Appunti 4_2004
I segni dei tempi, l'interesse comune, la responsabilità
| Marco Ivaldo |
In questa prima parte delle mie riflessioni procederò piuttosto fenomenologicamente, mettendo a fuoco – con la consapevolezza della inevitabile parzialità delle scelta – quelle che giudico tre questioni maggiori del nostro momento politico, inteso in senso ampio: lo stato della democrazia, la questione della pace, la condizione della politica.
Lo stato della democrazia
Viene da più parti evidenziata la situazione di difficoltà profonda in cui versa la «democrazia liberale» in Italia. Ne danno esempio la irrisolta, o mal risolta questione della proprietà, della gestione e del pluralismo dei media, l’esistenza di un conflitto di interessi che si presenta con una caratteristica qualitativa (e non soltanto, o tanto, quantitativa) del tutto specifica dell’Italia, le risorgenti tensioni fra poteri e funzioni dello Stato (la cui autonomia ed equilibrio è invece uno dei fondamenti dello stato di diritto), un’interpretazione della cosiddetta devoluzione che sembra piuttosto innescare una frammentazione dell’unità nazionale.
Vorrei in questa occasione considerare questa difficoltà allargando il discorso e domandandomi quale tipo di democrazia si viene affermando nel pubblico modo di pensare come quasi «naturale», tanto da sembrare l’unico disponibile. Si tratta di una concezione della democrazia per cui questa viene sostanzialmente identificata con il momento elettorale e perciò con la procedura della formazione di maggioranze e minoranze. Affermo subito, al fine di evitare equivoci, non solo che la procedura di formazione di una maggioranza e di una minoranza attraverso libere elezioni è componente essenziale della democrazia, ma che la possibilità che maggioranza e minoranza si formino e possano mutare secondo regole è la cartina di tornasole del corretto funzionamento della democrazia stessa (perciò è oggi essenziale, ad esempio, la questione del pluralismo dei media e nei media, anche se naturalmente questo pluralismo non è un bene soltanto in chiave elettorale).
Tuttavia sostengo contemporaneamente che identificare la democrazia con il momento elettorale (o almeno prevalentemente con esso) impoverisce l’idea democratica. Non dovremmo ridurre il cittadino a elettore e la cittadinanza al solo (pur indispensabile) esercizio del voto. Faccio anche osservare che il prodursi di forme di «dittatura della maggioranza» in nome di una cosiddetta «investitura popolare» è una possibile degenerazione di un modello di democrazia incentrata solo, o prevalentemente, sul momento elettorale. La correzione di questa degenerazione richiede sì, con un sistema elettorale maggioritario, una saggia riequilibratura di poteri e funzioni (che dovrebbe andare verso una pluralizzazione del potere nell’unità della Repubblica), ma domanda anche, e fondamentalmente, l’assunzione di una diversa cultura democratica. In una «democrazia elettorale» infatti – la quale ha come suo referente l’individuo elettore – tende ad essere indebolito il senso del legame sociale, dello spazio comune, del partecipare alla res-publica. In essa il cittadino si rivolge alla politica in modo sostanzialmente non-politico, reclamando il soddisfacimento di interessi particolari (e spesso egoistici), senza porsi il problema della compatibilità sociale dei suoi desideri, disinteressandosi cioè al momento della sintesi politica. I grandi problemi politici comuni sono ridotti a scelte di consumo individuale. Alla democrazia come luogo di assunzione di scelte collettive si sostituisce il mercato come luogo di offerta di prodotti (ad esempio sotto forma di una varietà di opzioni scolastiche, sanitarie…) a cui i cittadini si rapportano come semplici consumatori. Alla cittadinanza attiva fondata su diritti e doveri si sostituisce una (illusoria) libertà di consumare, che è in realtà una passività rispetto alle opzioni messe a disposizione dal mercato e propagandate dai media e dalla pubblicità, una libertà inoltre che non si fonda sull’uguaglianza dei cives, ma sulle loro diversità di censo, di classe…
A questa visione di democrazia fondata su individui atomizzati e legati solo dalle relazioni di mercato – o di relazioni che nel mercato hanno il loro modello – dovremmo a mio giudizio contrapporre una diversa concezione che per brevità chiamerò personalista (pur senza riferirmi a una corrente filosofica particolare). In essa è centrale la relazione, il legame sociale (persona come «relazione sussistente»), perciò il rapporto io-altro, e l’idea fondamentale che l’io viene a se stesso soltanto nel rapporto con l’altro. Questa visione conta sulla politica come attività sintetica (o meglio: che persegue sintesi sempre provvisorie fra valori e interessi), sa che la democrazia è presa di parola che crea uno spazio comune, e perciò richiede la partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni che riguardano la res-publica, cioè richiede cittadinanza attiva. Questa visione democratica sa in definitiva che non esistono vie di fuga individuali e si propone di coltivare la felicità di ognuno solo nella ricerca della felicità comune.
