Appunti 3_2003

Sommario

Molti vizi, poche virtù. La nuova riforma del mercato del lavoro italiano
Rosario Iaccarino

Ricordo di Aldo Moro
Leopoldo Elia 

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Dopo due interventi così intensi, quello del presidente Casini e, su altro piano, quello del presidente Vassalli, il mio contributo rischia di disperdersi nella molteplicità delle scelte politiche alle quali Aldo Moro ha partecipato in modo decisivo per circa trentadue anni. Mi concentrerò dunque su alcune ipotesi interpretative che potranno essere corrette in una biografia scritta da uno storico di qualità, con un lavoro che si presenta già da ora di grande impegno.
Prima vorrei però dire che ho vissuto in silenziosa sofferenza i «cinquantacinque giorni» della prigionia di Moro, trascorsi mentre prendevo parte al processo Lockheed nella Corte costituzionale integrata. Spero anch’io che possano diradarsi le zone d’ombra che gravano fin qui su alcuni aspetti di quella atroce vicenda, impedendo sia l’uso strumentale di ricostruzioni azzardate sia l’appiattimento sulla negazione di ogni oscurità da parte degli esponenti delle Brigate rosse e di qualche altra fonte.
Aggiungo poi che, dinanzi a censure allora dirette contro il comportamento del prigioniero, perché avrebbe incarnato il carattere del cattolico, dotato di scarso senso dello Stato, familista e privo di rigore, concordo in pieno con quanto ha scritto nobilmente Andrea Riccardi: «Moro resta un uomo di fede durante la sua detenzione; chiede la Bibbia e segue la messa. Rimane un uomo mite che crede nella persuasione attraverso il dialogo con i suoi carcerieri e i politici. La sua flessibilità corrisponde alla sua visione, al senso del valore della vita umana, alla percezione della propria funzione, all’intuizione delle dimensioni del fenomeno brigatista: questo atteggiamento mostra una tenacia coraggiosa, capace anche di rassegnazione».
Quanto alla lezione di Moro statista, può sembrare che l’evidente mutamento del contesto politico di venticinque anni fa la renda davvero inattuale; ma vedremo che non è così e che anzi la sua rimozione danneggia la vita costituzionale del paese.

Le radici politiche del Moro costituente

Per comprendere il percorso seguito da Moro bisogna partire dalla sua appartenenza, per circa un trentennio, a quell’anticomunismo democratico che ha avuto il suo massimo esponente in Alcide De Gasperi. Moro stesso, presentando il bel volume di Pietro Scoppola sulla proposta dello statista trentino, sottolineava che senza dubbio De Gasperi fu fortemente anticomunista ma «restando sempre saldamente democratico». Questa constatazione, che vale per La Malfa, Saragat ed altri esponenti democratico-cristiani e laici, ridimensiona quelle definizioni militarizzanti (in chiave conflittuale schmittiana di hostis contrapposto all’amicus), talvolta evocate a proposito dell’anticomunismo seguito alla svolta della primavera 1947. Si ricordi che allora l’inventore della strategia del containment, George Kennan, suggeriva la messa fuori legge del Partito comunista italiano prima delle elezioni politiche del ’48. Invece non ci fu in Italia una democrazia «protetta» nel senso dell’esperienza assai diversa vissuta nella Germania Federale, ma soltanto una convenzione ad escludere forze politiche di sinistra (e di destra eversiva) dall’area di governo, distinguendosi circuito rappresentativo parlamentare dall’ambito della maggioranza governativa. Ma né De Gasperi e nemmeno Moro erano dei demiurghi: in tanto si era potuto non escludere quei partiti dal sistema e procedere poi a successive inclusioni, in quanto De Gasperi costruì nella lotta (uso le parole stesse di Moro) «un partito di libertà, popolare, mosso da ideali cristiani, di vasta rappresentanza sociale, in continuità feconda tra diverse generazioni e diverse esperienze culturali e politiche, costituendo un prezioso punto di incontro tra molteplici forze, necessità e spinte del Paese».
Ma questo assetto, protraendosi nei confronti del Psi per quasi due legislature, prima della crisi del centrismo, in tanto era possibile, in quanto faceva riferimento ad una costituzione profondamente liberaldemocratica. Moro, che come membro della prima Sottocommissione «dei Settantacinque», aveva partecipato con contributi molto significativi al decisivo confronto tra Dossetti e Togliatti sui principi fondamentalissimi della Costituzione repubblicana, intervenne poi in Assemblea nella discussione generale sul progetto di nuova Costituzione. Il suo discorso del 13 marzo 1947, pronunciato in rappresentanza del gruppo parlamentare democristiano, si presenta come una proposta di interpretazione della futura Carta, concepita innanzitutto come una formula di convivenza dell’intera comunità nazionale, basata su una idea condivisa dell’uomo, come una casa comune, in netta contrapposizione all’idea fascista di Stato, espressa nelle pagine di Giovanni Gentile, che respingeva come veteroliberale la concezione stessa della «casa di tutti». Si noti che, pur avendo fatto parte del gruppo dossettiano, Moro non vede nella Costituzione, almeno in posizione primaria, quel programma di riforme di strutture, che secondo Dossetti e Mortati avrebbero dovuto essere tradotte in leggi nella prima legislatura repubblicana. Il fondamento ideale della nuova Carta non si risolveva peraltro né in una ideologia di parte, né nel risultato di un patteggiamento ma piuttosto in una «felice convergenza di posizioni».
Ciò valeva soprattutto per i primi tre articoli del nuovo testo costituzionale (i pilastri della democrazia in senso politico, in senso sociale ed in senso che potremmo anche noi chiamare largamente umano). L’ispirazione liberal-democratica si fa valere anche nelle norme della Costituzione economica: se veramente essa fosse contaminata da influenze della Costituzione staliniana del 1936, come avrebbe potuto ricevere il voto favorevole del liberal-liberista Luigi Einaudi?

