Appunti 2_2005

La fecondazione assistita tra scienza, morale, diritto e politica

Guido Formigoni

Pubblichiamo qui il testo – leggermente modificato – dell’introduzione al seminario promosso a Milano da Città dell’uomo il 24 gennaio 2005 su «La legge sulla fecondazione assistita: un dibattito aperto, tra scienza, morale, diritto e politica». Relatori sono stati padre Carlo Casalone, s.j., Mario Picozzi e Giorgio Tonini: gli atti sono appena stati pubblicati a cura di Città dell'uomo.

Il tema della fecondazione assistita (o meglio, come si usa tecnicamente dire, procreazione medicalmente assistita, Pma) è caldo e controverso in questi mesi. C’è una legge, la legge 40 del febbraio 2004, la prima che si stata approvata su questa materia in Italia. Ci sono pendenti quattro referendum abrogativi parziali (su singoli punti della legge), che andranno in votazione nei prossimi mesi. Occorrono strumenti un po’ sofisticati per addentrarsi nella materia, nel cuore di un circuito tra scienza, morale, diritto e politica.


Un problema delicatissimo

In sede introduttiva, mi limiterei a porre qualche problema di metodo. Che parte della stessa questione del significato e del compito della legge. Qualsiasi legge, ma in particolare quella che entri a regolare complessi problemi di ordine personale e morale, come quelli relativi alla nascita, alla riproduzione, alla salute, alla vita, alla morte delle persone umane, pone difficili problemi. Tali questioni sono infatti simbolicamente e antropologicamente decisive e quindi sempre delicatissime. Coinvolgono le persone nei loro convincimenti e nelle loro dimensioni emotive e vitali profonde, chiamando in causa il senso della vita e le discussioni più radicali attorno all’essere umano. In che misura è possibile farsi aiutare dalle conoscenze scientifiche a superare i problemi dell’infertilità e a sostenere il legittimo desiderio di maternità e paternità? Non è facile entrare in questi discorsi dal punto di vista delle scelte individuali degli uomini e soprattutto delle donne che si pongono questi interrogativi: come sappiamo ad esempio la riflessione morale cattolica prevalente è a questo proposito molto critica nei confronti di ogni manipolazione «esterna», tecnica, dell’atto di trasmissione della vita. Ma le conoscenze e le pratiche mediche si sono affinate e stanno diventando sempre più efficaci e diffuse (la prima nascita di una bimba concepita «in provetta» risale a più di venticinque anni fa). Per molte persone il ricorso a queste tecniche non solo è lecito, ma configura una sorta di appiglio della propria umanità, ferita dalla difficoltà a procreare. Non è questo un bene? Teniamo poi conto che statisticamente oggi molti parlano di una riduzione della fertilità naturale, dovuta probabilmente a complessi motivi di ordine sociale, sanitario e ambientale, verso cui non è semplice intervenire, ma che è un fatto molto preoccupante della nostra condizione umana epocale. Certo, possiamo essere critici di alcune forme di accanimento: la lotta all’infertilità non può essere condotta «ad ogni costo», passando sopra ad ogni altra considerazione degli altri soggetti in gioco. Una volontà di avere un figlio che configuri una sorta di diritto ossessivo alla maternità rischia probabilmente di sfociare in una concezione «proprietaria», un po’ asfissiante, della trasmissione della vita. Il che non depone nemmeno a favore di una futura capacità genitoriale equilibrata. Ma questi sono forse i limiti estremi, diranno i sostenitori delle pratiche Pma.
Il problema ha però anche risvolti sociali e addirittura antropologici. Occorre essere molto attenti ai rischi per l’immagine stessa dell’essere umano, che si collegano a questi progressi tecnici. Non tanto perché ci sembri utile il ricorso alla vecchia categoria della «legge naturale»: questa natura è sempre soggetta a evoluzioni nella storia, non può essere codificata una volta per tutte. Il riferimento a una sorta di beata condizione naturale incorrotta ci sembra debole, anche nel fondare una scelta morale. Ma certamente intervenire nei delicatissimi meccanismi della trasmissione della vita e dell’eredità genetica comporta una responsabilità elevata: che confine c’è tra voler nobilmente evitare che nascano figli con malattie ereditarie gravissime e voler programmare figli maschi o femmine, oppure «un po’ più intelligenti della media»? Il confine è sottile: nessun professionista oggi direbbe che le tecniche Pma possono servire per fini eugenetici, di miglioramento della specie, ma occorre tenere desto il controllo in questo senso. Come vale la pena essere molto attenti a qualsiasi mercificazione possibile di questi meccanismi, anche surrettiziamente sviluppata. La stessa medicalizzazione di un problema sociale non è anche in questo caso un rischio? Si diffonde ancora una volta l’idea che a valle di dinamiche difficili da dominare (la riduzione della fertilità, di cui parlavamo) c’è sempre una soluzione «tecnica» e «privata», il che appare devastante dal punto di vista della coesione sociale. Una società adulta deve quindi considerare il problema in un modo complessivo.


