Appunti 3_2005

Nel segno del Concilio: Giovanni Paolo II tra libertà e liberazione

Fulvio De Giorgi

Una prima riflessione ponderata sul lungo pontificato di Giovanni Paolo II, in confronto con le trasformazioni della modernità. Rileggendo i documenti di papa Woytila, l’autore prova a interpretare temi cruciali quali la spinta ecumenica, l’impulso sociale, la laicità e la liberazione, alla luce di un «cristocentrismo umanistico e cosmico» forgiatosi nell’esperienza conciliare.
Il gigantesco funerale di massa, con l’enorme amplificazione mediatica mondiale, di Giovanni Paolo II ha dapprima commosso ma poi ha suscitato sgomento e perfino qualche perplessità. Preghiera o spettacolo? Partecipazione religiosa o curiosità e presenzialismo per l’evento? Qualcuno ha osservato polemicamente: Gesù è morto in altro modo, tra pochi fedeli, abbandonato e disprezzato dai più, tradito da molti dei suoi; qui c’è un trionfo, quasi pagano, per un potente della terra. Qualche altro ha aggiunto con amarezza: piazze piene e chiese vuote.
Non condivido questo pessimismo. Inevitabilmente un pontificato così lungo, con una personalità così forte e carismatica, capace di comunicare con i media, nell’era della comunicazione globale, non poteva non chiudersi con vibrazioni di massa, talvolta, certo, anche superficiali. Ma il senso religioso e storico del funerale è stato altro: il popolo, con una manifestazione così corale di cordoglio, si è impossessato del rito.
Fino all’ultimo, Giovanni Paolo II è stato nel cuore delle masse, specialmente dei poveri e dei semplici: la sua eredità spirituale però è consegnata al Popolo di Dio che non è una massa indistinta. Il giudizio storico sul suo pontificato si potrà valutare quando si vedrà ciò che di esso resterà nelle comunità cristiane, perché alle comunità e non alle masse è affidata la testimonianza del Vangelo. Come ha scritto Paolo VI in un’esortazione apostolica molto amata e citata da Giovanni Paolo II: «La Chiesa fa propria l’angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite “come pecore senza pastore” e ripete spesso la sua parola: “Sento compassione di questa folla”. Ma è anche cosciente che, per l’efficacia della predicazione evangelica, nel cuore delle masse, essa deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri»1.


Con il Concilio da un millennio all’altro

In un primo tentativo di sintesi storica sul pontificato, molti osservatori e studiosi hanno notato che Giovanni Paolo II è stato prudentemente continuista ad intra, nelle questioni interne della Chiesa (morale sessuale, sacramenti ai divorziati, celibato ecclesiastico, sacerdozio femminile, centralismo romano) e invece audacemente rivoluzionario ad extra (giustizia e pace, apertura agli ebrei e dialogo inter-religioso, richiesta di perdono per le colpe della Chiesa). Ci sono, certo, aspetti condivisibili in questa valutazione.
Ma, se inserito in un processo di lungo periodo, il pontificato acquista forse una luce diversa. In una considerazione storica, cioè, occorre avere uno sguardo ampio e articolato, guardando agli sviluppi sulla lunga durata: la storia della Chiesa non è iniziata con Giovanni Paolo II, anche se così sembrerebbe a qualche commentatore d’occasione. Da questo punto di vista, la svolta storica periodizzante nella storia della Chiesa contemporanea è stata il Concilio Vaticano II (naturalmente legato ai due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI): da lì occorre partire. Da lì è partito, fin nella scelta del nome, Giovanni Paolo II, che nella sua prima e programmatica enciclica affermava: «Questa eredità è fortemente radicata nella coscienza della Chiesa in modo del tutto nuovo, non mai prima conosciuto, grazie al Concilio Vaticano II, convocato e inaugurato da Giovanni XXIII e, in seguito, felicemente concluso e con perseveranza attuato da Paolo VI, la cui attività ho potuto io stesso osservare da principio»2. Egli dunque è rimasto fedele al Concilio fino alla fine: come si legge esplicitamente nel suo testamento.
È il Concilio con il suo magistero che ha traghettato la Chiesa dal secondo al terzo millennio cristiano. Come ha efficacemente affermato lo stesso papa nella «Tertio Millennio Adveniente»: «In questa prospettiva si può affermare che il Concilio Vaticano II costituisce un evento provvidenziale, attraverso il quale la Chiesa ha avviato la preparazione prossima al giubileo del secondo millennio. […] In nessun altro concilio si è parlato con altrettanta chiarezza dell’unità dei cristiani, del dialogo con le religioni non cristiane, del significato specifico dell’antica alleanza e di Israele, della dignità della coscienza personale, del principio della libertà religiosa, delle diverse tradizioni culturali all’interno delle quali la Chiesa svolge il proprio mandato missionario, del mezzi di comunicazione sociale. Un’enorme ricchezza di contenuti ed un nuovo tono, prima sconosciuto, nella presentazione conciliare di questi contenuti, costituiscono un annuncio di tempi nuovi»3.


