Appunti 2_2003

Sommario

Una lezione democratica di pace
Fulvio De Giorgi

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Venticinque anni fa – nel maggio 1978 – si compiva l’omicidio di Aldo Moro: forse la pagina più oscura e drammatica della storia della Repubblica Italiana. Ancora adesso, peraltro, sono rimasti non chiariti alcuni fondamentali dubbi sulle modalità precise del sequestro e del delitto, sui coinvolgimenti e gli appoggi di cui godettero i terroristi delle Brigate rosse, sulle possibili implicazioni e connivenze internazionali. Non si tratta certo di alimentare una «cultura del sospetto» o di indulgere in contorte dietrologie, ma sicuramente non è illegittimo parlare di «misteri» del caso Moro. Oggi poi, quando le Brigate Rosse tornano a sparare e ad uccidere, appare inevitabile che l’anniversario della morte di Moro sia un’occasione per riprendere e approfondire il discorso sul terrorismo politico in Italia, sulle sue cause, sulla sua storia, sulle sue matrici ideologiche, sugli effetti dei suoi delitti, sui rischi reali per la democrazia. Tutto questo è non solo necessario sul piano civile e politico, ma appare doveroso sul piano etico.
Tuttavia mi sembra anche giusto che, nel momento della celebrazione e della memoria, si rievochi pure la personalità di Aldo Moro come cristiano, come intellettuale, come politico: egli fu infatti forse la figura più alta espressa dal laicato cattolico italiano impegnato in politica in tutto il secolo XX e il personaggio politico più importante nella storia della Repubblica dal 1946 al 1978. Non si tratta, peraltro, di compiere un’opera di ricostruzione storica per consegnare alla conoscenza un uomo e un pensiero ormai lontani nel tempo e che non hanno più nulla di veramente significativo da dirci: tutt’altro! Proprio per la sua profondità, la sua ricchezza di articolazioni, la sua vastità di orizzonti, la riflessione di Aldo Moro appare oggi di una vera e forte attualità.
Mi pare allora utile richiamare, senza la minima pretesa non solo di esaustività ma neppure di interpretazione storica, alcuni passaggi – diversissimi ma legati da una coerenza profonda ancorché forse sotterranea – del pensiero di Moro.

