Appunti 5_2004
La Chiesa e il mondo indigeno in Chiapas. Intervista a Samuel Ruiz
| Massimo De Giuseppe |
Quando si spalanca la porta del piccolo ufficio di Samuel Ruiz a Città del Messico, mi investe un odore forte di caffè. Quel caffè che nel bene e nel male ha segnato la storia del Chiapas negli ultimi centocinquanta anni, da quando iniziò la stagione della «modernizzazione» del Centroamerica, della privatizzazione delle terre, dello sfruttamento intensivo di jornaleros indigeni. Alle pareti vi sono alcuni segni dei colori e dei simboli tessuti dei villaggi tzotzil, tzeltal, chol, zoques, tojolabal che il tactic Ruiz ha percorso incessantemente nei quarantanni in cui ha guidato la diocesi di San Cristóbal de Las Casas; alle sue spalle vi è invece una grande foto di Sergio Méndez Arceo, il vescovo di Cuernavaca scomparso nel 1992, tra i più coraggiosi promotori del rinnovamento postconciliare della Chiesa messicana. Oggi vescovo emerito e vitale ottantenne, Ruiz vive a Querétaro, nel Messico centrale, lontano dal suo Chiapas, ma non sembra aver nessuna intenzione di abdicare al suo ruolo di portavoce di un mondo alla cui scoperta ha dedicato buona parte della sua vita.
Ruiz ha attraversato la seconda metà del Novecento partecipando all’evoluzione del Celam (la conferenza dei vescovi latino-americani), guidando la Commissione episcopale messicana per gli indigeni e svolgendo un ruolo cruciale nella mediazione tra governo messicano e ribelli zapatisti1; al contempo ha vissuto la sua missione pastorale, cercando di entrare nel cuore segreto della costumbre 2 indigena chiapaneca attraverso un originale processo di «inculturazione». La sua azione di denuncia e di tutela dei diritti umani si è spesso rivelata scomoda, sollevando resistenze sia in seno a quelle frange del mondo cattolico che vedevano in lui un pericoloso interprete della teologia della liberazione, che nelle autorità politiche, specie dopo l’insurrezione zapatista. Se con quella rivolta è tornata alla luce la questione indigena, con l’azione di Ruiz si è riaperto un dibattito più profondo, che tocca una serie di questioni irrisolte nella storia messicana: l’anima di una nazione nata da una matrice duplice (europea e mesoamericana) e la dialettica tra passato, presente e futuro, che continua ancor oggi a rigenerarsi e ridefinirsi in nuovi contesti e circostanze.
Qual era la sua originaria percezione della questione indigena e più in generale della categoria dell’indio messicano?
Assolutamente nessuna percezione, perché nella regione dove sono nato, nel 1924, nello Stato di Guanajuato, gli indigeni che ancora sopravvivevano erano inibiti da una situazione discriminatoria estremamente radicalizzata. Esisteva allora l’idea che il Messico fosse in una situazione di ritardo perché aveva gli indigeni e che l’unica possibilità di sviluppo era che questi smettessero di essere tali. Io personalmente, dal 1924 al 1947, l’anno in cui mi trasferii a Roma3, ebbi la possibilità di conoscere una sola famiglia indigena. A Guanajuato c’erano ancora otomí, chichimechi e i pames di San Luis de la Paz ma restavano totalmente al di fuori del nostro contatto diretto. Era un mondo a parte. Per questo fu solo quando arrivai in Chiapas nel 1959-1960 che iniziai a rendermi conto dell’esistenza del problema e della sua reale portata, dal momento che il 78% della diocesi è composto da indigeni maya; fu davvero sorprendente l’impatto con questo nuovo contesto e fortunatamente, proprio in quel momento storico, arrivò il Concilio Vaticano II che ci illuminò, su come avviare la nostra azione pastorale: potemmo allora avviarci a cambiare l’orientamento dell’annuncio e la vita stessa di una Chiesa marcatamente «occidentale», per tentare, così si diceva, un’«incarnazione» nella cultura locale.
Può descriverci il suo incontro con la diocesi chiapaneca e quale fu il peso che il Concilio rivestì nella sua personale riscoperta del mondo indigeno?