La stagione del centro-sinistra

Nella fase dell’anticomunismo democratico rientra anche la realizzazione della coalizione di centro-sinistra sostituita a quella centrista. Moro riuscì a conferire realtà ad un disegno che Fanfani e Gronchi avevano pensato con impostazioni diverse. Moro preferì la via più lunga ma più sicura dell’accostamento progressivo tra i partiti, evitando una frana a destra dell’elettorato moderato, anche se la nazionalizzazione dell’energia elettrica non poteva non provocare una notevole perdita di voti per la Dc, a vantaggio del Partito liberale. L’approdo del centro sinistra fece seguito ad una preparazione molto travagliata, in cui l’allora segretario della Democrazia cristiana riuscì a superare forti resistenze, mostrando capacità persuasive in grado elevatissimo nei contatti con Giovanni XXIII e con i fiduciari del presidente Kennedy.
A questo proposito si deve valutare un aspetto caratteristico della personalità di Moro: egli rifiutava di essere definito l’ideologo della Democrazia cristiana, ritenendo riduttiva, con una certa dose di orgoglio intellettuale, tale definizione. In effetti egli non soltanto concepiva disegni di nuovi schieramenti, ma realizzava le nuove formule di coalizione facendole passare nella composizione effettiva delle maggioranze e dei governi: ciò avveniva anche, com’è proprio di un politico di grande levatura, rischiando. Così, verificata la possibilità di collaborazione governativa col Partito socialista guidato da Nenni, Moro non considerava dirimente la collaborazione tra Psi e Pci in alcune amministrazioni locali o in sede sindacale. E già nell’inverno 1961 si era affrettato a convocare, dandone egli stesso l’annuncio televisivo, l’ottavo Congresso nazionale della Dc che avrebbe dato il via libera all’accordo con i socialisti, pur non essendo ancora sicuro (come dimostrerà la famosa notte di S. Gregorio nel giugno 1963) l’accordo per il governo organico di centro-sinistra.
Sull’opera di Moro come leader dell’esecutivo prevalgono i giudizi critici per il divario tra i programmi annunciati e le riforme approvate dal parlamento nella quarta legislatura. E senza dubbio erano deluse, specie dopo la crisi dell’estate del ’64, le grandi aspettative del Partito socialista anche in confronto ai successi conseguiti dal governo di centrosinistra inorganico, presieduto dall’on. Fanfani (oltre alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, già citata, veniva in rilievo la riforma della scuola media unica, proposta dal ministro Gui). Lo stesso Moro in una intervista all’Espresso del 15 aprile 1973 riconosceva i limiti e i ritardi dell’attività dei suoi governi tra il dicembre ’63 e le elezioni politiche del ’68, ritardi che probabilmente avrebbe ricuperato nella V legislatura se fosse potuto rimanere anche in questa alla guida del governo. I giudizi negativi si spiegano anche con la considerazione che le delusioni del Partito socialista avevano contribuito a consolidare l’egemonia del Partito comunista nell’area di sinistra, specie dopo l’esito negativo per i socialisti riunificati nelle elezioni del 1968. Tuttavia, ad un esame appena più ravvicinato, le difficoltà incontrate in politica economica dal primo governo organico di centro-sinistra appaiono di notevole peso: il sussulto salariale del 1962 e la situazione di surriscaldamento dell’economia determinatosi già nell’ultimo periodo del governo precedente avevano indotto il ministro del tesoro Colombo e il governatore della Banca d’Italia Carli a proporre una stretta creditizia di forte intensità, che avrebbe provocato a breve termine una fase recessiva e la difficoltà di procedere ad altre riforme. Anche Ugo La Malfa, allora presidente della commissione Bilancio della Camera, in una lettera dell’inizio 1964 al presidente Moro, giudicava che il deterioramento della situazione economica era talmente grave da richiedere una stabilizzazione prima di azzardarsi a mettere in campo nuovi programmi.
Ma già nel 1984 e poi nel 1986 (con una «dolorosa autobiografia») Nino Andreatta, non sospetto di acritico consenso alle proposte del ministro Colombo, aveva definito «esemplare» la manovra di stabilizzazione economica, protrattasi per sette-otto mesi e tale da assicurare all’Italia, nel decennio dal ’60 al ’70, stroncando l’inflazione, uno sviluppo che fu il più alto dopo quello del Giappone tra i paesi industriali. D’altra parte nella recente commemorazione di Guido Carli (per il decennale dalla sua morte), Piero Barucci ha ricordato che il governatore aveva per Moro una grande ammirazione, quasi alla pari di quella nutrita per De Gasperi. E credo che ormai si possano dare per pacifiche due conclusioni: Moro, nella scelta a favore della linea Colombo-Carli, agì in piena autonomia e non fu certo l’ostaggio di un condominio doroteo; la sua condotta, ispirata ai criteri di responsabilità cari ad Einaudi e a Vanoni, fu coerente fino all’ultimo, quando, alla vigilia delle elezioni del 1968, rifiutò un aumento delle pensioni che non trovava copertura nelle condizioni della finanza pubblica di allora (ancora più grave sarà la situazione economica quando Moro ritornerà alla presidenza del Consiglio nel dicembre 1974). Non mancarono però alcune riforme importanti come la legge del 10 maggio 1966, che introduceva la giusta causa per i licenziamenti individuali, anticipando il futuro Statuto dei lavoratori. Inoltre, negli anni del centro sinistra della quarta legislatura, in sinergia con gli orientamenti giurisdizionali prevalenti e con quelli della Corte costituzionale, andò crescendo il favore per un esercizio più intenso e più diffuso dei diritti di libertà e dei diritti sociali. E’ questo un dato rilevantissimo perché coincideva con il vero obbiettivo dell’opera politica di Moro: far entrare le masse degli esclusi, più ancora che i partiti, nel circuito della cittadinanza effettiva, dando compimento alle aspirazioni più alte del nostro Risorgimento. Non è casuale, del resto, che in piena guerra fredda, Moro, ministro della Pubblica istruzione, promuovesse l’educazione civica, basata sulla Costituzione; un’iniziativa purtroppo rimasta in larga misura inattuata.

