Appunti 6_2003
Sommario
Il crocifisso a scuola: l’identità e la fede La nuova ondata di polemiche sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è nata sotto un cattivo segno nel merito e nel metodo. Che sia un integralista islamico ad elevarsi a difensore della laicità dello Stato è francamente paradossale. Ed anche il fatto che sia un personaggio particolare, italiano convertito rissoso e attento soprattutto alla propria autopromozione, che benevolmente non ci sentiamo che di definire macchiettistico, a sollevare problemi reali. Ed è anche curioso che un singolo giudice si erga al di sopra delle procedure, della legislazione e dell’ordinamento con un curioso atto d’imperio nella propria ordinanza che imponeva all’amministrazione scolastica di togliere il crocifisso. Disposizioni regolamentari antiche E’ ovvio che in questo contesto il problema sia stato sollevato e rilanciato da varie parti. Nello specifico, non esistono prese di posizione coerenti dei massimi organi giurisprudenziali. Infatti il consiglio di Stato nel 1988 riteneva ancora valide le disposizioni del 1924 sulla base fondamentale della valutazione del crocifisso come «simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da una specifica confessione religiosa». «La Costituzione repubblicana», continuava il Consiglio di Stato, «pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto all’esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come quello del Crocifisso, per i princìpi che evoca, fa parte del patrimonio storico». Per altro verso, la Corte di Cassazione, di fronte ad una questione parallela suscitata dal ricorso di uno scrutatore contro la presenza del crocifisso nel seggio elettorale, ha argomentato in una direzione diversa, ritenendo tale presenza incompatibile con il nuovo carattere dello Stato, una volta abolito il principio dell’art. 1 dello Statuto albertino. In questo quadro, si segnala lo zelo del ministro Moratti, che nell’ottobre del 2002, ancora con strumenti amministrativi, aveva invitato ad applicare le regole sull’esposizione del crocifisso nelle aule. Anche il giudice aquilano, di fronte a un quadro così controverso, forse avrebbe fatto meglio a sollevare la questione di fronte alla Corte costituzionale, che in via diretta non se n’è mai occupata.
Giovanni Colombo e Guido Formigoni Leggi tutto
Ciò detto, a volte le contingenze nascondono malamente problemi seri, che è facile far finta di aggirare perché si sono presentati male, ma che se irrisolti torneranno ineluttabilmente a tormentare il nostro vissuto civile. E allora, non conviene prendere di petto il problema? Cerchiamo di farlo con un certo ordine.
L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche ha una origine storica lontana, che affonda nella vicenda unitaria italiana. Lo prevedeva anche il regolamento di attuazione della famosa legge Casati, che disciplinava il primo sistema scolastico pubblico del giovane Stato. Del resto, esso era coerente con il messaggio dello Statuto albertino, che collocava la religione cattolica – in modo ovvio dati i tempi – come «sola religione dello Stato», pur «tollerando» gli altri culti. Nella prima epoca fascista, il ministro della Pubblica istruzione Gentile regolò con circolari e decreti questo gesto di benevolenza verso la tradizione cristiana, che doveva essere ricompressa nella grande opera di ricostruzione nazionale del regime. Il successivo Concordato del 1929 diede forma ulteriore a questa integrazione, in quanto la religione vi assumeva il ruolo specifico di «fondamento e coronamento dell’istruzione scolastica», pur senza parlare specificamente della questione. Giuridicamente, quindi, nessuna base legislativa, ma piuttosto una serie di elementi regolamentari fondano questa prassi.
In epoca successiva, questo quadro è stato profondamente modificato con la Costituzione italiana del 1948, in cui vige un principio di laicità dello Stato (più volte ribadito e chiarito dalla Corte Costituzionale) e poi dalla revisione del Concordato del 1984, che ha fato scomparire il principio di una «religione di Stato», per entrare nell’ambito della definitiva indipendenza di Chiesa e Stato, che pure si trovano a collaborare tra loro per la promozione dell’uomo.