Utilità e limiti dell’intervento legislativo

Non sempre una legge è necessaria in questi campi delicati. Il primo presidio della correttezza dell’operato dei protagonisti dovrebbe essere la responsabilità umana, la libertà della scienza e la coscienza illuminata delle persone (e questo riguarda tutti i soggetti in gioco, dai ricercatori ai medici, dai genitori agli organizzatori della sanità). Talvolta però le cose corrono nella società umana, tanto da chiedere una serie di riferimenti e vincoli legislativi. Si creano infatti condizioni scientifiche o sociali che mettono a rischio equilibri delicatissimi dell’umano. Pensate solo al discorso economico che si intreccia alle nobili propensioni al progresso delle conoscenze e delle tecniche per aiutare il prossimo a risolvere i problemi della vita. E quindi occorre regolare, mettere ordine, incanalare le evoluzioni della ricerca e della pratica. Le invocazioni alla mitezza del diritto a volte non colgono che esistono abusi della libertà e situazioni via via sempre meno accettabili. Non credo che il riferimento giornalistico all’esistenza di un Far west in materia procreativa prima della legge fosse molto centrato: in realtà la situazione complessiva appare — per quanto ne conosciamo — sicuramente responsabile. Ma certo le eccezioni rilevanti ci sono state e i rischi di comportamenti leggeri sono dietro l’angolo. Questo è il primo discorso: non è retorica chiedersi se una legge fosse necessaria. Forse eravamo arrivati proprio a quel punto. In fondo, la stessa Corte costituzionale, respingendo la proposta di quesito referendario presentata dal Partito radicale che mirava ad abrogare interamente la legge 40/2004, ha implicitamente ma chiaramente sostenuto questo principio: non è più tollerabile una assenza legislativa in questa delicatissima materia.
Del resto, però, occorre rendersi conto che qualsiasi legge è sempre insufficiente e deludente, e apre complessi problemi morali e politici. E ciò avviene per due ordini di motivi. Il primo è strutturale: la legge arriva solo a fissare dei limiti, ma non può essere caricata di troppi compiti. Non esiste legge perfetta dal punto di vista morale, perché la legge entra in un mondo di fatti sulla base di alcuni principi generali e non può ispirare da sola comportamenti giusti. Una volta generalizzati i comportamenti, una volta bilanciati gli interessi e i valori in gioco, una volta considerati gli effetti presunti che alcune determinazioni legislative producono, le scelte legislative lasciano sempre un margine di dubbio e opinabilità. L’etica della responsabilità ci invita a ragionare esattamente in questo modo: se ad esempio l’effetto concreto di una legge fosse quello di scoraggiare il ricorso alla Pma, surrettiziamente dividendo il paese tra coloro che possono andare all’estero (dove in generale ci sono legislazioni meno proibizioniste rispetto a quella approvata in Italia, non solo nella liberista Gran Bretagna, ma anche in Francia e Germania) e coloro che non possono permetterselo, allora difficilmente una legge potrebbe essere considerata sostenibile. Insomma, se una legge si scontrasse talmente con i costumi diffusi da restare inapplicata, che bene sociale ne deriverebbe? Alcuni di questi interrogativi si rilanciano a sua volta nei confronti degli stessi principi morali: siccome non ci basta una morale casistica e deduttiva, mentre siamo impegnati nei confronti di una morale delle intenzioni e della responsabilità, ogni scelta richiede un discernimento che di per sé è personalizzato e articolato, e che deve riprodursi all’interno dei divieti e delle prescrizioni di qualsiasi legge. Quindi, occorre attenzione a essere «laici» e prudenti nei confronti di qualsiasi legge: non esiste una «legge perfetta» su nessuna questione (tantomeno una legge «morale» o addirittura una legge «cattolica»). Fosse possibile! Esiste una legge che impersona al suo meglio il «massimo bene possibile» nei confronti di una determinata situazione sociale e umana.
Il secondo aspetto è relativo al pluralismo sociale ed etico presente nella nostra società. Non c’è accordo sugli elementi basilari del problema. A partire dalla concezione stessa dell’embrione, nel rapporto con le scelte dei genitori. Il pluralismo etico, poi, si intreccia, in modo non sempre chiaro e definito, al pluralismo politico. Allora che fare? Evitare di impegnarsi su questi terreni per evitare di scontrarsi con gli altri? Diffidare della politica e rifugiarsi nella purezza dell’impegno individuale? Oppure  scontrarsi a colpi di maggioranza con gli «altri», cercando di attribuire alla propria posizione morale una forza politica e di imporla ad una società riottosa? Nel primo caso c’è il rischio dell’irrilevanza, nel secondo della lacerazione sociale, come notava già Jacques Maritain negli anni ‘50. E la lacerazione è un problema per gli stessi principi morali: esiste infatti il rischio concreto di perdere tutto, se si politicizza immediatamente il principio morale, nella mutevole sorte delle maggioranze parlamentari. Esiste il rischio che l’attuale bipolarismo politico si trasfiguri in un «bipolarismo etico» (come ha sostenuto Giorgio Tonini), dando vita a contrapposizioni laceranti e soprattutto ad esiti legislativi incerti, sottoposti a continue modificazioni a ogni stormir di maggioranza. Quindi, non c’è altra via che impegnarsi nel confronto con chi la pensa diversamente, per trovare la mediazione più alta possibile. E parlando di mediazione non intendiamo un compromesso al ribasso. Parliamo di una mediazione che tenti di alzare la qualità del punto di incontro, cercando di intercettare un ethos sociale il più ampio possibile, in cui la massima parte delle posizioni morali concretamente diffuse nella società si possano riconoscere. Una mediazione che alla fine sia anche politicamente più viabile e quindi approdi a una legge praticabile e con i minori effetti collaterali negativi possibili. E’ una via rischiosa? Certamente sì, ma forse è l’unica via che risponda alla visione alta della politica di cui siamo portatori.