La transizione alla democrazia compiuta

Una trattazione a parte meriterebbero poi i rilevantissimi risultati conseguiti da Moro come ministro degli esteri, oltreché come presidente del Consiglio: mise fine a tutte le controversie con gli Stati confinanti (Austria e Jugoslavia) superando i timori di impopolarità ancora vivi in altri leaders; determinò il riconoscimento della Cina comunista, malgrado le riserve degli Stati Uniti; condusse una partecipazione autorevole da parte dell’Italia alla Conferenza di Helsinki per la cooperazione e la sicurezza europea; tra l’altro la sua politica coerentemente europeista guadagnò all’Italia la prima designazione alla presidenza della Commissione della Cee, nella persona dell’on. Franco Malfatti. Come testimoniano, tra l’altro, i ricordi di Roberto Gaja e di Roberto Ducci, la sua lealtà nei rapporti con l’alleato statunitense gli consentì non solo di sfuggire al rischio dell’appiattimento servile, ma di assumere iniziative indipendenti, quando fossero ragionevoli, come il rifiuto delle basi italiane per gli aiuti americani ad Israele nella guerra del 1967. Proprio in quell’anno, con una mozione votata nell’ottobre dal centrosinistra alla Camera, si aprì il processo di revisione del Concordato del 1929 (poi concluso nel 1984 dal governo Craxi), da realizzare in rapporto alla «evoluzione dei tempi e allo sviluppo della vita democratica». Fu questa la formula che nel suo intervento Moro, presidente del Consiglio, riprese dal testo della mozione Zaccagnini-Ferri-La Malfa, su cui poi pose la questione di fiducia. Come ha scritto Guido Formigoni, nella politica estera del suo periodo Moro fu il leader democristiano più capace di collegare approfonditamente strategia e tattica, dimensione interna e dimensione internazionale, nella evoluzione del sistema politico.
Ma, tornando al rapporto con il Psi, è certo che a Moro non interessava la transizione al socialismo di Riccardo Lombardi ma la transizione alla democrazia compiuta, rappresentando l’acquisizione del Partito socialista all’area di governo un primo passo su questo difficile cammino. Non poteva non rimanere la delimitazione della maggioranza nei confronti del Partito comunista, ma la convenzione ad escludere riduceva la sua proiezione, consentendo di includere l’elettorato socialista seppur ridotto dalla scissione del Psiup. Carattere di parziale analogia con l’allargamento al centro-sinistra ha avuto poi il disegno che ha condotto nel biennio 1976-78 alla solidarietà nazionale: c’è anche qui la dilatazione dell’area di governo che include una forza politica considerata anti-sistema dal 1948. Ma mentre l’integrazione del Partito socialista manteneva la dialettica a ruoli fissi di maggioranza e opposizione tra centro-sinistra e Partito comunista, l’ingresso del Pci nella maggioranza dava luogo ad una coalizione parlamentare che, con i soli seggi della Dc e del Pci, copriva i due terzi dello spettro politico italiano: in altre parole l’entrata del Pci nell’area maggioritaria sospendeva la presenza stessa di una consistente forza di opposizione dentro e fuori il Parlamento. La novità dell’evento, dopo l’aspra contesa elettorale del 1976, centrata sull’aspirazione al sorpasso del Pci, spiega le perplessità o le contrarietà che si manifestavano nella parte più moderata del partito di maggioranza relativa: ebbene, Moro, in qualità di presidente del Consiglio nazionale Dc, investì una quantità di tempo e di pazienza pressoché infinita per convincere soprattutto i più lontani, in lunghi colloqui nello studio di via Savoia. Il valore dell’unità del partito, da lui sempre tutelato, anche da posizioni di minoranza, e la sensibilità agli equilibri generali del Paese motivavano questo sforzo argomentativo e persuasivo: come pure giustificavano, nei giorni precedenti il suo rapimento, la ferma resistenza a mutamenti nella composizione del governo monocolore che avrebbero accentuato, dinanzi all’opinione pubblica, lo spostamento a sinistra.
