Appunti 2_2005

Lezioni elettorali: l'Unione alla prova

Marco Damilano

«Questa vittoria mi dà una grande preoccupazione. Ci leggo un umor nero diffuso nel paese. C’è una mancanza di fiducia nel futuro che si ripercuote sul governo. Ma per noi significa una responsabilità enorme». Bisogna andare a sentire l’ex ministro Pierluigi Bersani per capire quali sono gli umori reali che si agitano nella pentola dell’Unione all’indomani delle elezioni regionali del 4 aprile. Uno si aspetta di trovare gente esultante, e invece a sorpresa c’è quasi timore. Il dubbio dei vincitori, come recita una poesia di Pietro Ingrao? Forse, ma non solo. Timore di ereditare da Silvio Berlusconi una situazione difficile, un paese allo sfascio. Preoccupazione per il grave momento in cui potrebbe cadere addosso la responsabilità del governo. Paura, anche, di una vittoria improvvisa e imprevista in queste dimensioni che coglie la coalizione di centro-sinistra in mezzo al guado, con troppe contraddizioni ancora aperte.
Attenti all’euforia, dunque, amici dell’Ulivo. Per la verità, ce ne era ben poca ai quartieri alti del centro-sinistra all’indomani della vittoria alle elezioni regionali, uno strepitoso 11 a 2 che consegna quasi tutte le regioni italiane (resistono la Lombardia di Formigoni, il Veneto di Galan, la Sicilia di Cuffaro e il piccolo Molise) all’Unione e fa esplodere in mille pezzi il centro-destra. Nessuno si illude, in realtà, che il berlusconismo sia finito con il voto regionale. Troppo radicato, comunque, in una parte del paese. Troppo combattivo il Cavaliere, lontano anni luce da quel senso di cupa rassegnazione che aveva afferrato i leader del centro-sinistra cinque anni fa, quando i generali si erano ritirati nelle loro ridotte e avevano lasciato l’esercito allo sbando. Troppo eccezionali le condizioni che hanno portato Berlusconi alla politica e poi al potere per pensare che il suo tramonto avvenga in condizioni normali, come vorrebbe la fisiologia della democrazia, e che non ci siano altri strappi, altre rotture.


Radicali si vince

Però l’Unione e Romano Prodi possono fare tesoro della lezione preziosa che arriva dalle regionali. Prima lezione, la più semplice, ripetuta in tutti i commenti: uniti si vince. Sembra una banalità, non lo è. L’unità nel centro-sinistra non è mai stata una condizione data, ma una faticosa conquista. Sono passati appena tre mesi da quando Prodi abbandonò la sede dell’Ulivo e l’ennesimo, sterile vertice protestando contro chi voleva distruggere il progetto della lista ulivista. E poi polemiche, battaglie, voci di cambio di leadership. Alla fine il Professore l’ha spuntata e, come si dice, i fatti gli hanno dato ragione. Ma che fatica. Seconda lezione: con buona pace dei politologi il centro non esiste più. Non si vince conquistando i voti del centro: è vero che due milioni di voti si sono spostati da uno schieramento all’altro, un fenomeno che non si era mai verificato in forme così massicce. Ma certo non in nome del moderatismo, al contrario perché hanno visto nell’Unione di Prodi un’offerta radicalmente alternativa al berlusconismo. Perfino le battute di Prodi sui volontari contrapposti ai mercenari, accolte dai professionisti della politica con un’alzata di sopraccigli, sono servite allo scopo. Entra definitivamente in crisi il dogma della sinistra anni Novanta: l’Italia, l’Europa, il mondo sono di destra, vince solo la sinistra che si traveste da destra. Il dogma del blairismo, dei napoletani travestiti da inglesi, il dogma del riformismo non c’è più.
Però sarebbe sbagliato dare un’interpretazione solo politica, tutta politicistica di quello che è accaduto. Quando in Puglia il comunista e gay (e cattolico) Nichi Vendola batte un ras come Raffaele Fitto nel suo feudo vuol dire che è cambiato qualcosa di profondo, che va al di là dei sondaggi, della buona comunicazione, della figura dei leader. Qualcosa che parte, probabilmente, dall’estate del 2001. L’estate in cui il berlusconismo appena andato al governo comincia a mancare le prime promesse. E, al contrario, nelle piazze e tra i giovani si risveglia la partecipazione. Giovani generazioni, ventenni che non votavano cinque anni fa, hanno votato il centro-sinistra e la sua anima più radicale, a differenza dei loro coetanei del 2000-2001 che preferivano inseguire i sogni berlusconiani. Ribaltamento di una scala di valori: il privato da una parte, il pubblico dall’altra, la flessibilità come occasione per saltare i gradini del successo sociale in un caso, la precarietà come tragedia, come il dramma che unito alle insicurezze familiari e affettive tipiche di questa generazione ti costringe sempre a chiedere qualcosa a qualcuno, a rimandare la crescita, le scelte, il tuffo nella vita. Troppo presto si sono liquidati i movimenti di piazza degli anni scorsi: erano un magma che non andava identificato con i leader che di volta in volta, a partire da Sergio Cofferati, si erano candidati a guidarli salvo poi scomparire in logiche tutte politiche e partitiche. Erano un fiume carsico, invece, sicuramente non estraneo al risultato delle regionali.
E poi i ceti medi, delusi dal berlusconismo, quelli che leggono la crisi economica nella difficoltà di figli e nipoti di trovare un lavoro e che certo non potevano essere riconquistati alla causa con una mancia fiscale. Sono questi settori, questi ambienti che hanno consegnato la vittoria al centro-sinistra. Attenzione: è un consenso fragile, non è un blocco sociale come quello che ha saldato Forza Italia e la Lega e ha permesso al Polo il dominio assoluto al Nord. È uno stato d’animo, fatto di elementi ancora confusi: voglia di partecipazione e richiesta di rassicurazione, esigenza di cambiamento e domanda di conservazione.
Terza lezione: dopo un decennio speso a inseguire il mito del Nord-est da comprendere e da riconquistare, il centro-sinistra scopre che la sua nuova frontiera è il Sud. È nelle regioni meridionali che l’Unione fa il pieno: con l’ex dc Agazio Loiero, con il segretario socialista che venne dopo Bettino Craxi Ottaviano Del Turco, con Vendola, soprattutto con Antonio Bassolino, artefice di una campagna elettorale innovativa nei metodi e nei contenuti che gli ha permesso di sbaragliare la destra e di lanciare la propria candidatura nel governo nazionale, a fianco di Prodi. Un vento del Sud che soffia forte come quello del Nord negli anni scorsi. Tanto più che anche a Nord la retorica della devolution leghista sembra finalmente entrata in crisi. Perfino espugnare Milano non sembra più un sogno proibito: solo che non si ricorra ancora a imprenditori, politici stagionati, e neppure giornalisti televisivi, come si sente dire in questi giorni.


