Appunti 2_2004
La Spagna ferita indica la strada
| Guido Formigoni |
Scriviamo sull'onda della commozione profonda e della rabbia per gli attentati di Madrid dell'11 marzo. La Spagna colpita e l'Europa tutta sono di fronte a momenti tra i più seri e drammatici della loro storia recente. Ma proprio per questa consapevolezza dolente e determinata, occorre cercare di mantenere la lucidità di fronte ad un dibattito pubblico che corre il rischio di deragliare rapidamente anche in seguito a questa tragedia.
Non sappiamo se gli attentati abbiano veramente cambiato le intenzioni di voto degli spagnoli. I sondaggi – lo sappiamo bene – non sono una merce infallibile. Sarà forse vero che la pessima, furbesca e irritante gestione delle informazioni e delle indagini abbia fatto colare a picco Aznar e il suo partito presso una parte dell'opinione pubblica. Ma è più probabile che qualcosa si fosse rotto molto prima nel rapporto tra il premier che aveva trasformato la destra spagnola e il paese profondo. Non è stato probabilmente un caso che l'intervento militare spagnolo a fianco degli Stati Uniti in Iraq avesse suscitato nel paese un'ondata di opposizione tra le più alte in Europa. Quindi, si può legittimamente ritenere che non solo di sconfitta dei popolari si tratti, ma che abbia vinto le elezioni il Psoe di Zapatero. Senza clamore e con grande responsabilità, il partito aveva interpretato la dinamica pacifista della società e aveva individuato una politica alternativa sulla questione irachena, annunciandola ben prima dell'inizio della campagna elettorale. Se avesse vinto le elezioni, avrebbe posto la condizione del passaggio completo e sostanziale all'Onu della guida della missione internazionale irachena, per poter continuare la presenza spagnola di controllo del territorio, entro la data precisa del 30 giugno prossimo. La conferma di questa decisione subito dopo l'imprevista vittoria elettorale è un gesto di chiarezza e coerenza, di forza tranquilla e non di cedimento. Esprime una linea intelligente e solida, certamente diversa dall'ideologica parola d'ordine del ritiro immediato.
Si è subito levata la voce dei nostri bravi oltranzisti – per tutti, rileggete il fondo di Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera" del 16 marzo – a sostenere che la scelta di ritirare le truppe spagnole dall'Iraq dopo quello che è successo l'11 marzo è un semplice cedimento ai terroristi e alla loro perversa strategia. Bin Laden l'aveva detto nei suoi proclami, infatti: fiaccheremo la volontà degli europei. E ritorna il linguaggio classico: attenzione a non ripetere l'arrendevolezza delle democrazie verso Hitler. Madrid 2004 come Monaco 1938. La fermezza. Un desolante dejà vu. Possibile che la discussione non riesca ad elevarsi oltre questo livello polemico banale, che non ha memoria storica né spessore politico?
Occorre invece ribadire con forza che il terrorismo non potrà cambiare le cose e non può sperare di modificare le caratteristiche essenziali della nostra civiltà. Il terrorismo – qualsiasi terrorismo – è una forma di lotta aberrante e inaccettabile. Che non può che essere denunciata, isolata, allontanata, da tutto il composito e pluralista movimento internazionale che si è schierato contro la guerra in occasione della vicenda irachena. Non c'è spazio per la minima tolleranza nei confronti di queste oscure centrali internazionali. Ma occorre essere conseguenti. Il terrorismo non potrà cambiare la nostra civiltà nemmeno provocando un'ondata di militarizzazione e di rifiuto del garantismo giudiziario e delle libertà civili, che ci trasformerebbe in qualcosa di molto diverso dalla tradizione democratica occidentale.