Si trattava, dunque, da parte della Democrazia cristiana (come dimostrò il dibattito del febbraio ’78 nei gruppi parlamentari) di una scelta tormentata ma pressoché obbligata – salvo il pericoloso ricorso a nuove elezioni – perché il Psi guidato da Craxi condizionava il suo sostegno al governo monocolore Dc all’inclusione nella maggioranza del Partito comunista, che fin dal 1973 aveva avanzato la proposta del «compromesso storico» (formula mai accettata da Moro per gli equivoci ideologici e politici che essa conteneva). E’ vero che in caso di guerra, o in altre situazioni limite, l’esperienza dei paesi democratici conosce il ricorso ai governi di unità nazionale: nell’Italia del 1978 si giungeva ad una maggioranza di solidarietà nazionale, in una emergenza determinata sia dalla realtà del terrorismo e della crisi economica sia dal diniego socialista ad entrare nello schieramento maggioritario senza il Pci. E’ evidente il carattere emergenziale della soluzione adottata, anche in relazione alla scadenza della intesa raggiunta, coincidente con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica prevista nel dicembre del ’78. Tuttavia, mentre il PCI aveva in animo di protrarre senza prevedibili limiti di tempo la sua permanenza nell’area governativa, tendendo anzi a ristabilire la situazione dei governi tripartiti precedente al maggio 1947, era chiaro che per la maggior parte dei democratico-cristiani una rinnovata disponibilità del Psi a entrare in uno schieramento senza il Pci avrebbe chiuso la fase della solidarietà nazionale (come poi avvenne, per diversi motivi, col concorso dei vertici dei due maggiori partiti). Moro, che non poteva prendere posizioni chiare e definite su questa prospettiva senza compromettere l’esito dell’operazione, creando nuove difficoltà, si limitò a richiamare, nel dibattito davanti ai gruppi parlamentari Dc, i termini temporali dell’accordo, mettendo l’accento sull’emergenza che si voleva fronteggiare. Ma lo stesso Moro aveva sentito il bisogno, il 18 febbraio del 1978 (cioè 28 giorni prima del suo rapimento in via Fani), di manifestare a Eugenio Scalfari alcuni suoi riposti pensieri, non destinati per allora al pubblico, contenuti negli appunti presi da Scalfari nel colloquio e poi pubblicati ne «La Repubblica» del 14 ottobre 1978: senza impegnarsi con precisione sul tempo (parecchio, almeno per tutta la legislatura, cioè fino a tutto il 1981), Moro pensava che dopo un periodo di presenza del Pci, prima nella maggioranza e poi nell’esecutivo (prima e seconda fase), si sarebbe potuti giungere ad una terza fase, quella delle alternanze al governo, perché, secondo lui, la società consociativa proposta nel «compromesso storico» non era un modello accettabile per un Paese come il nostro, inserito nella storia dell’Europa occidentale. Su questa terza prospettiva (quella di Moro e di altri pochi democristiani) si è molto discusso: dopo le acute considerazioni di Roberto Ruffilli e di Pietro Scoppola sulla terza fase, si possono certo sottolineare tratti di incertezza e di aleatorietà (euromissili?), ma rimane fermo che anche per Moro, a differenza di Berlinguer, l’accordo con i comunisti aveva un carattere transitorio e tuttavia la transitorietà, secondo il leader democristiano, non doveva metter capo ad un ritorno allo status quo ante (come pensava la maggior parte dei democristiani) ma alla democrazia compiuta, in cui, a parità di legittimazione e in condizioni di piena sicurezza democratica, le maggiori forze politiche potessero competere secondo i moduli aperti dei paesi occidentali. Peraltro, in un recentissimo articolo, Piero Craveri precisa che il carattere transitorio dell’accordo col Pci corrispondeva alla formazione stessa di Moro che fu di mentalità cattolico-liberale e cattolico-sociale, come dimostrano altri eventi politici di quegli anni; e in particolare, è sufficiente far riferimento al discorso pronunciato il 9 marzo 1977 alla Camera sul caso Lockheed, a cui taluni, sempre a giudizio di Craveri, hanno guardato con moralismo, ma che è discorso di autentico statista, in cui il primato della Dc è ribadito ed intorno ad esso quest’ultima è chiamata a «far quadrato», perché solo da quella unità era resa possibile una «linea di collaborazione democratica». Quest’ultima vicenda, da valutare nella completezza delle tre ipotesi presenti sulla prospettiva (due dichiarate, una – quella di Moro – allora segreta) dimostra che il filo della democrazia compiuta, partendo dall’anticomunismo democratico, percorre tutta l’azione di Moro dal centro-sinistra alla solidarietà nazionale. In lui la mediazione, mai contrattualistica o di scambio ma sempre di convergenza, è lo strumento per raggiungere, in condizioni di sicurezza per tutte le libertà, l’integrazione di ogni forza politica suscettibile per i suoi comportamenti di essere inclusa a pieno titolo nel sistema costituzionale; integrazione che, a sua volta, doveva condurre dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta. Moro emerge dunque come il grande integratore della storia repubblicana, lo statista, che, come ha scritto Franco De Felice, ha fatto sì che il muro cadesse in Italia con un anticipo di dieci anni sul resto d’Europa.