Le esigenze della pace

Il 15 dicembre 1954 egli scrisse sulla rivista «Rocca» un articolo che meditava sul Natale, ma che era soprattutto una riflessione sul posto che occupa la pace nell’orizzonte vitale del cristiano: sul senso, l’opportunità e l’importanza dell’impegno del cristiano per la pace. Non si trattava cioè della pace che può venire «da noi» uomini: ma della pace di Betlemme che viene «a noi». Osservava pertanto: «Il ricordo dell’Incarnazione, del rinnovato incontro di Dio con l’umanità, costituisce un vivo richiamo all’ideale della pace, al sogno di essa e al problema di come realizzarla nel mondo. Infatti nel racconto evangelico dell’Incarnazione il primo annuncio è di pace e la pace è indicata come il primo frutto della Redenzione ormai in cammino, come il modo essenziale del suo investire l’umanità e di operare in essa. […] Oggi, come ieri e come sempre, se non vogliamo assurdamente restare indifferenti alla presenza redentrice di Dio nel mondo, dobbiamo accettare la pace che viene a noi e realizzarla noi stessi nel suo complesso e penetrante significato: noi stessi, come possiamo, con la nostra intelligenza, con tutta la nostra volontà, con l’impegno di tutto il nostro essere, mediante tutte le nostre esperienze dalla cultura alla politica, dalla religione alla vita sociale». Una concezione – profondamente evangelica – di questo tipo non poteva dirsi integralismo religioso, né politicismo totalizzante, era se mai un totalizzante appello all’accoglienza della pace, un integralismo della pace: come atteggiamento spirituale profondo, come spirito di verità, come capacità di dialogo.
Si capisce allora come in questo stesse per Moro l’essenziale e dunque lo specifico dell’impegno cristiano. Egli infatti scriveva: «La pace di Betlemme, dunque, questa dimensione nuova del nostro essere, è lo strumento che ci è stato dato per adempiere il nostro dovere di ordinare e pacificare la vita e, attraverso la nostra vita individuale, il mondo. Senza questo senso delle cose essenziali, senza questo ancoraggio alla rivelazione della verità incarnata apportatrice di pace, senza impegno dello spirito, senza fede e sofferta conquista morale, senza il raccoglimento di un’intima esperienza, ogni opera di pace è destinata all’insuccesso. Il grande sforzo del cristianesimo, mentre esso in tante forme efficaci partecipa al lavoro multiforme di ordinare e rendere giusto il mondo, il suo contributo originale e perciò insostituibile è proprio qui».
La responsabilità del cristiano nella storia non stava dunque, per Moro, né in fughe velleitarie astratte né nei miopi e ristretti orizzonti conservatori del semplice contenimento del male, ma nella coniugazione di utopia e di paziente operosità quotidiana. Nel 1977, un anno prima della morte, in un articolo su «il Giorno» meditava sulla Pasqua e scriveva: «È un giorno di gioia, perché la salvezza è alla nostra portata. Ma è anche un giorno di preoccupazione, di critica e di ripensamento nel raffronto tra l’enorme possibilità offerta e il ritardo, la limitatezza, la precarietà di ogni conquista umana; tra il bene dell’armonia e della pace, il quale contrassegna la pienezza della vita, e la realtà delle divisioni che separano l’uomo dall’uomo e lacerano il mondo. La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e della speranza. E non parlo naturalmente solo di salvezza e di speranza religiose. Parlo, più in generale, di salvezza e di speranza umane che si dischiudono a tutti coloro che hanno buona volontà».

