Appunti 6_2004
Le elezioni americane nel mondo globale
| Mario Sepi |
A qualche settimana dalla conclusione delle elezioni americane, vale forse la pena di fare alcune considerazioni su questo evento che avrà conseguenze indubbie sulle vicende politiche ed economiche in tutto il mondo. L’attenzione con cui l’opinione pubblica mondiale ha seguito questa vicenda ne ha accresciuto di per sé l’importanza, testimonianza oltretutto che lo sviluppo della globalizzazione ha accresciuto in molti popoli l’interesse per queste elezioni, cui ha partecipato però solo il popolo americano.
Bush e la globalizzazione
Le prime valutazioni riguardano gli effetti che avranno sui processi in atto nella politica mondiale, come la lotta al terrorismo, la guerra in Iraq, il rapporto tra Nord e Sud del mondo. Se la seconda presidenza Bush dovesse perseverare nell’impostazione di politica estera definita dalla prima ci dovremmo aspettare una certa continuità di azione, peraltro inevitabilmente limitata dalle precedenti infauste esperienze. Così, per quanto riguarda la guerra in Iraq, c’è da aspettarsi la ricerca affannosa di una via di uscita, che potrà salvare la faccia della superpotenza, ma difficilmente aprirà la strada a nuove tentazioni di guerra preventiva contro gli Stati veri o presunti «canaglia». La farsa dell’esportazione della democrazia come giustificazione ideologica si specchierà nella tragedia dei campi di battaglia e delle stragi urbane da una parte e nell’irriducibile complicazione di una società irachena difficilmente comprensibile con i paradigmi e le semplificazioni elaborate da Washington.
In poche parole non ci si ritirerà da Baghdad in maniera umiliante, come è successo a Saigon, ma è molto probabile che sia l’Iran che la Corea del Nord possano evitare lo sbarco dei marines sulle loro coste. Tuttavia la scottante esperienza vissuta in Mesopotamia non indurrà l’amministrazione americana, forte della riconferma elettorale, a cambiare a fondo la linea «missionaria» intrapresa, né a ridurre le sue pretese di egemonia mondiale. Non ci sarà in conclusione un abbandono della dottrina della guerra preventiva a favore di una più sofisticata e articolata lotta al terrorismo internazionale, ma probabilmente si eserciterà una maggiore cautela prima di lanciare nuove azioni militari unilaterali. Questa contraddizione tra parametri ideologici invariati e prassi meno aggressiva lascerà un vuoto considerevole soprattutto in Medio Oriente. Particolarmente difficile diventerà la situazione, se non si affronterà con coraggio il cuore del problema di quest’area di instabilità, dopo la morte di Arafat. Si tratterà di perseguire la strada maestra di una stabilizzazione pacifica nei rapporti tra Israele e palestinesi, superando la mancanza di iniziativa che ha caratterizzato la prima presidenza Bush, malgrado le sollecitazioni che sono venute da questa parte dell’Atlantico. La lotta al terrorismo non può essere perseguita solo con metodi da sceriffo, ma anche e soprattutto attraverso lo sviluppo di piani politici preventivi, con proposte eque non discriminatorie per quelle popolazioni, sul cui malessere si fonda la predicazione di Bin Laden.
Bush e l’Europa
Un secondo capitolo importante della nuova situazione sono i rapporti atlantici che presentano aspetti strategici, economici e di modello sociale. Sulla ripresa di una collaborazione strategica più stabile e approfondita all’interno dell’alleanza atlantica si è molto discusso, ma forse hanno ragione i neocons alla Kagan, le visioni del mondo e le conseguenti impostazioni delle politiche mondiali tra le due sponde restano con questa amministrazione sempre più divergenti. Da una parte c’è l’arroganza di voler imporre il proprio punto di vista, fidando sulla forza del proprio potenziale politico, economico e militare, dall’altra sta faticosamente nascendo una dottrina di politica estera europea, che punta su una istituzionalizzazione crescente dei rapporti tra nazioni e popoli incanalando i conflitti nell’ambito diplomatico e delle organizzazioni internazionali. Questa impostazione è d’altra parte coerente con la storia e l’identità dell’Ue, come emerge dalla Costituzione e dall’esperienza dell’allargamento che ha esteso il diritto europeo, dando stabilità consolidata al vecchio continente, attraverso l’adesione volontaria dei nuovi Stati ad un ordinamento comune con istituzioni soprannazionali di governo.