Il terrorismo non potrà cambiare la nostra politica e quindi non potrà nemmeno (come per uno strano effetto paradossale) far diventare giusta quella che era una politica sbagliata e autolesionista, come quella avviata dall'amministrazione Bush con la spedizione in Iraq, decisa fuori da ogni legittimità internazionale e con la sola intenzione di compiere una dimostrazione di "micromilitarismo teatrale". (Infatti, nemmeno la dietrologica equazione tra guerra e volontà controllo del petrolio iracheno è sostenibile, di fronte all'incredibile serie di costi e di effetti retroattivi che agli Stati Uniti e all'Occidente sono venuti e verranno da tale iniziativa). Non che il terrorismo derivi dall'occupazione dell'Iraq, evidentemente. Le centrali del terrore erano all'opera ben da prima, sfruttando tecnologia e finanziamenti più o meno carpiti – ce lo vogliamo dimenticare? – ai loro protettori occidentali di qualche precedente guerra. In questo senso, nemmeno l'11 settembre è stata una svolta, se non sul piano simbolico. Ma l'occupazione dell'Iraq e la stessa caduta del regime di Saddam Hussein non si sono rivelati utili alla guerra al terrorismo, anzi, sono stati controproducenti. Hanno creato nuovo risentimento e ulteriori motivi di contrapposizione all'Occidente, senza venire a capo minimamente della rete del terrore (i cui legami con il regime dittatoriale iracheno, sbandierati prima dell'invasione, sembrano sempre più labili).
Il terrorismo internazionale – quale che sia la sua matrice e quali che siano i suoi contorni, tutt'altro che chiari e tutt'altro che estensibili a piacimento delle necessità di propaganda dei diversi governi – non è minimamente paragonabile all'aggressione di uno Stato proteso alla conquista del territorio, come la Germania di Hitler nel 1938 nei confronti della Cecoslovacchia e quindi dell'Europa. L'abbiamo detto in tutte le salse, ma sembra difficile ricordarselo. Eppure, l'esperienza degli anni di piombo italiani dovrebbe aver pure insegnato qualcosa. Il terrorismo non punta alla conquista del territorio, quindi non ha senso contrapporgli una (del resto illusoria se si parla del quadro internazionale) speranza di controllare i territori da cui proviene. Non si può nemmeno blandire con l'appeasement, se mai qualcuno volesse provarci. Ha la speranza di vincere politicamente solo se la sua violenza mirata e la sua capacità di intimidazione creano solidarietà attorno a sé, nel mondo degli esclusi e degli arrabbiati. Il terrorismo non è affatto arma di lotta dei poveri contro i ricchi, come romanticamente e ingenuamente qualcuno pensa. Ma il terrorismo si difende e si nasconde, nella propria clandestina battaglia, dietro la folla delle moltitudini esasperate dall'ordine ingiusto delle cose. E infatti si diffonde anche là dove non c'è un "regime canaglia" che lo protegga, come dimostrano le complicità nella società saudita, egiziana, marocchina… Quindi, il terrorismo si combatte con un'efficace azione di vera "polizia", di competente e abile intelligence, di collaborazione tra Stati, di infiltrazione e sorveglianza indiretta. Ma soprattutto si combatte "prosciugando l'acqua" attorno al pesce terrorista. Costruendo consenso intorno alla soluzione delle crisi, avviando progetti di sviluppo, aiutando a creare alternative sociali, sostenendo non solo a parole le correnti teologiche e politiche responsabili dell'Islam, dimostrando all'orgogliosa civiltà islamica che ha una via possibile di affermazione fuori dall'annientamento suicida.
La situazione resta quindi altamente delicata e problematica, ma la vittoria del Psoe nelle elezioni spagnole potrebbe essere il segnale di una svolta politica importante, per l'Europa e anche per gli equilibri complessivi all'interno dell'Occidente. Potrebbe contribuire a creare un fronte di paesi europei responsabili, che escano dal tatticismo, dalla disunione e dall'impotenza, rafforzando una posizione europea di "potenza civile", efficace nei confronti dei problemi internazionali secondo logiche diverse dall'unilateralismo americano. Potrebbe contribuire a ridurre la divaricazione, insensatamente aggravatasi negli ultimi mesi in Italia, tra movimenti per la pace e sinistra politica, avviando anzi un nuovo circuito di solidarietà e integrazione tra le vitali istanze dei movimenti e una sinistra capace di costruire risposte politiche articolate e credibili ai problemi aperti e alle emergenze di ogni tipo. Ancora, la svolta spagnola potrebbe pesare sulla linea dell'amministrazione americana, che risulta sempre meno credibile, e quindi forse anche sulle prossime elezioni nella democrazia a stelle e strisce. Possiamo quindi riprendere, con la sobrietà imposta dal lutto attuale, lo slogan di Carlo Rosselli: oggi in Spagna, domani negli Stati Uniti e chissà… dopodomani in Italia!