Una «globalizzazione» etica

Certamente l’orizzonte etico spirituale di Moro, nella proiezione storica e civile delle sue speranze, trovava conforto e sostegno nel magistero di Giovanni XXIII, del Concilio Vaticano II, di Paolo VI, ma anche negli ideali politici del «cattolico e democratico John Kennedy». Ne derivava uno sforzo di leggere i moti profondi della storia mondiale, a partire dagli anni ’60, andando oltre analisi superficiali, di corto respiro, tutte imprigionate nel contingente o, peggio, negli schemi ideologici. Vi era così l’emergere di un pensiero politico alto che forse solo oggi, superati gli scontri della guerra fredda e gli ideologismi contrapposti, può rivelare una sua freschezza inimmaginabile.
Moro guardava a una possibile globalizzazione etica: una globalizzazione della speranza e della carità, che certo era sorretta nel profondo dalla fede cristiana, ma che era pure capace – con lucida intelligenza critica – di ricercare le mediazioni possibili su un piano civile e politico. Già nel 1962 affermava: «se il decennio in cui ci siamo inoltrati dovrà lasciare il segno di una umanità più felice e più giusta, così come noi con cristiana coscienza dobbiamo volere e sperare, questa impresa deve valere per tutte le frontiere della miseria, della arretratezza, per tutti quei milioni di uomini sulla terra – centinaia di milioni – che non hanno la sicurezza del domani». Una umanità più felice e più giusta: visione ottimistica, ma non per facile sociologismo, bensì per un radicamento etico profondo.
Tutto questo aveva una carica eversiva rispetto ai paradigmi di certo marxismo (con le sue pretese «scientifiche») e di certo pensiero liberale (con i suoi fondamenti empirici e utilitaristici) e poneva con forza l’esigenza di una sporgenza etica sulla politica, senza se e senza ma, bensì con una solida intensità umana: «È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l’idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana».
L’ultimo Moro – cioè la sua riflessione nei primi anni ’70 – mostrava un rilancio e, insieme, un ripensamento del «mounieriano» personalismo comunitario, all’altezza dei nuovi problemi e delle nuove sfide che erano davanti all’umanità e che sono ancora, finito il comunismo e la guerra fredda, i veri e grandi problemi e le sfide epocali di oggi. Infatti al cuore etico-politico di tutti i più significativi processi storici contemporanei, Moro poneva – già nel 1973 – «la estensione dell’area della dignità umana con le sue enormi e rivoluzionarie implicazioni»: visione che appare simile a ciò che Giovanni Paolo II va insistentemente ripetendo dal grande Giubileo del 2000 fino ai suoi ultimi accorati appelli per la pace. E simile alla voce dell’attuale pontefice, ma anche di tanti no-global cattolici, era l’osservazione morotea del 1974: «Si capisce che un più alto livello di giustizia internazionale costerà di più ai paesi industrializzati e condurrà a rallentare il loro progresso per consentire il progresso degli altri. Ma questo è un prezzo che si deve pagare, uscendo dalla fase retorica e passando alla fase politica dei rapporti con i paesi in via di sviluppo».
Moro si rendeva ben conto che per avviarsi verso questa nuova prospettiva non si potevano utilizzare né il marxismo comunista né le varie forme di liberismo utilitaristico. Ma con lucida onestà intellettuale avvertiva pure i limiti di modelli socialdemocratici e di Welfare se non fossero partiti dall’autonoma ridefinizione dal basso dei modelli di consumo: da un consumo etico, cioè, che poteva essere possibile se una carica utopica di movimenti popolari avesse fatto fermentare la storia. Nel 1975 egli affermava: «La nostra fiducia in un sistema pluralistico di istituzioni economiche non significa che siamo soddisfatti della distribuzione del reddito e del suo impiego, quale risulta dal gioco di un’economia di mercato senza controlli e senza integrazioni. Riteniamo però che sia possibile favorire una più equa distribuzione della ricchezza e, con essa, modelli di consumo più autentici, senza dover sacrificare quella preziosa distinzione tra potere economico e potere politico e quella dispersione tra una pluralità di soggetti del potere economico su cui si regge la democrazia moderna. Ma è questo un discorso che deve ancora essere faticosamente costruito con rigore intellettuale, ma anche con l’audacia dell’utopia. I nuovi modelli di consumo non nascono infatti dall’iniziativa tecnocratica dei pianificatori, ma da salti antropologici, da movimenti collettivi, da nuovi rapporti che si stabiliscono tra la cultura e la tensione morale del paese».

La pace e l’Europa: il messaggio degli anni ‘70

Concluderei ritornando alla pace, con la quale avevo esordito, per richiamare la visione dell’ordine internazionale che Aldo Moro espresse, il 6 ottobre 1971, con un importante discorso alla XXVI sessione dell’Assemblea generale dell’Onu. In tale occasione egli affermava che la vecchia regola della politica estera «i nemici dei nostri vicini sono nostri amici» doveva essere sostituita dalla regola «i vicini devono essere nostri amici». Faceva l’esempio del processo di unificazione europea e, significativamente, osservava: «Una simile opera potrà dare ai popoli d’Europa la possibilità di far sentire più efficacemente la propria voce. È possibile che l’influenza così ritrovata possa riuscire dannosa a qualcuno? La risposta è: no. Essa non è diretta – e non sarà diretta – contro alcun popolo, bensì contro la guerra, il peso degli armamenti, la fame e il sottosviluppo, contro l’iniquità, contro tutto ciò che è suscettibile di impedire i contatti liberi e fecondi fra tutti gli uomini».
Elevava così la sua riflessone ideale e politica ad una visione dei rapporti internazionali tanto nobile nella limpidezza etica e cristiana del suo impianto quanto avvertita – senza astrattezze retoriche – come impegno per tutti i democratici, come compito per gli uomini di Stato, come chance per l’umanità: «i grandi problemi che si pongono al mondo non sono suscettibili di soluzione attraverso il solo impegno, anche congiunto, delle grandi potenze. Tutti e ciascuno sono chiamati a cooperare nella lotta dell’umanità intera per la sopravvivenza, la dignità, la libertà ed il benessere. Né si può certo più ammettere che esistano ancora popoli che facciano la storia e altri che la subiscano: la coscienza democratica del mondo vi si oppone». 