Un pontificato di coerenti sviluppi pastorali e di nascosti semi di dottrina

Visto allora in questa prospettiva storica, avendo ben presente il magistero del Concilio, nonché quello di Giovanni XXIII e di Paolo VI, il pontificato di Giovanni Paolo II acquista forse, come dicevo, una luce diversa. Il papa, infatti, non è stato rivoluzionario ad extra, ma ha sviluppato con coerenza e con originalità creativa ed audace la svolta rivoluzionaria, già attuata sul piano della dottrina, dal Concilio e dai suoi immediati predecessori: si pensi al magistero di pace di Giovanni XXIII (in particolare la «Pacem in terris») e di Paolo VI (il discorso del 1965 all’Onu, con il grido — poi ripetuto da Giovanni Paolo II — «Mai più la guerra!»; ma anche l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace e la creazione della Commissione Justitia et Pax); si pensi alle coraggiose scelte e indicazioni sul piano della giustizia sociale nella «Populorum Progressio» di Paolo VI e alle conclusioni del Sinodo del 1971 sulla giustizia nel mondo; si pensi, ancora, ai grandi viaggi, iniziati da papa Montini (memorabile quello in Terra Santa o tra i poveri dell’India e dell’America Latina); si pensi al dialogo ecumenico, effettivamente aperto dal Concilio e da Paolo VI (come dimenticare l’abbraccio con Atenagora!); si pensi all’apertura, operata dal Concilio, sul piano della dottrina, alle altre religioni (non più viste come opera del diavolo); si pensi, nei documenti del Vaticano II, alla visione umile della Chiesa e al riconoscimento delle sue infedeltà.
Sulla base di questa rivoluzione della dottrina, Giovanni Paolo II ha compiuto scelte pastorali concrete e gesti emblematici e radicali che hanno tradotto quella dottrina in reale vissuto della Chiesa, andando oltre i suoi predecessori: mai Paolo VI (che non apprezzò le critiche di Lercaro alla guerra del Vietnam) avrebbe chiaramente e nettamente condannato gli Stati Uniti per le loro guerre; mai Paolo VI avrebbe accettato di pregare nello stesso luogo accanto ai rappresentanti di altre religioni; mai Paolo VI avrebbe chiesto perdono per le colpe dei cristiani del passato viste come colpe della Chiesa. Certo non sono mancati gli sviluppi sul piano della dottrina (le «strutture di peccato» di cui si parla nella «Sollicitudo Rei Socialis»; l’analisi del problema ecologico), ma in questo ambito la grandezza di Giovanni Paolo II è stata soprattutto quella di attuare con coerenza e con coraggio il patrimonio magisteriale del Concilio e dei suoi predecessori.
Egli poi ha posto, a sua volta, dei semi rivoluzionari di tipo dottrinale in altri ambiti: la teologia del corpo, il legame organico della praxis umana con l’ethos, la distinzione tra concupiscenza ed eros, con una visione creaturale positiva del sesso come valore non abbastanza apprezzato, i rapporti uomo-donna fondati eticamente sul «cuore», cioè nell’interiorità (le catechesi del 1979-1981); la riflessione sulla dignità della donna, sul «genio» femminile, sulla maternità in relazione all’Alleanza («Mulieris dignitatem»); infine un’ecclesiologia sponsale, la visione dei due polmoni della Chiesa, quello Orientale e quello Occidentale (con l’implicita parzializzazione della Chiesa romana, che non è l’intero), la prospettiva delle chiese sorelle e la disponibilità a trovare una forma di esercizio del primato petrino che si apra ad una situazione nuova («Ut unum sint»). Giovanni Paolo II ha insomma inserito nel magistero pontificio semi rivoluzionari, forse rimasti un po’ nascosti, che attendono di maturare al tempo debito.
Vorrei solo sottolineare un punto, di cui pure molto si è discusso in termini critici verso Giovanni Paolo II: il ruolo della donna nella Chiesa. Se si considera la «Christifideles Laici», è chiaro che si pongono esigenze e approcci nuovi e insieme si chiede un cammino che porti, in futuro, a fatti nuovi; viene insomma indicata una strada e tracciato un sentiero: «E come alle origini, così nello sviluppo successivo la Chiesa ha sempre conosciuto, anche se in differenti modi e con accentuazioni diverse, donne che hanno esercitato un ruolo talvolta decisivo e svolto compiti di valore considerevole per la Chiesa stessa. […] È necessario che questa storia sia continuata, anzi che si allarghi e si intensifichi di fronte all’accresciuta e universalizzata consapevolezza della dignità personale della donna e della sua vocazione. […] È del tutto necessario passare dal riconoscimento teorico della presenza attiva e responsabile della donna nella Chiesa alla realizzazione pratica»4.
In sintesi: ciò che appare rivoluzionario è stata in realtà applicazione coraggiosamente coerente di svolte rivoluzionarie precedenti, rimaste fino ad allora nella fase iniziale, la fase di coscienza dottrinale. Era necessario che così fosse: solo quando si forma una profondità di comune «pensiero» ecclesiale, si possono compiere gesti radicali conseguenti. Ed era pure necessario che su altri piani lo sforzo fosse nel senso dell’inserimento di germi rivoluzionari di dottrina da far pazientemente germogliare: sia perché si tratta di ambiti che richiedono una più lenta maturazione sia perché proprio la prudenza su questi aspetti rende possibile l’essere seguiti coralmente nelle scelte e nei gesti radicali degli altri ambiti.