Le sirene della conservazione

Ora viene il compito più difficile: non dilapidare la vittoria, costruire le condizioni per battere la destra anche alle politiche. Si dilapida la vittoria, innanzitutto, se non si capisce che il berlusconismo è gravemente ferito, ma non è spacciato. È un sentimento profondo nel paese. È la sfiducia verso lo Stato e le sue istituzioni. Da questo punto di vista il Cavaliere ha già cominciato la sua campagna elettorale vestendo i suoi panni preferiti: quelli del capo dell’opposizione assediato da magistratura, giornali, consiglio di Stato, docenti universitari e professori di liceo, insomma l’establishment. Un capo del governo, l’uomo più ricco del paese, dotato di tutti i poteri e di tutti mezzi disponibili, che si presenta come il capo dell’opposizione, senza responsabilità: il massimo della pericolosità.
L’errore più grave che l’Unione potrebbe fare, da questo punto di vista, è cadere nella trappola e diventare il rifugio delle alte burocrazie, dei grand commis in cerca di ricollocazione. Non è il caso di una figura come Mario Monti, ovviamente. Ma sono troppi gli apparati che si stanno volgendo verso Prodi dopo anni di pratica berlusconiana. Pezzi di Stato e ceto politico a caccia di ricollocazione. Non a caso nella Sicilia del 61 a zero il passaggio di truppe da un campo all’altro, lo sferragliare dei carri e delle artiglierie che cambiano bandiera si avverte con maggiore intensità. Più attenzione non guasterebbe, prima di ritrovarsi Cuffaro in zona Federazione.
Ma l’errore maggiore per l’Ulivo sarebbe interrompere la speranza di cambiamento per mostrarsi come il fronte della conservazione. Un errore letale, già commesso nel 1996: accanto a quello di interrompere bruscamente il processo di rinnovamento della politica perché le elezioni si erano vinte. Sospendere le primarie è stato saggio, finiti i problemi sulla leadership, ma non è un bel segno: l’esigenza di partecipazione e di mobilitazione dei militanti resta intatta. Peggio ancora sarebbe riconsegnare anche la scelta dei candidati nei collegio uninominali alle trattative tra partiti. Soprattutto, in vista delle elezioni politiche, non va abbandonato il progetto che per ora si riconosce nella lista dell’Ulivo e domani, chissà, potrebbe abbracciare l’intera Unione, o quasi: la nascita del Partito Democratico, il primo partito di massa della seconda Repubblica, con un rimescolamento delle grandi culture politiche della prima e la formazione di una nuova classe dirigente.
L’idea che un nuovo governo Prodi possa essere la pura fotocopia di dieci anni fa, con gli stessi ministri pur bravissimi e apprezzati che riconquistano la loro posizione, sarebbe un indebolimento grave del centro-sinistra alla vigilia dello scontro finale. La domanda di cambiamento non è solo politica, è una richiesta di nuova partecipazione. Il professor Prodi è il motore di questo progetto. Ora deve essere anche il garante che questa domanda non andrà dispersa. Non si faccia incantare dalle sirene della conservazione.