Problematici risultano poi i rapporti economici tra nuova amministrazione e Ue. La presidenza precedente si era distinta per un atteggiamento piuttosto indisponente: il rifiuto di ratificare l’accordo di Kyoto, come le varie misure commerciali, prese in violazione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, e infine il rifiuto di concordare la politica di cambio dollaro/euro, esprimevano in politica economica lo stesso unilateralismo mostrato per quella strategica. Questa arroganza potrebbe essere attenuata solo se prevarrà da parte di Washington un atteggiamento più pragmatico e rispettoso delle regole internazionali. Sarà capace la nuova amministrazione di cambiare rotta e di ridurre l’accento posto dalla precedente sul diritto della forza?
Bush e la politica interna
Una valutazione comprensiva va anche riservata sul risultato in sé: esso ha visto un forte spostamento di voti a favore di Bush, che questa volta ha avuto una maggioranza non solo di grandi elettori, ma anche dell’elettorato, cosa che non era avvenuta in precedenza. L’ondata conservatrice preoccupa anche per la maggioranza conquistata dai repubblicani nelle due Camere, perché secondo alcuni potrebbe invertire molti principi della società statunitense, suscitando tendenze di minore attenzione ai diritti umani e alle libertà civili e infine erodendo le competenze degli stati. Tuttavia questi pericoli, pur presenti, non vanno enfatizzati. Il sistema legislativo americano è provvisto di elementi riequilibratori potenti e la tradizione dei diritti civili è ormai fortemente radicata.
Ci si può meravigliare fino ad un certo punto che un candidato come Kerry sostenuto dai principali giornali e mass-media del paese, confortato dall’appoggio dell’opinione pubblica europea e di quasi tutti i suoi governi (salvo forse Berlusconi e Blair), vincitore dei duelli televisivi, non abbia prevalso. È stato detto che ciò è dipeso in gran parte dalla mobilitazione sui valori operata dai repubblicani, dalla posizione di Bush come comandante in una situazione di guerra e infine dall’appoggio di alcuni gruppi religiosi, la politica di denaro facile portata avanti dalla Fed fino all’ultimo, tutte cose vere che hanno contribuito alla sua elezione. Tuttavia credo ci sia un’altra valutazione da fare che non riguarda solo gli Stati Uniti, ma un po’ tutto il mondo: si sta creando una frattura profonda tra una parte della società americana che vive pienamente e con favore il fenomeno della globalizzazione, la crescita delle comunicazioni e di rapporti pubblici e privati tra i diversi popoli della terra, il conseguente cosmopolitismo e liberalizzazione dei costumi, gli sviluppi tecnologici e scientifici e la modernizzazione dei rapporti sociali che tutto ciò produce. Ce n’è un’altra invece che vive con molta amarezza questa sconvolgente accelerazione della situazione sociale ed economica. Si formano così sacche di opposizione di diversa natura che vanno dalla difesa dei valori tradizionali alla tutela dell’identità culturale nazionale, ai problemi sociali posti dalle ristrutturazioni economiche e dai movimenti migratori, imposti da un’economia sempre più globale. Il comune denominatore di queste persone è la paura del futuro e si sentono perciò mobilitati a favore delle parti politiche più conservatrici. Non è un problema statunitense, è un problema che percorre anche la società europea e si esprime nei movimenti populisti conservatori che sono sorti nell’ultimo decennio.
Effetti duraturi
Sebbene in queste ultime settimane si sia un po’ esagerato sulle conseguenze dell’elezione americana, i riflessi saranno molteplici e profondi. Emerge chiaro da questa breve analisi che essi sono tutti collegati e rappresentano una grossa sfida per le forze democratiche e progressiste in tutto il mondo.
L’unilateralismo della politica estera statunitense è strettamente collegato con un atteggiamento di freddezza nei confronti dell’Unione europea e si traduce anche all’interno degli Stati uniti in un’ondata conservatrice che investe gli stessi comportamenti sociali. Oggi non è possibile dire se la nuova amministrazione, visto il risultato elettorale, proseguirà in questa direzione o se invece prevarranno toni moderati nel secondo mandato Bush. Certo è che stiamo scoprendo una nuova faccia degli Usa, una faccia che non eravamo abituati a guardare da vicino, affascinati da quella più ammiccante dei film hollywoodiani, degli scrittori della costa Est e della California.