Cristocentrismo umanistico e cosmico

Molto ci sarebbe da dire sulla «forma» dell’insegnamento di papa Wojtyla, in particolare in materia sociale: non un metodo deduttivo, ma nemmeno un metodo induttivo; piuttosto un metodo che, sulla base di icone bibliche, sviluppa considerazioni spirituali-esistenziali, con categorie non tomistiche, ma prevalentemente personalistico-fenomenologiche (Scheler ed Edith Stein), con una empatia soggettiva di tipo romantico. Proprio questo afflato romantico, che gli derivava dall’ambiente polacco della sua formazione, lo portava ad una vibrazione emotiva con il popolo e alla valorizzazione del sentimento nazionale: molto di più di quanto potessero fare coloro che avevano visto gli esiti irrazionalistici di certo romanticismo nei regimi totalitari, così il suo predecessore italiano (Paolo VI) così, probabilmente, il suo successore tedesco (Benedetto XVI). In sintonia con questa modulazione culturale, Giovanni Paolo II si è ricollegato all’agostinismo più che al tomismo: a Pascal più che alla seconda scolastica, a Ricoeur più che a Maritain; ma anche alla mistica carmelitana, alla spiritualità cristiana orientale, ai filosofi del dialogo esistenziale. Ciò tra l’altro ha consentito una ripresa significativa di vie di pensiero lungamente emarginate o perfino ostracizzate nella Chiesa cattolica (Rosmini, Newman, Blondel: cfr. «Fides et Ratio»).
Non si tratta solo di filosofia, ma di un pensiero di grande respiro. Agostino — visto come «il padre comune dell’Europa cristiana» — è valorizzato nella proposta della fede pensata, cioè della fede che è pensare con assenso; nell’idea che il male non è una sostanza ma una privazione di bene; nel recupero attento della cultura pagana; nell’accento posto sulla ineffabilità di Dio, un Dio, peraltro, che è più intimo di quanto vi è nell’uomo di più intimo e più alto di quanto vi è di più alto; nell’indicazione della grandezza e della miseria dell’uomo; nell’ecclesiologia mistica; nella libertà come caposaldo dell’antropologia cristiana; nell’inabitazione dello Spirito Santo per l’azione della grazia; nel riferimento alle Beatitudini e alla Pace: «Se le beatitudini evangeliche costituiscono il clima supernaturale in cui il cristiano deve vivere, i doni dello Spirito santo danno il tocco soprannaturale della grazia che rende possibile quel clima […]. Agli uomini poi che hanno in mano le sorti dei popoli raccomanda di amare soprattutto la pace e di promuoverla non con la lotta ma con i metodi di pace, perché, scrive sapientemente, “è titolo più grande di gloria uccidere la guerra con la parola che gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace, non con la guerra”»5.
Tenuto, dunque, conto di questo complesso sfondo, vorrei indicare la cifra complessiva che, a mio parere, meglio esprime il pontificato di Giovanni Paolo II. Si tratta di un cristocentrismo umanistico e, insieme, cosmico. Umanistico, secondo le indicazioni della prima enciclica: «Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando — come insegna il Concilio — “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. […] Non si tratta dell’uomo “astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto”, “storico”. Si tratta di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. […] Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa»6.
Ma, insieme, cristocentrismo cosmico, sulla base di un riferimento alla Lettera di Paolo ai Romani che ricorre spessissimo negli interventi di Giovanni Paolo II, quasi metatesto basilare del suo magistero: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8, 19-24).