Ancor prima di giungere in Chiapas, scrissi a un mio compagno di studi nel Pio Collegio latinoamericano, Adolfo Suárez, che conosceva la regione; gli scrissi chiedendogli informazioni generali e lui mi inviò una sintesi estremamente interessante da cui emergeva, tra le altre cose, il mondo indigeno. Questo era presente, ma non rappresentava certo una priorità, né esisteva l’idea di poter sviluppare una pastorale specifica rivolta agli indigeni, nella loro complessità. Essenziale in tal senso risultò il «terzo punto luminoso» di cui si occupò il Concilio, quello della «Chiesa dei poveri». Quando i vescovi tornarono da Roma, incominciarono a percepire la situazione latinoamericana con occhi nuovi: allora emerse chiaramente che il problema fondamentale dell’America latina era quello della povertà strutturale e che si poteva usare il Vangelo per parlare agli uomini. Solo grazie a questa prospettiva si incominciò a guardare anche al mondo degli indigeni, che sono i più poveri tra i poveri del continente. In questo processo, quasi come conseguenza naturale, seguirono le posizioni di Medellín4 che si gettò a capofitto nel cuore della povertà riconoscendovi anche il volto indigeno del continente.
I fermenti di cui lei parla ebbero un seguito concreto nell’esperienza della Chiesa messicana, in una stagione, quella compresa tra Medellín e Puebla, di forti trasformazioni sociali e culturali. In particolare si sviluppò un’inedita sensibilità: esperienze come quella del Cidoc di Ivan Illich, l’attenzione alla formazione di un clero indigeno dopo secoli di ostracismo, il rinnovamento dello spirito missionario nelle aree più isolate del paese ma anche tra gli indigeni immigrati nelle grandi megalopoli; furono facce diverse di un unico processo organico o tante esperienze specifiche che ebbero nella lotta alla povertà e nella riscoperta della cultura indigena un denominatore comune?
Con questo mondo del Cidoc io non ebbi contatti diretti, certo però la Conferenza episcopale messicana (Cem) registrò una serie di esperienze innovatrici. Fu proprio il mio predecessore, Lucio Torreblanca, colui che menzionò nella Conferenza, credo per la prima volta in assoluto, l’esigenza di nominare un vescovo che si facesse carico di affrontare in termini nuovi la questione indigena nella Repubblica messicana. Questa idea non fu accettata ma aprì il dibattito sulla questione. Fu da lì che si poté arrivare alla nascita della Commissione episcopale per gli indigeni (Cei) che in seguito avrebbe dato vita a un organismo di aiuto e sostegno alle popolazioni indigene chiamato Cenami (Centro nacional de misiones indígenas), che ha una storia e un’esperienza davvero interessante. In seguito fu il delegato apostolico Luigi Raimondi a indire due congressi indigeni, convocando gli agenti della pastorale. Nel secondo di quegli incontri mi propose di pensare al progetto di una casa per la formazione di catechisti e di un programma sanitario nelle aree indigene, chiedendomi se mi sarebbe piaciuto avviare una di queste esperienze pilota in Chiapas. Io gli risposi alla messicana: «Signore mi lasci dire che queste pulci non si attaccano sulla mia stuoia», cioé che non eravamo in grado di sostenere un’opera di tale natura. Però, gli dissi anche: se ci aiuta, la cosa cambia e siamo pronti. Lui stesso, personalmente, inviò due congregazioni religiose, una maschile (i fratelli maristi), l’altra femminile (le sorelle del divino pastore) e prese il via in Chiapas un processo locale di formazione di catechisti. In questa stessa epoca inoltre capitò che il presidente della Cei abbandonò l’incarico, così toccò a me sostituirlo. Tutto ciò avvenne nella stagione preparatoria di Medellín e quel che andava nascendo in America latina lo si stava sperimentando anche qui in Messico. Questo posso dirlo anche perché fui invitato a far parte della Commissione delle missioni del Celam, che fece della questione indigena una priorità. Così ebbi l’opportunità di vivere queste trasformazioni direttamente nella mia diocesi5, nell’ambito della Cei e attraverso le relazioni con le idee di Medellín e posso dirle che i risultati ottenuti furono i frutti della stagione postconciliare.
Quali furono le principali difficoltà incontrate nell’avviare un processo pastorale di nuovo tipo, che innescava un inevitabile confronto culturale e religioso che per lungo tempo era stato eluso? Come visse l’impatto con la pluriculturalità del mondo indigeno chiapaneco, spesso ancorato a forme di religiosità sincretiche o chiuse e quale fu la sua percezione del ruolo della donna indigena nelle comunità?