La questione della pace
Dopo l’11 settembre 2001 si è fatta strada in una parte delle élite intellettuali e delle classi dirigenti occidentali, e in settori dell’opinione pubblica, l’idea che all’attacco del terrorismo l’Occidente dovesse rispondere con una difesa della propria sicurezza e dei propri «valori», affidata in modo preponderante allo strumento militare. Inoltre, si è voluto giustificare l’uso dello strumento militare sostenendo che esso era finalizzato ad abbattere, nel mondo arabo, regimi di tipo dittatoriale (che si riteneva appoggiassero il terrorismo e/o fossero dotati di armamenti non convenzionali e disposti ad usarli), per sostituirli con regimi di tipo democratico, in virtù dei quali si sarebbe via via allargata l’area della democrazia nella regione e si sarebbe attenuata nelle masse arabe l’ostilità verso l’occidente grazie ai benefici della libertà e del libero mercato.
Ambedue le opzioni si stanno rivelando illusorie e fallaci. La risposta soltanto bellica al terrorismo, per di più formulata al di fuori del diritto internazionale, ha in realtà evocato nuovo terrorismo: guerra e terrorismo si richiamano e si alimentano reciprocamente. In secondo luogo, la democrazia non è prodotto esportabile attraverso la guerra: porre la democrazia a scopo di una guerra è una procedura che si contraddice e si auto-falsifica. In particolare poi la democrazia non soltanto non è un prodotto del libero mercato come tale, ma nemmeno si identifica semplicemente con una procedura di individuazione di maggioranze e minoranze. Essa è una formazione culturale, oltre che politica, complessa, che deve venire elaborata dai popoli stessi in prima persona. Dovremmo dire che esiste un nucleo di principi democratici che può conoscere forme di realizzazione non univoche, ma analogiche, e anche tempi diversi di attuazione. L’Occidente, che è l’area storico-spirituale in cui l’idea democratica è nata e si è diffusa mettendo ampie radici – anche se non possiamo mai escludere nella storia regressioni rispetto ai livelli raggiunti – potrà diffondere l’idea democratica soltanto realizzandosi come forza di pace (qui emerge un ruolo essenziale dell’Europa come «civiltà del diritto»). L’idea democratica, e la cultura democratica, si diffondono intrecciando rapporti, non elevando barriere (ferma restando l’esigenza di richiamare con chiarezza e decisione la salvaguardia dei diritti umani universali). Si tratta poi di unire alle azioni repressive nei confronti del terrorismo, allorché queste siano necessarie (azioni che in ogni caso devono essere legittimate dal diritto, e devono avere un carattere proporzionale), una coraggiosa e lucida analisi delle motivazioni soggiacenti agli attacchi terroristici, e in particolare occorre associare all’applicazione di forza (quando necessaria) un’azione di carattere politico e culturale, che miri a rimuovere le cause che stanno all’origine di situazioni globali e locali di ingiustizia (situazioni in cui il terrorismo trova il suo bacino di incubazione), e che tenda a fare apprezzare i benefici della cooperazione, della comprensione e dell’intesa. «La violenza inizia dove cessa la parola» (Hannah Arendt): la politica è invece precisamente lo spazio del discorso in comune.
In realtà nell’attuale situazione del mondo globalizzato si gioca una partita decisiva, relativa al come dobbiamo intendere il nostro rapporto con l’altro (non tanto con il simile, ma con il dissimile, l’estraneo, lo straniero), e perciò concernente il come dobbiamo intendere noi stessi. Ma questo significa ancora e sempre porre la domanda: che cosa è l’uomo? Quella che abbiamo di fronte nel mondo attuale è in definitiva una questione di esistenza. Rispetto a essa è fondamentale tener fermo un concetto centrale della visione cristiana del mondo: l’unità della famiglia umana. Questa concezione rende inaccettabile l’idea che la guerra possa venire sostituita alla politica e al diritto come mezzo di soluzione delle controversie fra i popoli, e naturalmente anche l’idea che il terrorismo sia una forma accettabile per rivendicare diritti (mi riferisco qui in particolare alla Palestina). Ma tener fermo il valore normativo dell’unità della famiglia umana significa anche rifiutare una risposta economica e politica ai processi di globalizzazione che si fondi su una divisione del mondo compresa come ineluttabile: fra un’area che partecipa alla ricchezza e al benessere, e un’area (assai più ampia) che è esclusa da essi e la cui probabile ribellione deve venire trattata con mezzi militari e/o può venire sedata consentendole un accesso alle briciole dello sviluppo («conservatorismo compassionevole»). Il monito di Paolo VI nella «Populorum progressio»: «i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri», un monito dimenticato, si presenta in questo senso come assolutamente attuale. Alla sua luce l’Occidente, e in particolare l’Europa, dovrebbe relazionarsi al mondo, consapevole sì delle sue acquisizioni, ma anche del suo limite in rapporto al tutto e, più radicalmente, delle sue colpe, in azioni e omissioni. L’Occidente non è esente dal dovere di purificare la memoria.