La sfida della ragione morale

Ha visto giusto Martinazzoli, quando, in dissenso da George Mosse, ha scritto che Moro non mirava ad una integrazione simbolica delle masse nella regola democratico-parlamentare, ma voleva una integrazione effettiva nel circuito democratico. Altrimenti non si compirebbe quel processo di liberazione dell’uomo in un regime di libertà che Moro sente come prioritario negli ordinamenti delle democrazie occidentali; altrimenti lo stato del valore umano non sarebbe veramente rappresentativo della società civile. Così i partiti non adempiono alla loro funzione se non sono tramiti e promotori della tensione all’integrazione reale di quei cittadini a cui si riferisce l’art. 3 della Costituzione a proposito di eguaglianza sostanziale.
Moro, nell’ultimo decennio in cui ha esercitato una vera leadership politica, è profondamente consapevole della crescente inadeguatezza dei partiti di governo e lancia nei loro confronti e specialmente alla Democrazia cristiana, una autentica sfida, quando afferma: «la politica è un fatto di forza, più propriamente di consapevolezza, di fiducia nel proprio compito…ma ci deve pur essere, più in fondo, una ragione, un fondamento ideale, una finalità umana per i quali ci si costituisce in potere e il potere si esercita. E’ solo nella accettazione incondizionata di una ragione morale che si sviluppa con coerenza il patrimonio delle nostre idealità e il complesso degli impegni per il nostro tempo».
Come si noterà, questa sfida è decisamente dilemmatica: se non si ritroverà quella ragione morale, che include l’ispirazione cristiana a lui così cara e la responsabilità etica necessaria, non si eviterà il fallimento del sistema politico. E’ questa la sfida che, insieme all’appello per un nuovo senso del dovere, si ripresenta anche alle generazioni future. Ma la profondità del pensiero si accompagna in Moro ad una straordinaria capacità di analisi delle situazioni più diverse: ricorderò a modello la polemica con l’on. Malagodi nel Consiglio nazionale del maggio 1960 a palazzo Rospigliosi o il dialogo con Ingrao durante la discussione sulla fiducia al suo terzo governo nel marzo 1966. Sono, oltretutto, lezioni di civiltà politica; tanto più valide in un tempo nel quale non si è passati dal fioretto alla sciabola ma si è tornati ad usare la clava.
E i cleavages (spaccature, fenditure, nel senso originale del termine) non sono finiti nemmeno dopo il 1989. Le lacerazioni non si sono certo esaurite con quelle relative alla convenzione ad escludere del secolo scorso: se ne sono prodotte di nuove, che minacciano la nostra democrazia bipolare. In particolare non riusciamo a diffondere un convincimento condiviso a proposito del costituzionalismo: e cioè del modello secondo cui devono essere interpretati alcuni principi fondamentali della nostra costituzione, e in primo luogo il principio democratico.
L’esempio di Moro (e della sua mentalità antigiacobina) ci invita ad esercitare tutta la nostra capacità integrativa in direzione del modello a suo tempo espresso nel Federalist da James Madison, secondo il quale, come ci ha ricordato di recente Maurizio Fioravanti, la forma repubblicana impedisce di enfatizzare, di sovradeterminare alcun potere e perciò nemmeno quello dei rappresentanti del popolo: la repubblica, anche nel nostro ordinamento, non può sopportare un potere dominante, anche se espresso dal popolo sovrano, e si comporrà sempre di più di una pluralità di poteri, tutti limitati, di pari valore e dignità costituzionale. E’ una formula dove il repubblicano sta per liberale, connotando, con la divisione dei poteri di tipo vecchio e nuovo, l’essenza liberal-democratica del nostro modello costituzionale.
Durante il suo discorso di insediamento il Presidente Pertini affermò che al suo posto avrebbe dovuto trovarsi Aldo Moro; in realtà Moro, facendosi carico degli equilibri dell’intero sistema politico-istituzionale, aveva esercitato di fatto, e per un lungo periodo, la funzione più alta di un presidente repubblicano.

Un problema serio, un referendum sbagliato
Città dell’uomo

È urgente scegliere il leader dell’Ulivo
Maximiliano Lorenzi

Focus: Speranza Europa, disperazione Europa

La sfida dell’Europa unita
Beppe Tognon intervista Romano Prodi

La convenzione costituzionale e l’avvenire dell’Europa
Mario Sepi

L’allargamento dell’Unione europea
Enrico Letta

Oltre l’euro: la strada stretta verso la sovranità politica
Vladimiro Giacchè 

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Recentemente il politologo americano Joseph Nye ha così descritto l’Unione europea: «L’Unione non è un nuovo Stato nazionale con un esercito potente. Gli Europei non sono imbarcati nella stessa barca dal punto di vista della sovranità, ma le barche nazionali sono legate le une alle altre in un’isola di stabilità, unica nel suo genere, dotata di una notevole forza di attrazione nei confronti degli stati confinanti» . Sull’unicità dell’esperimento europeo insistono anche altri osservatori: «per la prima volta nella storia siamo testimoni della nascita di un “impero” basato sul consenso e sul comune sentire anziché sulla forza e sulla conquista militare»; «attraverso interessi economici comuni, l’educazione e continui negoziati, gli Europei si sono creati un nuovo mondo» .

