana: dalla reazione al mancato richiamo alle radici cristiane nel Trattato istitutivo della Costituzione europea, alla vicenda Buttiglione, al comitato astensionista «Scienza e Vita», formatosi in vista del referendum sulla procreazione medicalmente assistita, nel quale, peraltro, sono confluite (in un progetto di ricomposizione unitaria dei cattolici?) storie individuali e associative diverse. È un fronte singolare, inedito, che ha importato i canoni di un neoconservatorismo etico, che in Italia si è declinato nelle versioni «teo-con», «teo-lib», quasi a marcare il profilo dottrinale di identità cristiana che lo caratterizza.
Noi non ne facciamo parte, non possiamo farne parte. Ma nello stesso tempo non possiamo nascondere il disagio sofferto per l’insidiosa strumentalizzazione cristiana che vi scorgiamo e ci rammarica che la Chiesa cattolica, a livello della sua gestione ecclesiastica, mentre tende ad assecondare la politica oggi maggioritaria, di fatto è il ritrovato instrumentum regni della politica neoliberista e neoconservatrice. Mi sembra che proprio la Chiesa debba diffidare di un movimento che stempera il carattere soprannaturale del cristianesimo e lo riduce a «religione civile». Questo movimento è la versione aggiornata della cultura della presenza, rivendicativa di una identità frontale, che ha trovato in Comunione e liberazione la più articolata elaborazione. Il presidente del Senato, con altre parole, lo ha riconosciuto quando ha detto che don Giussani, accusato ingiustamente dai «laici modernisti di sinistra» di essere un integralista, in realtà «predicava la tradizione» rispetto a quanti «erano cedevoli e seguivano la dottrina e la pratica religiosa della Chiesa post-conciliare»6.
Per un bene politicamente possibile
In che cosa e per che cosa il cattolicesimo democratico, che si educa alla scuola del Concilio, può mediare o, per usare anche qui un verbo iterativo, rimediare, non nel senso di porre riparo ma di rinnovare la sua attitudine mediatrice? Intanto, tenendo ferma la distinzione tra l’originaria assolutezza della fede e la destinataria relatività della politica, sviluppare la sua azione come ricerca del bene comune e tutela dell’interesse generale. E il bene comune è il bene politicamente possibile, condivisibile da tutti e da ciascuno. Non coincide necessariamente con il bene dei cattolici, anche dove fossero maggioranza. Perciò, è un bene voluto non come difesa dei principi del cattolicesimo e degli interessi della Chiesa ma come disponibilità a mettere principi e interessi a servizio della comunità e di ciascun uomo che la compone.
La cultura della mediazione impegna ad elaborare un progetto politico, che sia il «luogo» di trascrizione dei principi in una strumentazione organizzativa dei mezzi e, perciò, del «potere». Del resto è questo l’oggetto del consenso politico, inevitabilmente differenziato, e non la tavola dei principi, alla quale va un presumibile più largo consenso ideale. Pur educati alla scuola della perfezione dello spirito (o forse proprio per questo), sappiamo che è l’«antiperfettismo» il criterio operativo di una cultura della mediazione. Questo richiamo realistico al limite e alla provvisorietà delle attività umane lo attingo dal pensiero politico di un autore a me caro. «Il perfettismo — scrive Rosmini nella Filosofia della politica — cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione, è un effetto dell’ignoranza». Dunque, è segno di ignoranza politica la pretesa di far coincidere il profilo reale delle cose con il loro profilo ideale, pur adoperandosi perché questo avvenga.
In questa ricerca del bene politicamente possibile e perciò perfettibile, il cattolicesimo democratico deve sviluppare la sua vocazione dialogica, quello che Beppe Tognon ha definito in un recente articolo il «valore di alleanza»7 del quale il cattolicesimo è portatore: alleanza con forze di storia e tradizioni diverse ma per un progetto comune. Non è perciò un’alleanza di credenti in nome della stessa fede. Tuttavia, questa disposizione dialogica è consapevole che nella cattolicità italiana permane una legittima aspirazione all’unità.


Un cattolicesimo democratico unitario?

Nella situazione attuale di schieramento bipolare, Agire politicamente, muovendo dalla convinzione che i progetti delle due coalizioni politiche sono alternativi e, perciò, incompatibili, perché riguardano due visioni diverse della società, della democrazia, dello Stato, ha individuato fin dagli inizi nel progetto dell’Ulivo il potenziale di maggiore espressione del cattolicesimo democratico. Nel nostro documento programmatico approvato dall’ultima assemblea congressuale dell’Associazione, abbiamo scritto che: «mentre consideriamo legittima, dal punto di vista della soggettività della coscienza, e rispettiamo la scelta dei cattolici schierati nella Casa berlusconiana, non la condividiamo dal punto di vista delle responsabilità oggettive. Perciò, riteniamo alternative le due anime del cattolicesimo politico, quella conservatrice, tendenzialmente clerico-moderata, e quella riformista, democratica e autenticamente laica. Allora, si tratta di prendere atto dell’impossibilità e dell’inopportunità di riportare il cattolicesimo politico ad una organizzazione unitaria e, nello stesso tempo, di ritenere possibile e opportuno organizzare in modo unitario le tante espressioni del cattolicesimo democratico, cioè del filone progressista del cattolicesimo politico».
L’Associazione si sta impegnando nella realizzazione di questo progetto, promuovendo occasioni di incontro e di comune elaborazione tra le molteplici associazioni che si richiamano al cattolicesimo democratico. Rientra in questo impegno la formazione di consulte del cattolicesimo democratico a livello locale e, possibilmente, nazionale. «Un cattolicesimo democratico organizzato — scrivevamo ancora — potrebbe rappresentare all’interno dell’Ulivo, soggetto unitario di coalizione (non partito unico), la componente di ispirazione cristiana, accanto alla componente del riformismo laico e a quella della sinistra democratica». Per la sua ispirazione religiosa, per la sua vicenda storica, per le sue idealità politiche, il cattolicesimo democratico costituirebbe nell’Ulivo la «memoria responsabile» di un progetto plurale e di un rinnovato statuto etico dell’agire politico.

1 Relazione svolta all’assemblea nazionale di Agire Politicamente, 4 marzo 2005.
2 «Politicamente», 3, 2004 e sul nostro sito www.cattolicidemocratici.it.
3 M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, tr. it., Feltrinelli, Milano 2004.
4 N. Augias – A. Covotta (a cura di), I cattolici e l’Ulivo, Donzelli, Roma 2004.
5 R. Guardini, Scritti politici, Morcelliana, Brescia 2004.
6  In «La Repubblica», 1 marzo 2005.
7  B. Tognon, Le prospettive dell’Ulivo e le radici dell’Italia politica, in «Appunti di cultura e politica», 2, 2005.