Bene: una cosa è ciò che si pensa oggi, un’altra cosa ciò che si scopre entrando in quel mondo culturale autoctono che non sempre corrisponde alla percezione che noi cerchiamo di costruire dall’esterno. Questo vale sia nel senso della difesa della religiosità e della cultura, come per il ruolo della donna. Mi ricordo che una volta un antropologo venne in Chiapas, visitò le parti più indigene della diocesi e al momento di andarsene, mi disse che se ne andava molto preoccupato per la discriminazione che aveva riscontrato nei confronti delle donne. Per esempio – mi disse – l’uomo cammina sempre davanti, con la donna dietro, che lo segue come un cane e mantenendo una certa distanza. Questo esempio aveva un suo fondamento, certo; però credo anche che contenesse un giudizio implicito che noi diamo automaticamente di un’altra cultura. Se infatti proviamo a cambiare prospettiva e se ci interroghiamo più in profondità, scopriamo che le donne indigene camminano dietro all’uomo non per una forma di disprezzo; al contrario questa è una manifestazione di profondo rispetto e nasce dal dovere di protezione che l’uomo ha verso la donna: l’uomo cammina davanti per spaventare un animale feroce che si può incontrare lungo il cammino e deve tagliare con il suo machete i rami degli alberi che possono colpire la sposa o il bambino che questa porta sulla spalle. Allora, da questo punto di vista non possiamo pensare che la coppia possa camminare come si fa in città, su un marciapiede. Tutto questo per dire che non sempre dobbiamo giudicare le cose dal punto di vista della nostra cultura. Certo possiamo dire che da un lato in alcuni contesti esista una concreta sottomissione femminile ma non dobbiamo nemmeno dimenticare che ci sono realtà indigene del Chiapas centrale in cui la comunità non può prendere una decisione senza il consenso previo delle donne. Alcune volte abbiamo affrontato questo tipo di situazione sollevando interrogativi, ad esempio sul perché gli uomini avessero sandali e scarpe e le donne camminassero scalze. Anche questo entrava nell’ambito del processo di evangelizzazione e queste domande cominciavano a penetrare nel dibattito familiare e della comunità e gradualmente si cominciarono a registrare piccoli segnali che hanno rotto il luogo comune secondo cui l’uomo indigeno calpesta la sua donna perché è calpestato dalla società, e la donna indigena calpesta la terra perché non ha altro da calpestare.
La formazione di catechisti fu seguita dalla nomina dei diaconi indigeni che sollevò svariate polemiche 6. Lei pensa che questa fosse una risposta pastorale all’approccio di inculturazione, diretto a risvegliare processi interni alle comunità ma anche a rispettarne le prerogative?
All’inizio preparammo tutto il processo basandoci ancora sulla situazione culturale preconciliare. Quando il Concilio ci disse di avviare una situazione di incarnazione attraverso la cultura esistente, cominciò a cambiare l’approccio pastorale: l’azione nelle diverse zone indigene cominciò a farsi trasformatrice e noi a renderci conto del pluriculturalità di quel mondo. Come le dicevo tutto il processo si sviluppò in modo molto graduale e si accompagnò a un fenomeno di conoscenza reciproca. Però all’inizio era difficile riconoscere le differenze, così come era difficile per loro distinguere catechisti pre-conciliari e post-conciliari; il processo di cambiamento passò attraverso una serie di difficoltà nel lavoro con la gente, soprattutto nel mutare la nostra posizione verso un’accettazione di elementi culturali indigeni. Quando, con l’esperienza, abbiamo cominciato ad assumere un’attitudine rispettosa verso la cultura, la legge e la tradizione altrui, nel tentativo di vedere come Dio si era reso vivo in queste culture particolari, solo in quel momento abbiamo iniziato a fornire alcune indicazioni pastorali agli indigeni. Allora però si ebbe anche una reazione che non avevamo previsto. Alcuni infatti vennero a dirmi: signore, noi non la capiamo più, perché prima ci dicevate che tutto questo non aveva valore, spingendoci a vomitare la nostra cultura. Ora invece tu vuoi che noi rimangiamo quello che ci avete fatto vomitare. Per me quella fu un’esperienza piuttosto forte. Questa crisi la superammo, in una maniera che definirei provvidenziale, proprio quando si svolse il processo di elezione dei diaconi, che sviluppammo attenendoci alle posizioni del Concilio e dei documenti sulle missioni. Mentre nel documento sulla Chiesa «Lumen Gentium» si afferma la prospettiva che sia il vescovo colui che sceglie, prepara e consacra i diaconi, nel