L’euro: un successo politico, economico e finanziario

L’assoluta peculiarità dell’esperimento rappresentato dall’Unione Europea consiste in questo: nell’aver creato una «comunità di destini» a partire dalla condivisione di interessi economici, anziché attraverso la costruzione di una nuova entità statuale. Questa particolarità dell’integrazione europea ha avuto la sua manifestazione più eclatante nella moneta unica. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l’adozione della moneta unica rappresenta un’inversione rispetto alle forme classiche di integrazione monetaria: l’euro, infatti, non è l’espressione di una entità statuale, ma precede l’integrazione politica; non rappresenta il risultato di un’escogitazione di politica macroeconomica, ma nasce da un processo di effettiva integrazione economica sviluppatosi per decenni.
Come valutare il (provvisorio) punto di arrivo di questo processo? L’economista Robert A. Mundell, premio Nobel per l’economia nel 1999, non ha dubbi: «l’euro è stato un successo eccezionale. Ritengo di poter dire che si tratta del miglior lancio di una valuta in tutta la storia delle monete su scala mondiale» . Mundell ha ragione: è sempre maggiore il volume degli strumenti finanziari denominati in euro e delle transazioni commerciali effettuate in questa valuta; aumenta il peso relativo delle riserve in euro detenute dalla banche centrali di tutto il mondo; cresce il numero dei paesi che adottano l’euro nel regime di cambio o come valuta di riferimento. Tutto questo contribuisce all’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e fa sì che sempre maggiori capitali siano attratti verso la zona euro, sia nella forma di investimenti diretti che di investimenti puramente finanziari.
Le conseguenze più importanti del «successo» dell’euro sono di tre ordini. La prima è di carattere simbolico. La moneta unica esprime in modo emblematico il superamento delle antiche rivalità nazionali infraeuropee e l’orizzonte di pace che i Paesi dell’Unione Europea sono riusciti a darsi in questi decenni. Non a caso, la definitiva introduzione dell’euro è stata salutata dal più autorevole quotidiano tedesco con questo titolo ad effetto: Soldati pagati con la stessa moneta non si sparano tra di loro . La seconda conseguenza riguarda il rapporto tra valute a livello internazionale. Se le cose continueranno così, si giungerà entro pochi anni ad un sistema valutario mondiale imperniato su due valute (dollaro ed euro), con una terza (lo yen) molto staccata per importanza. Questo significa che il dollaro cesserà di essere l’unica valuta internazionale di riserva, perdendo così i privilegi economici connessi a tale status (primo tra tutti il fatto di potersi permettere un deficit delle partite correnti ormai quasi trentennale). La terza conseguenza riguarda l’integrazione economica in Europa. La moneta unica è ad un tempo effetto e causa del processo di integrazione economica. Nel senso che da un lato una moneta unica è possibile solo sulla base di un mercato comune già in parte esistente e di regole monetarie condivise dai diversi Paesi. Dall’altro, è la moneta unica stessa a creare l’esigenza di un’ulteriore integrazione economica.
Qui, però, finiscono le certezze e cominciano gli interrogativi. In effetti, come sostiene Giacomo Vaciago, «il successo dell’euro dipenderà dalla qualità del processo di integrazione che la moneta comune dovrebbe promuovere. Da questo punto di vista, vi è ancora il pericolo che al successo tecnico fin qui verificato (…) non si accompagni affatto un equivalente successo politico». Perché, se è corretto affermare che «nei prossimi anni, il successo dell’euro sarà misurato in termini di differenziali di crescita tra i paesi che appartengono alla zona-euro e gli altri» , bisogna dire che la situazione attuale, con i principali Paesi di Eurolandia sull’orlo della recessione, è tutt’altro che incoraggiante.