I cristiani e le vie della pace: a quarant’anni dalla pacem in terris
Roger Etchegaray

Agire politicamente per rigenerare la democrazia
Lino Prenna

Focus: La deriva populista della democrazia

Democrazia e populismo
Luigi F. Pizzolato

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L’ideale contrapposizione, normale in un bipolarismo classico, tra una posizione individual-liberistica (destra) e una solidaristico-sociale (sinistra) è facilmente controllabile e giudicabile perché i suoi risultati coinvolgono il «benessere economico» e quindi toccano il sentire della massa, che – come si sa fin dai tempi della riflessione di Cuoco sullo scacco della Rivoluzione napoletana del 1799 – si muove per bisogno e non per valori. Ma quando la differenza è di metodo politico, solo una minoranza può antevedere in una serie di atti apparentemente indifferenti l’esito di essi sul benessere.

Lo scenario bipolare italiano

La contrapposizione nell’attuale bipolarismo italiano si sta rivelando più di natura di metodo politico che di programma socio-economico. Questa differenza devastante di metodo è l’assunzione da parte della leadership politica italiana di un metodo tipicamente populistico, che è agli antipodi della nostra Carta costituzionale e del metodo delle democrazie occidentali. Esso si manifesta nella pretesa di un legame esclusivo tra popolo e potere, legalizzato una tantum dalle elezioni e dal criterio della maggioranza, che non tiene conto dei meccanismi di bilanciamento e di mediazione che le democrazie prevedono proprio per eliminare i rischi d’una dittatura della maggioranza e per evitare i rischi di un impazzimento della maggioranza (il sec. XX ha visto i totalitarismi crescere sull’assolutizzazione liberale del principio di maggioranza). La fisionomia del populismo consiste nel ricorso al popolo inteso nei suoi singoli componenti, singolarmente presi, dove il popolo diventa «gente». L’interpellazione diretta del popolo, che dà a questi la sensazione di essere arbitro e di gestire nel modo più puro la democrazia, è in realtà la forma di manipolazione più sottile e profonda, laddove il popolo sia sentito «uno per uno», senza essere in grado di apprestare una resistenza pari al potere di chi lo interpella: infatti «è degli autocrati di ogni tempo l’ossessione della “presa diretta” sul popolo, della gommosa aderenza allo spirito popolare» .
La critica a tutte le cariche statuali non elettive o quelle elettive indirette, che i costituenti avevano previsto come bilanciamenti contro una possibile deriva populistica, vengono continuamente delegittimati: la magistratura, la Corte Costituzionale, il Presidente della Repubblica. Aristotele chiama il leader populista «demagogo», che è per il popolo quello che l’adulatore è per il tiranno. «Costoro – egli dice – sono responsabili del fatto che siano sovrane le decisioni popolari e non le leggi, poiché riportano tutto al popolo… Un tale sistema, in cui tutto è amministrato tramite decisioni popolari, non è democrazia in senso proprio, perché nessuna decisione popolare può avere carattere generale» .
I partiti sono stati eclissati e con essi lo strumento classico per cui i singoli potevano esercitare un’azione politica non quoad singulos. Ora anche altri organismi sociali intermedi sono declassati perché non elettivi, come se la predilezione politica di un popolo si rivelasse solo una tantum nei momenti elettorali e fosse messa in sonno negli altri momenti. Si pensi al declassamento del sindacato susseguente alla teoria dell’abbandono della concertazione, che lo priva di valenza politica come attenzione al bene generale.
Le stesse opposizioni sociali vengono scotomizzate perché non rappresentanti formali della «gente»; privilegiate se si trasformano in organi tecnici di trasmissione. E’ profondamente pericoloso che i soggetti sociali siano deprivati di responsabilità politica e trasformati in organismi di rivendicazioni parziali e tecniche. Perché essi potrebbero costituire il collante trasversale tra le contrapposizioni bipolari. E se la costruzione della città è riservata solo al livello decisionale supremo, nei mondi vitali societari si agiterà il conflitto degli interessi allo stato bruto, senza il contenimento di quella «temperanza» che sola genera la concordia grazie alla automoderazione dei desideri. E tale scatenamento si scaricherebbe sulla politica e la paralizzerebbe e, in ogni caso, le toglierebbe consenso.
Tanto più che questa espunzione degli organismi intermedi coesiste con l’enfasi del principio di sussidiarietà, intesa impropriamente come interna solo ai livelli elettivi e quindi come legata al principio di elettività (Stato, regioni, province, comuni: ma questi un po’ meno), e non – quale dovrebbe essere – come sostanza del rapporto tra livello politico, livello sociale, livello personale, e quindi come riconoscimento dell’essenza politica dei livelli previ. E i poveri Cattolici si sentono dare lezioni di sussidiarietà da chi crede che essa sia un grimaldello per un potere localistico o come parola magica per santificare finanziamenti di sapore clientelare.