La legge 40 e i suoi punti controversi

Sulla base di queste impostazioni generali, non vorrei giudicare complessivamente la legge attuale in discussione. Mi limito a notare che la legge è senz’altro impostata sui due principi fondamentali di una restrizione delle condizioni di ammissibilità alle procedure Pma (possono farvi ricorso solo coppie di diverso sesso — anche conviventi e non sposate — con entrambi i soggetti viventi, senza materiale genetico estraneo alla coppia) e di una limitazione della produzione di embrioni, vietandone la crio-conservazione (conservazione a bassissime temperature, fino ad oggi molto diffusa) e prevedendo la produzione di un massimo di tre embrioni da impiantare contemporaneamente nell’utero materno. Su alcuni di questi aspetti c’è diffuso, in qualche caso direi ampio, consenso (esclusione di single e coppie omosessuali, o anche di genitori morti, esclusione dell’«utero in affitto»), fatta eccezione per minoranze radicaleggianti estremiste molto rumorose ma prive di consenso.
Su altre norme, è più aperta la discussione: alcuni hanno sottolineato come in qualche caso la fecondazione «eterologa» (con ovulo o sperma estraneo alla coppia) sia l’unica possibile per affrontare casi non infrequenti di sterilità completa, altri ritengono che le norme sulla restrizione a tre del numero degli embrioni e sull’unico impianto di tutti quelli prodotti non siano compatibili con la tutela della salute psico-fisica della madre, oppure ancora molti non ritengono sensata la proibizione di utilizzare gli embrioni precedentemente prodotti e conservati (e non destinati ormai all’impianto) per scopi di ricerca scientifica (nel campo delle cellule staminali et similia). Questi sono tre degli argomenti su cui appunto sono indetti i referendum.
Il quarto aspetto in questione nell’ultimo referendum è il riferimento più generale ai «diritti del concepito», presente nella legge, che prende parte in modo netto nell’annosa discussione sulle condizioni dell’embrione. Qui si entra nell’aspetto più delicato della questione, irrisolvibile solo con riferimenti scientifici, e che chiama in causa un problema di valore. Su questo punto, infatti, come è noto, c’è un vivace dibattito sul momento in cui è possibile considerare l’embrione una «persona umana» nella completezza dei suoi diritti, anche giuridicamente sanzionabili. Se quasi nessuno nega carattere umano al prodotto stesso dell’incontro di due gameti (neanche nelle pratiche mediche più spinte è considerato un mero «grumo di cellule» trattabile a piacimento, tanto che le procedure di conservazione degli embrioni attualmente presenti sono state sempre mediamente molto attente), c’è chi invece considera la relazione con la madre e quindi l’«annidamento» nell’utero una precondizione indispensabile del processo di sviluppo di una persona in senso pieno. Per tralasciare posizioni ancor più radicali, che spostano il fatidico momento del riconoscimento ancor più avanti nel tempo. Qualcuno ha fatto ricorso al concetto di coscienza per definire l’identità personale, posizione che appare abbastanza insostenibile. C’è però una complicazione tecnica ulteriore da considerare: la fecondazione non è un fatto istantaneo, ma un processo che dura parecchie ore, fino alla fusione dei due patrimoni genetici: alcuni sostengono che sia possibile considerare in modo diverso il problema della conservazione di pre-embrioni, da quello di altre forme più evolute. Infine, c’è l’aspetto della coerenza con le altre fonti del diritto: in qualche modo appare una contraddizione che elementi rigorosi su questa materia si intreccino con previsioni permissive in materia di aborto (non che la legge 194 possa essere considerata un riferimento intoccabile, ma certo una sua eventuale revisione è molto difficile). Pur con tutte queste avvertenze, credo personalmente che occorra esprimere nella legge una tutela «forte» delle condizioni dell’embrione umano, che non può essere prodotto in modo leggero ed essere mero oggetto o strumento di volontà «altre».
In termini generali, si può peraltro esprimere il dubbio che ci sia stata qualche forzatura nel processo della realizzazione della legge 40. Il dibattito attorno alle premesse di una legge era stato ampio e ricco: in parlamento si era lavorato con apprezzabile intensità. Alla fine, però, la precipitazione nel testo legislativo è stata un po’ drastica, non sempre lineare e condizionata anche da motivi politici generali. E’ apparsa strana, proprio in una materia così delicata, la dichiarazione del governo di assumere una certa posizione, chiamando ad una blindatura della maggioranza. Infatti, non a caso la legge ha poi suscitato una contrapposizione radicale, che è giunta alla richiesta dei referendum abrogativi.