La condizione della politica
Non soltanto la condizione del mondo attuale, in cui la violenza sembra sostituire il discorso (politico), ma anche il costume diffuso, centrato sull’individualismo, e quindi sul rifiuto dei valori costruttivi dell’insieme, è assai poco favorevole alla politica come attività sintetica, nel senso precisato, «cura del bene comune». L’azione politica si riduce a opera di soddisfazione, tutt’al più bilanciata e alternata, di pretese individuali e frammentate. Anche nelle sfere di impegno comune si fa strada una cosiddetta «militanza senza appartenenza», che si propone di risolvere i problemi senza raccordarli a un disegno globale. Pure nel «mondo cattolico» l’accesso alla politica è spesso segnato da questo carattere parziale e selettivo: ci si concentra su alcuni temi o interessi, senza raccordare questa concentrazione a un quadro sintetico e senza subordinarsi al vincolo di una responsabilità verso l’insieme dei cittadini. Molte cose concorrono – ad esempio la diffusione di un «pensiero debole» – ad abbassare la politica a funzione residuale di basso profilo, espropriandola dal compito etico di progettualità in vista dell’interesse comune, ovvero della res-publica.
Reagire a questa situazione significa valorizzare di nuovo il senso della politica come cura del comune bene (res-publica) secondo l’etica della responsabilità. Un punto di riferimento fondamentale è per noi – come sostiene il numero tre dello Statuto di Città dell’uomo – l’idea di democrazia avanzata nella Costituzione. Questa non è soltanto una definizione dei poteri e delle funzioni dello Stato (che in ogni caso non è per essa né uno Stato semplicemente liberale né uno «Stato etico»). La Costituzione fa derivare questa definizione della statualità da un nucleo di principi fondamentali, che disegnano il progetto di una democrazia basata sulla persona, della quale è immediatamente colta la dimensione comunitaria e l’apertura sociale. Più che «tornare alla Costituzione», si tratta di ritrovare il senso dell’attività politica, e perciò anche il senso di una funzione dell’Italia in Europa e nel mondo, a partire da essa.
In rapporto alla situazione sommariamente abbozzata mi domando come potrebbe caratterizzarsi il nostro compito. A questo proposito avanzo una considerazione generale: occorre primariamente riprendere, ancora e di nuovo, consapevolezza effettiva che il cristiano in politica è qualificato dall’ispirazione cristiana e insieme dal vincolo della responsabilità per l’interesse comune, che è un bene che non si produce affatto per semplice sommatoria degli interessi individuali. L’ispirazione cristiana in politica è – come ricordò una volta Aldo Moro – essenzialmente un «principio di non appagamento». Introduce nell’azione politica – e in definitiva in qualunque forma dell’agire – una tensione verso il «pleroma» (la pienezza qualitativa) del Regno di Dio (tema, come è noto, fondamentale nel pensiero di Giuseppe Lazzati); quel Regno che è già all’opera nel tempo, e che viene anticipato e prefigurato, seppure sempre in modo imperfetto, nell’azione rivolta alla costituzione dell’unità della famiglia umana (oltre che, naturalmente, in maniera sacramentale dalla Chiesa).
D’altro lato la responsabilità per l’interesse comune si declina certamente a partire da un patrimonio etico (per il quale vale il principio ambrosiano: nova semper quaerere et parta custodire, cosa che lascia intendere che si tratta di un patrimonio che cresce vivendolo e interpretandolo). Ma la responsabilità politica si sviluppa a partire da questa costellazione di valori in quanto essa ricerca i modi per tradurli in proposte (o programmi) che siano (almeno in linea intenzionale) in grado di ricevere il consenso di tutti i cittadini per il loro contenuto e valore intrinseci e perché capaci di realizzare il massimo ragionevole di convergenza possibile.