documento «Ad missiones» si dice che il vescovo non deve negare la grazia del sacramento dell’ordine diaconale a quelle persone che si sono distinte per servizi di carità alla comunità; allora secondo questa prospettiva noi abbiamo avvisato le comunità di riflettere per un anno sul significato del diaconato nella Chiesa primitiva e su cosa invece poteva rappresentare per noi in quel preciso momento storico. Quando, dopo un anno, andammo nelle comunità che avevano appena svolto le proprie elezioni, esse ci comunicarono il modo con cui si era svolto il processo decisionale, che era molto differenziato, ma sempre con una partecipazione piena e viva. Quindi non fummo noi a decidere chi doveva essere nominato diacono; questi furono scelti dalle comunità, solo tra chi si era distinto per la propria caritas. Io accettai le scelte e li nominai diaconi, con le sole eccezioni di una vedova e di un uomo che non si era mai sposato. Alla celebrazione della consacrazione diaconale presenziarono anche le donne. Evidentemente eravamo coscienti che il diacono era l’uomo ma questo fatto generò poi una lunga serie di polemiche, e qui entrò in gioco la politica. Si registrò infatti una certa resistenza da parte di alcune delle autorità politiche che controllavano le comunità7 che fecero resoconti calunniosi di quello che andava accadendo. In una delle ultime riunioni, in cui già era presente Raúl Vera8, una giornalista fece un reportage sulle nomine dei diaconi. Non credo fosse in mala fede ma certo fu avventata, perché vedendo un’anziana che pregava davanti all’altare, la riprese dicendo che era una diaconessa. Il giorno seguente un altro giornalista disse che avevamo già ordinato 200 donne diacono senza aver consultato la Cem. Anche il governo ci accusò e la polemica crebbe9, tanto che arrivò un «invito» a non nominare altri diaconi per almeno cinque anni. Situazione che dura ancor oggi.
Sui fatti incorsi negli anni Novanta in Chiapas esiste una pubblicistica interessante 10. Vorrei però chiederle un parere su una questione oggi piuttosto dimenticata. Dopo Puebla, iniziò la fase della «normalizzazione» delle istanze di Medellín, ma anche della «nuova guerra fredda» che investì il Centroamerica in modo drammatico. Come si percepì quella stagione di violenze dall’osservatorio di una diocesi periferica e nella sua stragrande maggioranza indigena?
La diocesi reagì in una maniera molto significativa: ci rendemmo conto in modo forse ancor più significativo della correttezza della nostra opzione per i poveri. Giunsero in Chiapas più di 25.000 rifugiati guatemaltechi e si fece una scelta preferenziale verso questa emergenza. Però non fu solo la diocesi a mobilitarsi, anzi le prime a farlo furono le stesse comunità indigene. Questo fu un fenomeno impressionante e pressoché sconosciuto. Arrivavano persone che avevano affrontato varie notti di cammino (di giorno vigilavano gli elicotteri militari); erano bagnate, stanche, piene di bambini e di fame e le comunità le accettavano, davano loro ospitalità dicendo: fratelli conosciamo le vostre sofferenze, voi siete carne della nostra carne, sangue del nostro sangue, e fin quando avremo un poco di tortillas e di fagioli, li mangeremo e li divideremo con voi. Era una solidarietà indigena silenziosa ma attiva, tra maya di differenti comunità. E questa situazione si protrasse per dieci anni. Seguii anche la vicenda di Romero. Con El Salvador la distanza era maggiore e i mezzi di comunicazione non erano così potenti come oggi, così la sua storia fu conosciuta solo a posteriori. Ricordo però ancora il momento esatto della notizia della sua morte. Andai subito là con don Sergio Méndez Arceo e c’era anche il cardinale Corripio Ahumada, arcivescovo di Città del Messico, a rappresentare Roma; proprio la sua omelia fu interrotta dagli uomini del governo salvadoreño, mentre iniziava il massacro nella piazza della cattedrale11. Conservo la memoria di quest’uomo e ho una forte percezione dei simboli che travalicano le distanze: oggi che vivo lontano dalla mia vecchia diocesi, mi ritrovo ancora ad agire in una dimensione chiapaneca, perché il Chiapas non è più solo in Chiapas, è uscito dalla sua nicchia ed è presente in diverse parti del mondo. Gli indigeni, prima che lasciassi la diocesi, mi diedero una bandiera12 dicendomi che questo era il segno che il mio impegno non cessava ma anzi che avrei dovuto lavorare di più perché fossero riconosciuti i loro diritti e la loro dignità; questa è una prospettiva che si sta concretizzando e che continuo a vivere quotidianamente nel mio lavoro di emerito.