Organizzare le infrastrutture per la sfida della crescita

Come si vince, quindi, la sfida della crescita? Mi limiterò ad accennare al tema, cruciale, delle priorità infrastrutturali. Le infrastrutture che oggi servono all’integrazione ed alla crescita europee sono di tre tipi: fisiche, giuridiche e finanziarie. Cominciamo dalle «infrastrutture finanziarie». Nonostante il «successo tecnico» dell’euro, la sovranità finanziaria dell’euro è allo stato tutt’altro che fuori discussione: per quanto riguarda il mondo della finanza, la zona euro è tuttora sotto il predominio dei mercati finanziari statunitensi. Questo non deriva affatto da un minore volume di strumenti finanziari trattati nella zona euro rispetto agli Stati Uniti ma dalla minore integrazione dei mercati. Occorre creare un unico mercato finanziario europeo. I problemi però non mancano: persistenza di atteggiamenti protezionistici delle autorità nazionali nel campo dei servizi finanziari, marcate distanze tra le normative nazionali, assenza di un’autorità europea di supervisione finanziaria, e – last but not least – politiche fiscali disomogenee da Stato a Stato.
Tutto questo ci conduce alle «infrastrutture giuridiche e regolamentari», ossia alle regole comuni necessarie alla piena integrazione dei mercati nazionali. Anche in questo caso i passi da fare sono molti: si pensi alla strada che è ancora da percorrere per pervenire all’integrazione del mercato dell’energia, o all’assenza di una politica europea per la formazione e la ricerca. Quest’ultima, in particolare, gioverebbe grandemente al nostro Paese, il cui sistema formativo è letteralmente allo sfascio e il cui divario in termini di ricerca e sviluppo tecnologico rispetto ai principali concorrenti è drammaticamente crescente .
Infine, le «infrastrutture fisiche». L’integrazione europea ed il completamento del mercato unico passano per un’integrazione delle reti di traffico, di trasporto dell’energia, di telecomunicazione, dei grandi laboratori per la ricerca scientifica e tecnologica. Sono le «reti transeuropee» proposte nel Libro bianco di Jacques Delors più di dieci anni fa. Un rilancio di queste reti è assolutamente necessario – e andrebbe perseguito anche tramite un alleggerimento ad hoc dei rigidi vincoli di bilancio a cui sono assoggettati i Paesi della zona euro .
Si può ritenere che le priorità ora accennate possano essere efficacemente affrontate con l’attuale assetto istituzionale dell’Unione Europea? I meccanismi decisionali oggi previsti sono sufficienti a tale scopo? La risposta è: no. E la prova migliore di questo è proprio la straordinaria lentezza con cui vanno avanti i processi di integrazione, a parole condivisi da tutti i Paesi membri. Dobbiamo quindi prendere atto del fatto che la sfida dell’euro ne ha aperta un’altra. La logica dell’integrazione monetaria conduce ad una più stretta integrazione economica. Ma a sua volta questa, per essere realizzata, richiede una maggiore integrazione politica. Però a questo riguardo la politica dei «piccoli passi» non basta più. Occorre una decisione politica. Che innovi radicalmente i processi decisionali dell’Unione in tre direzioni: generalizzando il voto a maggioranza nel Consiglio, mantenendo alla Commissione europea il ruolo di esecutivo europeo e al tempo