Non si tratta affatto di celare o mimetizzare i propri punti di partenza. Si tratta però, a partire da essi, di lavorare per enucleare – nel dialogo fra le diverse posizioni culturali, ideologiche, politiche in gioco in una società plurale – quei «punti comuni di ragione» (espressione di Lazzati), che rappresentino, nel concreto storico, il massimo di avanzamento umano possibile, ovvero che diano espressione effettiva al comune bene. Un moralismo per «amore dei valori» è altrettanto insoddisfacente sul piano etico di un opportunismo, ancorché possa essere più stimabile sul piano morale-soggettivo.
In questo senso il cristiano in politica non è colui che dichiara e/o richiama i propri valori, segnalando la loro distanza da una società che non li conosce o li rifiuta, e, al più, opera mediazioni per rendere meno negative leggi giudicate globalmente ingiuste. Questo approccio può naturalmente essere necessario in certe occasioni, ma non può esaurire l’idea di responsabilità politica. Il cristiano in politica è invece colui che cerca di incarnare i propri valori nella storia praticando mediazioni che li attualizzano, e li rendano (almeno intenzionalmente) accoglibili da tutti, nel massimo possibile. Questo gli richiede di tenere conto della situazione concreta nella quale i valori devono trovare attualizzazione (e il giudizio sulla situazione concreta ha sempre anche un aspetto di «congetturalità», su cui ha richiamato l’attenzione Lazzati) e di accogliere il metodo democratico come cammino di costruzione delle decisioni che riguardano la res-publica attraverso pratiche discorsive fondate su «buone ragioni» e mediante la formazione del consenso.
Le sfide associative
Da questa considerazione generale sul compito politico del cristiano passo a tre determinazioni particolari, che richiamo in maniera assai sommaria, avendo in vista l’iniziativa della nostra sezione di Città dell’uomo. Mi sembra che occorra sottolineare con forza, e in certo modo farci annunciatori, della perdurante attualità di un tema centrale della riflessione di Lazzati: la laicità. Ha detto il padre Yves Congar che il laico è un uomo, o una donna, per i quali «le cose esistono». Non che per i presbiteri e i religiosi il mondo (le «cose») sia niente. Ma per il laico il mondo, o meglio le realtà umane che potremmo designare come le realtà «della cultura» (es. famiglia, lavoro, forme della socializzazione, saperi, arte, comunicazione, politica), sono il luogo vero e proprio della sua «santificazione», quella santificazione che costituisce la vocazione, dunque l’impegno e la meta di ogni credente. Questo punto di partenza significa che per il cristiano laico le realtà umane devono essere riconosciute e conosciute nelle loro leggi e nei loro valori (morali, ma anche di altra natura), e che egli deve agire rispettando queste leggi e promuovendo tali valori, certamente alla luce della prospettiva escatologica del Regno di Dio, il quale – ciò non può mai essere ignorato – «non è di questo mondo» (e in definitiva lo giudica). Ciò vale anche e in modo particolare per la sfera politica, nella quale il laico è chiamato a giudicare e agire sotto propria, e inalienabile, responsabilità, sebbene naturalmente egli non possa mai isolarsi dalla Chiesa.
Un secondo aspetto da accentuare e da coltivare è il servizio culturale. Occorre, naturalmente in forma moderna, realizzare uno spazio e un servizio di riflessione che educhi al pensare e che onori il pensare politicamente. In antitesi alla forma di comunicazione oggi largamente prevalente, in cui l’utente viene considerato come un mero bersaglio di messaggi, tranne a coinvolgerlo in forme di comunicazione fittizia, occorre creare momenti e aprire spazi di riflessione in comune, ovvero: ricreare la comunicazione come lo spazio comune del discorso, come la forma umana del dare e del ricevere. La politica è strettamente legata alla (possibilità di) presa di parola in uno spazio comune, che esalta l’autonomia e la relazione fra cittadini.
Un terzo aspetto consiste nell’esigenza di coniugare il nostro servizio culturale, che deve qualificarsi per il valore intrinseco dei temi e dei messaggi che elaboriamo e proponiamo, con una capacità di «mettersi-in-rete» e di «stare-in-rete» con altri gruppi, associazioni, realtà collettive. Contro la frammentazione e la tentazione della autoreferenzialità – che non manca nel «mondo cattolico» e da cui noi stessi non possiamo dichiararci esenti – questa capacità di fare lavoro culturale con altri, in un intreccio di dare e di ricevere, mi sembra un modo efficace per esprimere una fedeltà creativa al mandato del nostro fondatore.
1 Questo testo rappresenta la relazione introduttiva all’assemblea dei soci della Sezione di Roma di Città dell’uomo, svoltasi lo scorso 14 maggio 2004.