I referendum: inadatti ma non aggirabili

Un’ultima parola proprio sui referendum. Sono ormai un elemento del gioco: dovremo votare presto sui quattro che sono stati indetti. Essi sono tutti abrogativi in modo parziale: cercano di cancellare alcune delle disposizioni legislative per conservare la funzionalità della legge, eliminandone alcuni divieti. E’ chiaro a tutti che, rispetto al processo legislativo, il referendum è un’arma rozza: potendo solo cancellare, incidere con il bisturi nel testo attualmente vigente, è difficile arrivare a un livello articolato e sofisticato di normativa. Ad esempio, abolendo il riferimento ai «diritti del concepito» non per questo si instaura una auspicabile forma diversa di tutela, meno enfatica e più sostenibile, dell’embrione. Il referendum comunque è una tecnica politica democratica e legittima, che anch’essa va considerata in modo laico e disincantato. Uno «scontro di civiltà» che alzi i toni del confronto, non serve a nessuno. Il referendum dovrebbe essere una occasione civile di maturazione democratica, permettendo a molti cittadini di farsi un’opinione argomentata sulla materia complessa del contendere.
Occorre poi considerare attentamente gli effetti delle diverse posizioni. La vittoria dei No, ovviamente, ingesserebbe in qualche modo la legge, che si troverebbe ad essere confermata dalla volontà popolare (i cattolici dovrebbero appunto ricordarsi le sorti della legge 194 sull’aborto, dopo il referendum del 1981!). E’ possibile anche ritenere che la scelta più produttiva sia l’astensione, per far fallire i referendum (che come è noto la legge prevede siano nulli se non partecipa più della metà degli aventi diritto), come stanno orientandosi a fare molte componenti del mondo cattolico su esplicita e pesante indicazione della Cei e del suo presidente, il cardinale Ruini. Tale posizione vuole difendere la legge 40, ritenendola la massima apertura possibile. Non è una scelta illegittima dal punto di vista democratico: certo, qui per ottenere un risultato ci si appoggia sulla forza dell’astensionismo spontaneo e non motivato (che è stato stimato sempre almeno attorno al 35% nelle ultime occasioni referendarie). Per giunta, la mancanza di un voto popolare esplicito non sanzionerebbe allo stesso modo la validità della legge, che resterebbe sempre modificabile per via parlamentare. Come non è nemmeno impossibile pensare che un voto positivo su alcuni dei referendum apra poi la strada a una ripresa in sede legislativa, per regolare questioni delicate che si aprissero e che i referendum da soli non possono sciogliere.
Continuiamo infatti a pensare che in parlamento non sia finito il tempo della discussione. Ci sono diversi disegni di legge di modifica della legge 40 o di riscrittura totale, su cui si potrebbe discutere. Manca forse solo la volontà politica di ritornare sulla questione con ottica nuova: ormai la gran parte dei protagonisti si sono predisposti semplicemente a una contrapposizione. E’ però una carenza molto seria per la nostra società e per la stessa classe politica, per cui l’appello al dialogo non ci sembra fuori luogo.
Confidare in una ulteriore riflessione sociale e istituzionale sulla materia mi sembra coerente al richiamo di Giuseppe Lazzati — nostro fondatore e maestro — che invitava a «pensare politicamente» in ogni occasione, anche di fronte a questioni così complesse e così delicate.