Radici cristiane e laicità

In questo contesto va allora visto il rapporto tra radici cristiane delle società occidentali e attuale procedere della scristianizzazione secolarizzatrice in tali società. Non si tratta di una rivendicazione ideologica e integralistica, come da qualche parte si è voluto far credere, in occasione del dibattito sulle «radici cristiane» dell’Europa e del riferimento esplicito a tali radici nella nuova Costituzione europea. Non c’è nessun integralismo: ci sono invece, al contrario, le basi dialogiche della laicità e della mediazione culturale, viste — ed è questa l’originalità del papa — come in qualche modo interne alla missionarietà; non come pre-evangelizzazione o dialogo ad extra, ma come assunzione vera e piena nella coscienza evangelizzatrice.
Nella sua prima enciclica, Giovanni Paolo II affermava: «ci accostiamo in pari tempo a tutte le culture, a tutte le concezioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà. Ci avviciniamo con quella stima, rispetto e discernimento che, sin dai tempi degli Apostoli, contrassegnava l’atteggiamento del missionario. Basta ricordare San Paolo e, ad esempio, il suo discorso davanti all’Aeropago di Atene. L’atteggiamento missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che “c’è in ogni uomo”, per ciò che egli stesso, nell’intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più profondi e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui ha operato lo Spirito, che “soffia dove vuole”»7.
L’immagine dell’Areopago, già di per sé molto significativa, viene ulteriormente ripresa e sviluppata nella «Redemptoris Missio»: «Paolo, dopo aver predicato in numerosi luoghi, giunto ad Atene, si reca all’areopago, dove annunzia il Vangelo, usando un linguaggio adatto e comprensibile in quell’ambiente (cfr. At 17, 22-31). L’areopago rappresentava allora il centro della cultura del dotto popolo ateniese, e oggi può essere assunto a simbolo dei nuovi ambienti in cui si deve proclamare il Vangelo. Il primo areopago del tempo moderno è il mondo della comunicazione, che sta unificando l’umanità rendendola — come si suol dire — “un villaggio globale”. […] Molti altri sono gli areopaghi del mondo moderno, verso cui si deve orientare l’attività missionaria della chiesa. Ad esempio, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; i diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto quelli delle minoranze; la promozione della donna e del bambino; la salvaguardia del creato sono altrettanti settori da illuminare con la luce del Vangelo»8.
Dunque, nell’Europa post-totalitaria, ecco emergere la sfida della secolarizzazione. La società occidentale è essa stessa, in qualche modo, terra di missione. La laicità allora non è l’ambito delle legittime autonomie in un regime di cristianità, ma il prezioso perimetro neutro in cui potersi confrontare in onestà: la condizione esistenziale del campo in cui poter esprimere l’annuncio della buona notizia cristiana. Alle soglie del 2000, il papa diceva: «Con la caduta di grandi sistemi anticristiani nel continente europeo, del nazismo prima e poi del comunismo, si impone il compito urgente di offrire nuovamente agli uomini e alle donne dell’Europa il messaggio liberante del vangelo. […] Più l’occidente si stacca dalle sue radici cristiane, più diventa terreno di missione, nella forma di svariati “areopaghi”»9.
La mediazione culturale non è allora tanto lo sforzo di mediare il cristianesimo nei contesti culturali laici: perdute le radici cristiane, ciò potrebbe significare solo giungere ad un cristianesimo annacquato, inodore e insapore, una estrinseca religione civile, una cappellania ideologica dell’Occidente. La mediazione culturale va intesa invece come l’accoglimento di uno spazio culturale di mediazione, cioè di incontro alla pari (moderno areopago), tra opzioni valoriali diverse, in cui far tralucere, con umiltà e rispetto, lo splendore della verità del Vangelo e la sua testimonianza paradossale, come messaggio di libertà e forza di liberazione.