L’insuperabile laicità dello Stato
Qui sta già un punto cruciale. Di per sé il principio della laicità dello Stato è chiaro: anche se interpretato in modo articolato, senza arrivare ai rigori «repubblicani» e tendenzialmente sospettosi verso la religione della tradizione francese, implica l’assenza di vincoli di subordinazione di ogni atto pubblico verso una qualche religione, anche e soprattutto se concretamente la religione di maggioranza nel paese. Lo Stato può imporre la presenza nei locali pubblici dei simboli dell’identità nazionale italiana; può imporre la presenza della bandiera tricolore (magari assieme a quella europea) o del ritratto del Presidente della Repubblica che «rappresenta – come la Costituzione stabilisce – l’unità nazionale». Infatti una volta era parte integrante dell’arredo scolastico il ritratto del re. Ma non può imporre la presenza di un simbolo religioso, senza contraddire la sua laicità. Può accettarne la presenza, quando essa esprima un sentimento condiviso o quanto meno rispettato anche dal non credente. Vige in questo caso la regola dell’unanimità: se qualcuno si oppone, lo si toglie. E quindi non pare sensato procedere nella normazione di casi di questo tipo, se non in un orizzonte molto ampio: ad esempio sarebbe utile una legge-quadro generale che preveda norma flessibili su ogni esposizione di simboli e immagini religiose – di qualsiasi provenienza – nelle scuole o in altri luoghi e momenti pubblici. Per poi affidare la sua applicazione non tanto ai prefetti e alle imposizioni, ma al civile confronto delle comunità specifiche: del resto non è chiara la norma sull’autonomia scolastica, che attribuisce alla scuola il profilo primario di scuola di una comunità concreta, e quindi non di una scuola di Stato da governare centralisticamente?
Una questione d’identità culturale
Dall’altra parte, coloro che senza derogare a questo principio della laicità difendono la presenza del crocifisso, lo fanno – in modo più o meno chiaro ed esplicito – trasfigurandolo in qualcosa di molto diverso rispetto alle sue origini. «Il crocifisso – ha spiegato, ad esempio l’ex presidente della Corte costituzionale Casavola – appartiene ad un canale di comunicazione altamente simbolico che travalica il suo significato prettamente religioso al punto che può essere considerato anche un simbolo di civiltà. Se noi dessimo al crocifisso solo il valore che gli attribuisce la confessione religiosa allora dovremmo tenerlo solo nei luoghi di culto». Difendendo l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, molti ritengono quindi di proteggere se stessi, le proprie abitudini, la propria civiltà, che è civiltà, non dimentichiamolo, dalle radici cristiane (non solo ma soprattutto cristiane): da queste radici l’Europa ha tratto linfa anche per elaborare il concetto di persona e per affermare il principio di tolleranza. «Soltanto una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche» (T. S. Eliot). Si tratta di una scelta identitaria e culturale, che fa della tradizione religiosa una componente rilevante della cosiddetta «identità nazionale». Ora, si tratta di una posizione non sospettabile di integralismo, ma che appare profondamente ambigua nelle sue intenzioni. Da una parte infatti, esclude implicitamente dall’orizzonte «strutturale» della coscienza nazionale i segni di altre religioni. Dall’altra, utilizza la religione con un carattere talmente vago nei suoi contenuti, che può succedere quello che puntualmente è successo: ad esempio che i leghisti – che spendono un giorno sì e l’altro pure parole durissime contro il comportamento concreto dei cristiani in questo paese – si siano appropriati della battaglia identitaria contro l’invasore islamico. Non a caso sono loro ad aver presentato una vera e propria proposta di legge «per disciplinare l’esposizione del crocifisso in tutti gli uffici e le pubbliche amministrazioni della repubblica». Quindi, anche se la nazione in questo caso trascolora da italiana a padana, è sempre un problema di identità nazionale. Come ha recentemente sintetizzato Enzo Pace, del resto, sembra che la nazione italiana abbia difficoltà a fare a meno del cristianesimo, anche se poi si comporta in modo francamente autonomo dalle sue norme: «Extra ecclesia nulla natio, dunque, ma ognuno si salvi come può» («Il Mulino», 5/2003).