stesso estendendo la codecisione del Parlamento europeo. Questi processi debbono essere paralleli. Il Parlamento deve avere un ruolo ben maggiore dell’attuale nei processi decisionali: il «deficit democratico» deve assolutamente essere superato, soprattutto alla luce del fatto che (ormai da anni) la più parte delle decisioni che riguardano i cittadini europei sono assunte a Bruxelles . Non si può sottomettere il ruolo della Commissione alle logiche intergovernative: l’identità della Commissione come «esecutivo europeo» deve essere mantenuta e rafforzata. Infine, il Consiglio formato dai rappresentanti dei governi degli Stati membri deve abbandonare il principio dell’unanimità per quanto riguarda tutte le decisioni più importanti (ad eccezione dell’ammissione di nuovi membri nell’Unione).

I rischi di un Europa divisa

Queste le necessità. Viceversa, proprio in una situazione delicatissima sul piano mondiale, sembra oggi materializzarsi l’incubo di un’Europa dei governi, divisa al suo interno, litigiosa, priva di una voce autonoma ed univoca, e – di conseguenza – ininfluente nelle questioni internazionali. E’ una situazione che può forse rallegrare qualche esponente particolarmente conservatore dell’establishment statunitense ma dovrebbe impensierire i cittadini europei. Come uscire, quindi, dallo stallo? Da cosa ripartire? Da quello che dovrebbe costituire l’essenza stessa delle democrazie moderne: la volontà popolare. A questo proposito proprio la vicenda della guerra all’Irak, rispetto alla quale i governi europei si sono presentati divisi e in ordine sparso, è sommamente istruttiva. In tutta questa vicenda si è infatti prodotto un curioso rovesciamento. La logica della rappresentanza e della mediazione politica, che secondo i suoi teorici nasce per semplificare e per rendere più rapide ed univoche le decisioni assunte rispetto ad una volontà popolare magmatica e complessa, talora indecifrabile, ha prodotto in questo caso il risultato opposto: la babele delle voci, la paralisi politica dell’Unione europea in quanto tale ed una profonda divisione all’interno dell’Unione stessa. Se invece, per assurdo, i popoli dei diversi Paesi europei avessero potuto dare immediata efficacia politica alla propria scelta, si sarebbe avuto un chiaro ed univoco orientamento dell’Unione europea. In tal caso l’Unione avrebbe parlato con una voce sola, chiara e forte.
Questo paradosso mette in luce come pochi altri non soltanto la scarsa democraticità, ma anche l’inefficienza della logica intergovernativa. La logica della mediazione si è mutata nella logica della paralisi. E’ quanto sta accadendo alla Convenzione incaricata di delineare la Costituzione europea. Non è un caso che la grande assente dal dibattito della Convenzione sia stata finora proprio l’opinione pubblica europea: con il rischio di rendere la nascitura Carta Costituzionale di fatto ben più simile alle Carte e agli Statuti benevolmente concessi dai sovrani del Sette e Ottocento che alle Costituzioni novecentesche, nate da tragiche esperienze storiche e da grandi movimenti di massa. Si deve sventare questo rischio, avviando un grande confronto pubblico su scala europea sulle opzioni in campo. Ossia sul futuro della nostra Europa.

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