Vangelo di libertà e liberazione

Proprio in questo senso, un ultimo punto mi pare importante ricordare, sia pure in modo molto sintetico: esso infatti, da una parte, costituisce in qualche modo il passaggio di testimone da Paolo VI a Giovanni Paolo II e da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI; d’altra parte, è un plesso problematico che mette a tema la necessità di un’evangelizzazione nuova che affronti sia la scristianizzazione e il secolarismo del Nord ricco sia le difficoltà concrete del Sud povero. È il tema, appunto, del Vangelo come via di libertà e di liberazione.
Paolo VI ne aveva parlato in due documenti fondamentali: la «Populorum Progressio» (con l’idea che lo sviluppo, cioè la liberazione, è il nuovo nome della pace) e la «Evangelii Nuntiandi». Sulla base del magistero della prima, è soprattutto la seconda che trasmette a Giovanni Paolo II la questione della ricerca di una nuova evangelizzazione, con una sottolineatura sul Vangelo della liberazione: «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la buona novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa»10. Ancora: «l’evangelizzazione comporta un messaggio esplicito, […] un messaggio, particolarmente vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione. […] La Chiesa ha il dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani, essendo molti di essi figli suoi, il dovere di aiutare questa liberazione a nascere, di testimoniare per essa, di fare sì che sia totale. Tutto ciò non è estraneo all’evangelizzazione»11.
Da questa impostazione Paolo VI derivava alcune indicazioni pastorali. Ne ricordo tre in particolare: suscitare, soprattutto nei giovani, testimoni autentici, animati dall’amore, col fervore dei santi12; evitare i rischi — evidenti in alcune tendenze della «teologia della liberazione» (peraltro non citata) — di ridurre la salvezza cristiana a progetto solo temporale con manipolazioni di tipo ideologico-politico, e perfino con la giustificazione della violenza13; andare verso una Chiesa tutta intera missionaria sia valorizzando i «due poli della Chiesa» (Chiesa universale e Chiesa particolare), senza che uno mortifichi l’altro14, sia puntando sulle comunità ecclesiali di base come luogo di evangelizzazione all’interno delle Chiese particolari e delle parrocchie15.
Giovanni Paolo II, attraverso molti atti del suo magistero, preso il testimone dell’«Evangelii Nuntiandi», ha insistito su una «nuova evangelizzazione» e ha sempre sottolineato l’impegno cristiano per la solidarietà e la giustizia sociale («Laborem Exercens»; «Sollicitudo Rei Socialis»; «Centesimus Annus»). Rispetto alle tre indicazioni di Paolo VI, egli ha insistito — nel suo insegnamento — sulla dimensione missionaria, ma pastoralmente si è concentrato soprattutto sulle prime due indicazioni: per aprire la Chiesa al fervore dei testimoni, soprattutto in ambito giovanile, egli ha portato i nuovi movimenti ecclesiali nell’istituzione; per evitare i rischi della Teologia della liberazione egli ha, da una parte, promosso un’opera di censura specifica, attraverso la Congregazione per la Dottrina della fede, e dall’altra ha selezionato progressivamente un episcopato (in America Latina, ma — in senso lato — un po’ dappertutto) sulla base di quella preoccupazione prioritaria.
La sfida pastorale che sta oggi di fronte a Benedetto XVI, pur essendo ovviamente articolata su più ambiti, diviene, a mio avviso, soprattutto questa: passare dall’inserimento dei movimenti nell’istituzione alla istituzionalizzazione dei movimenti (con forme canoniche precise, anche — se necessario — modificando il Codice di Diritto Canonico) e alla movimentazione dell’istituzione, attraverso la terza indicazione di Paolo VI: valorizzazione dei «due poli della Chiesa» e delle piccole comunità ecclesiali di base.

1 «Evangelii Nuntiandi», n. 57.
2 «Redemptor Hominis», nn. 2-3.
3 «Tertio millennio adveniente», nn. 18-20.
4 «Christifideles Laici», nn. 49-51.
5 «Augustinum Hipponensem».
6 «Redemptor Hominis», nn. 13-14.
7 Ibid., n. 12.
8 «Redemptoris Missio», n. 37.
9 «Tertio millennio adveniente», n. 57.
10 «Evangelii Nuntiandi», n. 18.
11 Ibid., nn. 29-30, ma cfr. anche n. 39.
12 Ibid., n. 80.
13 Ibid., nn. 32-38.
14 Ibid., nn. 60-64.
15 Ibid., n. 58.