«…attirerò tutti a me»
E qui compare l’altro decisivo risvolto del problema: quello della coscienza cristiana. Anche su questo punto non è dubbia l’impostazione di fondo. La trasmissione del Vangelo non avviene per imposizione e il rispetto dell’altro appartiene, prima che al politically correct, al mistero stesso di Dio. I cristiani ormai sanno che il pluralismo religioso dell’Europa di oggi e di domani non è una provvisoria sfortuna da cui pregare di essere liberati, ma la condizione concreta entro cui dar ragione della propria speranza. Sanno che non possono confidare troppo sulla persistenza sociale dei simboli e delle pratiche della loro tradizione religiosa, ma che devono riconoscere la loro minoritarietà radicale e affidarsi sempre più a un nuovo e convinto annuncio della fede attraverso l’incontro e la condivisione con gli altri. Sanno, insomma, che alla spada sguainata da Pietro, Gesù preferì il cammino verso la Croce, verso lo svuotamento della sua vita per la vita di tutti. Qui sta l’universalità del crocifisso, ma sta anche il suo linguaggio tutt’affatto diverso da qualsiasi manifestazione d’onnipotenza. Tanto che è arrivato addirittura allo scandalo per la ragione comune di accettare la morte di un volgare malfattore, per poter stare vicino all’ultimo di tutti i figli della razza umana. Tanto che i primi cristiani stessi dovettero elaborare a lungo il segno della Croce prima di farne orgoglioso vessillo. Come ridurre tutto ciò a simbolo di «una cultura», o di «una tradizione nazionale»? O anche di generici valori di umanità? Troppo universale appello divino: il Cristo crocifisso «attirerà tutti a sé» ma seguendo i cammini impervi della nuda offerta di sé. Troppo complesso e profondo mistero di fede per chi vuol capire e di interrogazione continua per chi è scettico, eppure ricerca. Voler di nuovo rendere obbligatorio, burocraticamente imposto, routinario aspetto di identità, ciò che è il segno radicale della discontinuità di Dio, della sua gratuità, delle braccia spalancate verso tutti, sarebbe profondamente anti-evangelico. La Croce non va dunque imposta sul muro delle classi e degli edifici pubblici, e si può anche togliere senza tragedie laddove la tradizione ce l’ha consegnata, per aprire un nuovo discorso di dialogo con altre fedi e altre persone. In ogni caso, rimane simbolo eterno di libertà fraterna, così eloquente da accogliere il bisogno di misericordia di chiunque. Anche di chi non la riconosca.
L’inutile riforma delle pensioni
Rosario Iaccarino intervista Gianni Geroldi
I partiti politici, l’Ulivo e i cattolici democratici
Giorgio Campanini
Focus: Conflitto d’interessi, pluralismo dell’informazione e legge Gasparri
Il diritto a un’informazione ampia e pluralista
Enzo Balboni
L’imperativo dell’antitrust e la normativa europea I dilemmi di una legge e la «stabilizzazione» del «duopolio collusivo» E’ una legge molto strana. Mi viene in mente una frase del cancelliere Bismarck: «Chi ama le salsicce e apprezza le leggi è bene che non sappia né da chi, né come sono fatte». Qui la sensazione che qualcun altro e non chi ha dato il nome alla legge l’abbia fatta è più che evidente ma anche questo è un fatto di provincia mentre io vorrei riportarvi al libro di Zaccaria che è un libro multidisciplinare e va letto perché questi sono problemi di grande democrazia ma che esigono anche un approfondimento tecnico che è abbastanza importante. La tecnologia digitale che deve arrivare dovrebbe cambiare tutto e su questo la legge in realtà sembra una legge che, come ha fatto la Mammì, non fa nient’altro che fotografare da un lato e in qualche modo definitivamente incastrare dall’altro il famoso duopolio collusivo. Il duopolio è sempre collusivo e non c’è quindi dubbio che la televisione italiana vissuta sempre in una situazione di duopolio, non solo ha impedito alcuni fatti che riguardano il diritto della democrazia all’informazione ma anche violato tutti i principi fondamentali delle legislazioni anti-trust non solo italiana, ma comunitaria. Una pentola senza coperchio? Il ruolo auspicato dell’Unione europea Il problema è che alla luce delle suddette considerazioni l’autorità ritiene auspicabile al fine di assicurare un corretto funzionamento del mercato televisivo che sia riconsiderato il limite alla raccolta di risorse con particolare riguardo alla definizione dell’ambito di attività economica di riferimento, che siano rivisti i criteri di assegnazione delle licenze e delle risorse frequenziali, che sia prevista la definizione di una soglia che si applichi agli operatori di rete e non ai fornitori nonché la possibilità di acquisire anche per i nuovi entranti rami di azienda, ai fini delle trasmissioni tecnica digitale, cosa che invece è impedita da un articolo che è inserito nella legge Gasparri.