1 Membro della Comisión nacional de intermediación, Ruiz promosse gli incontri tenutisi nella cattedrale di San Cristóbal e nel villaggio di San Andrés Larrainzar, dove nel febbraio del 1996 si stipularono gli omonimi accordi (mai effettivamente attuati) sul rispetto delle autonomie indigene. Lasciò l’incarico pochi mesi dopo il massacro di Acteal, dove il 23 dicembre del 1997 un gruppo paramilitare uccise 45 indigeni della comunità de Las abejas.
2 Letteralmente tradizione, richiama il concetto di altépetl, il cerro de agua, connesso alla dimensione culturale «antica» della comunità.
3 Ruiz si trasferì a Roma nel 1947 e fu ordinato sacerdote il 2 aprile del 1949. Ritornò in Messico nel 1952, come professore di Sacra scrittura nel seminario di León, di cui divenne rettore due anni dopo.
4 Nell’incontro di Melgar, preparatorio della II Conferenza del Celam a Medellín, nell’aprile del 1968, Ruiz entrò in contatto con le teorie dell’antropologo Reichel Dolmatoff sull’inculturazione e la lotta al sottosviluppo.
1 Nell’ottobre del 1974 la diocesi di San Cristóbal organizzò il Primer congreso indígena da cui nacquero una serie di iniziative quali la cooperativa Quiptic ta Lecubtesel che in tzeltal significa «Uniamo le nostre forze per la liberazione».
6 Il grande sforzo pastorale di Ruiz si concretizzò nella nomina di quasi 400 diaconi e circa 7.000 catechisti in oltre 2.500 comunità indigene.
7 Particolarmente conflittuali risultarono le aree, storicamente tradizionaliste, di Chamula e Tila.
8 Vera nell’ottobre del 1996, tre anni dopo l’annuncio del nunzio Girolamo Prigione dell’apertura di un’inchiesta sui metodi pastorali utilizzati nella diocesi, fu nominato vescovo coadiutore di San Cristóbal, in vista di una probabile successione. In realtà, dopo aver manifestato una sintonia con l’impianto pastorale diocesano, Vera non successe mai a Ruiz; quando questi dovette lasciare San Cristóbal per raggiunti limiti di età (il 10 febbraio del 2000), la diocesi fu affidata a Felipe Arizmendi.
9 Dopo la sollevazione zapatista, il 1° gennaio 1994, Ruiz fu al centro dell’attenzione dei media messicani. La stampa filopriista lo attaccò duramente, ventilando presunte connessioni con i ribelli. In particolare si accusavano gli agenti pastorali di svolgere un’azione politica nelle comunità. La tensione crebbe, il parroco francese di Cenhaló fu espulso dal paese e vari esponenti della diocesi subirono minacce da parte di neonati gruppi paramilitari. Anche sul versante cattolico si sviluppò un fronte critico verso Ruiz, accusato di marxismo e di scarso rispetto verso l’ortodossia.
10 Vedasi J. Meyer, Samuel Ruiz en San Cristóbal, Tusquetes, México 2000; J. Santiago, A. de Saint Phalle (a cura di), Giustizia e pace si baceranno, tr. it., Edizioni Lavoro, Roma 1997 e A. Zanchetta, M. Bugliani (a cura di), Il Tatic Ruiz, un vescovo tra gli indios del Chiapas, Manni, Lecce 2004.
11 Durante i funerali di Romero, il 30 marzo 1980, scoppiarono tumulti nella piazza della cattedrale, l’esercito sparò sulla folla che si rifugiò in chiesa e le celebrazioni furono interrotte.
12 E’ la Jcanan Lum, la bandiera verde consegnata a Ruiz dai diaconi di Amatenango davanti ai principales delle comunità delle sette zone pastorali della diocesi.