Guido Rossi Leggi tutto
La cosa strana di questa legge è che ha già avuto due segnalazione da parte delle autorità anti-trust, una del 20 dicembre 2002 e l’altra del 10 settembre 2003, quindi di pochi giorni fa, e la conclusione dell’autorità anti-trust vi turba perché dice: «Dal punto di vista istituzionale il progetto di legge incrina la validità generale di consolidati principi comunitari e nazionali in un settore, quello televisivo, vitale per la vita democratica del paese». Sono le parole dell’autorità anti-trust a commento di questa legge che si sommano alle dichiarazioni fatte dal presidente della Repubblica, di cui ce n’è una da aggiungere a quelle già lette da Balboni e che dice: «la situazione di fatto attuale non garantisce affatto il pluralismo». Il pluralismo non è garantito, il duopolio con questa legge diventa stabile, lo scarso livello concorrenziale sul mercato televisivo fa sì che il mercato sia concentrato, poco dinamico e anche a basso grado di innovazione rispetto a quello di tutti gli altri paesi.
La riforma doveva servire a rompere il duopolio e a far entrare nuovi soggetti ma le barriere all’entrata sono assolutamente bestiali. Come fa un nuovo imprenditore, anche con possibilità finanziarie, a entrare in concorrenza con i giganti del duopolio? La Corte costituzionale ha detto più volte che il duopolio era assolutamente da rivedere e ha posto anche il termine del 31 dicembre 2003 per modificarlo ed ecco allora la finta della Legge Gasparri che dovrebbe rompere il duopolio cosa che invece non fa perché anzi lo rende stabile ma in qualche modo dovrebbe essere una legge che va incontro alle esigenza della Corte costituzionale di arrivare entro il termine fissato.
Il fatto estremamente importante – e dovrò tagliare tutto quello che si potrebbe dire sul fatto che questa legge sia contraria ai principi fondamentali che riguardano sia il pluralismo che la legislazione antitrust – è che tutte le direttive comunitarie, soprattutto quelle che hanno trovato la loro espressione nel 2002 hanno paragonato il pluralismo dell’informazione e l’hanno assimilato alla necessità di avere concorrenza sul mercato televisivo.
Secondo la legislazione comunitaria pluralismo significa rispetto della concorrenza nel mercato televisivo, quindi ha trasferito in qualche modo i principi e le metodologie antitrust nell’ambito della regolamentazione dell’informazione. Io qui non toccherò l’argomento delle frequenze che è troppo complicato, perché l’art. 23 sotto questo aspetto è veramente terribile a conferma che con la legge Gasparri si vuole in realtà non cambiare nulla. Le frequenze infatti, e tutti i diritti che derivano dalle possibilità di licenza, in realtà saranno destinate solo ai due duopolisti.
Ma quello che qui è più importante sottolineare è che diventa essenziale per questa legge l’esatta definizione dei cosiddetti mercati rilevanti perché ci sono dei limiti nel pluralismo e nella legislazione anti-trust che impediscono la costituzione di posizioni dominanti. Qui è venuta fuori la storia del tetto del 20% anziché del 30% nella raccolta del fatturato per non sfondare il limite e quindi entrare nella zona pericolosa e vietata della posizione dominante, ma in compenso si è allargato il paniere. Questo è il punto più importante cioè il Sistema integrato delle comunicazioni detto Sic e ormai di questo Sic ne parla l’autorità garante della concorrenza dicendo: «Il d.d.l. come risulta dalle modifiche apportate dal Senato della Repubblica prevede infatti come limite per evitare la costituzione di posizioni dominanti il tetto del 20% alla raccolta del così detto sistema integrato delle comunicazione. Tale settore come risulta dalla definizione fornita dall’art. 2 comprende tutte le attività svolte da imprese che oprano nei seguenti settori: produzione e distribuzione radiotelevisiva – e questo doveva essere certamente la definizione del mercato rilevante per stabilire se qualcuno era o no in posizione dominante e invece a questo si aggiunge – qualunque sia la forma tecnica analogica o via satellitare o digitale terrestre, editoria quotidiana, periodica, libraria, elettronica anche per tramite di internet, produzione e distribuzione cinematografica, industria fonografica, raccolta pubblicitaria quale ne sia il mezzo e le modalità di diffusione». Fanno dunque parte di tale aggregato prodotti e servizi di natura alquanto diversa quali le sponsorizzazioni televisive e la vendita di prodotti musicali ma anche la commercializzazione di prodotti editoriali e la raccolta pubblicitaria sull’annuaristica telefonica. Quale è qui il problema che diventa assolutamente fondamentale? Il fatto è che quando si parla di mercato rilevante ai fini di determinare se c’è un abuso di posizione dominante, se per esempio si parla di automobili Ford, la Ford ha una posizione dominante, ma ci può essere un mercato più allargato che è quello delle automobili americane e allora la Ford non è più in posizione dominante. Se poi rilevante diventa il mercato di chi vende automobili negli Stati Uniti, basta avere più del 20 % e hai una posizione dominante. Ma si può andare al mercato degli autoveicoli in generale: se estendiamo (come ha fatto questo articolo della legge Gasparri) il paniere ancora più in là, le automobili sono un mezzo di trasporto e allora mettendoci anche i treni, le navi e così via il limite del 20% di possesso delle reti televisive è un limite assolutamente irraggiungibile sia per la Rai che per Mediaset.
Allora tra le barriere alle entrate e questo paniere che comprende tutto, la legge Gasparri è una legge che non fa nulla per cambiare la posizione dominante del duopolio collusivo attualmente esistente. Se è così, questa legge è assolutamente contraria ai principi fondamentali del diritto anti-trust. L’autorità che riteneva auspicabile che fosse cambiato tutto purtroppo non ha avuto nessun successo. Il disegno di legge nr. 31 del 1984 e le note della autorità garante della concorrenza non hanno avuto alcuna risposta da parte delle commissioni parlamentari e da parte dei due relatori.
Ma arrivo a fare una dichiarazione dirompente, perché molto spesso – come si dice – il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. In questo caso, essendo il conflitto di interesse un fatto provinciale, il coperchio è l’Europa. Io credo veramente che le soluzioni per la democrazia italiana vengano molto dall’Europa perché l’articolo fondamentale – cioè l’art. 15 comma 2 del Sic – contrasta completamente con i principi anti-trust del diritto comunitario e si dovrà quindi vedere se essendo così in contrasto vi sono delle possibilità di applicazione o di non applicazione o di disapplicazione della legge Gasparri. Per fortuna il 9 settembre 2003 la Corte di Giustizia ha emanato una sentenza riguardante il Consorzio Industrie Fiammiferi – ed è una sentenza che per gli estensori della legge deve essere abbastanza inquietante – riguardante una precedente decisione dell’autorità garante della concorrenza del mercato. Questa sentenza fissa un principio generale, dicendo: «La Corte di giustizia ha reiteratamente statuito che gli art. 81 e 82 del trattato – che sono quelli che riguardano l’abuso di posizione dominante e le intese, sono cioè quelli che riguardano i principi comunitari della concorrenza – letti congiuntamente all’art. 10 – che è un articolo importantissimo nel trattato che istituisce la Comunità europea, perché dice che gli Stati membri si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato – fanno obbligo agli Stati membri di non adottare o non mantenere in vigore provvedimenti anche aventi carattere di legge o di regolamento idonei a rendere inefficaci le norme di concorrenza da applicarsi alle imprese. La normativa nella misura in cui non lascia spazio alcuno alle imprese produttrici di fiammiferi ha offerto una copertura legale a comportamenti altrimenti vietati».
La Gasparri, quindi, offre una copertura legale a comportamenti vietati richiamati dalla legislazione comunitaria che fa parte dell’ordinamento italiano. La Corte continua: «Il primato del diritto comunitario esige che sia disapplicata qualsiasi disposizione della legislazione nazionale in contrasto con una norma comunitaria indipendentemente dal fatto che sai anteriore o posteriore a quest’ultima. Tale obbligo di disapplicare una normativa in contrasto con il diritto comunitario incombe non solo al giudice nazionale ma anche a tutti gli organi dello Stato, comprese le autorità amministrative, il che implica ove necessario l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la piena efficacia del diritto comunitario».
Il problema qui è che anche l’autorità garante della concorrenza, con questa apertura operata dalla Corte di giustizia europea, ha la possibilità di superare lo schermo della copertura normativa della Gasparri. Può quindi succedere che in applicazione della legge Gasparri, se sarà promulgata, l’ombrello normativo non serva più e quindi anche comportamenti minimali da parte dei duopolisti – qui vanno insieme Rai e Mediaset – possono indurre a far saltare la legge da parte dell’autorità. Il mercato rilevante è infatti quello radiotelevisivo e quindi ad esempio nei contratti di pubblicità, il duopolio già raggiunge il 95%: un caso minimo può far saltare la legge Gasparri così come l’assegnazione o il trasferimento di titoli concessori è già stato considerato dalla Corte di Giustizia come un fatto concentrativo e si può quindi vietare di applicare la legge Gasparri.
Io credo che per i giuristi italiani sarà un buon lavoro non far applicare questa legge.
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Indice dell’annata 2003