Il popolo trasformato in «gente»

Abbiamo visto che in realtà l’unica forza di opposizione legittimata sussisterebbe nell’opposizione parlamentare. Ma il tarlo populistico non si arresta nemmeno qui, dove assume la forma del principio di decisione – con non occulte insofferenze per la discussione – che non tollera mediazioni e si avvale di una maggioranza schiacciante per via delle distorsioni maggioritarie. Così si svuota di fatto anche l’opposizione parlamentare cui non resta altro che una «forza di imprecazione» e suonano patetiche le sue reiterate minacce di opposizione dura parlamentare di fronte ad un regime di impianto populistico-decisionale.
Mentre di fronte ad atti di governo una opposizione parlamentare classica sa come comportarsi, essa è spiazzata di fronte a un metodo politico che la svuota dall’interno e ha difficoltà a ricrearsi in nuova forma di opposizione. Difficoltà per la stessa composizione dell’opposizione, che, nella gestione classica del suo ruolo, è portata a valutare i provvedimenti con logica analitica di corresponsabilità, mentre una divisione di «paradigma» politico per sua natura rende globale e sintetico l’atteggiamento oppositivo e diversa quindi una gestione oppositiva parlamentare stessa (fino all’Aventino o ad un parlamento ombra o alla individuazione di altre forme oppositive). Però l’opposizione parlamentare, scegliendo la strada della sua funzione liberale classica, ha scontato anche una diversità ideologica tradizionale al suo interno.
Così, restando fedele a quella logica, essa si è naturalmente mostrata più volte differenziata e perfino divisa al suo interno (si pensi alla politica estera, anche se va detto che la divisione è meno scandalosa ora che al tempo della guerra fredda); alcune forze, di concezione prevalentemente economicistica della politica, aspettano solo la scintilla socio-economica per scatenarsi e sottovalutano le derive istituzionali; le forze di opposizione colgono con sensibilità diversa aspetti particolari di predilezione verso il mondo cattolico.
Inoltre, se l’ottica è quella tradizionale della vita politica normale, l’opposizione attuale non può che essere debole, perché dobbiamo sempre ricordare che al suo interno essa alberga anche la destra di complemento che non si riconosce in un giudizio sintetico di stile politico nella destra attuale, ma, una volta risolta questa contraddizione, scivolerà lungo la via di sua pendenza e si posizionerà nella sua sede appropriata.
Lo stesso mondo cattolico si è adeguato, con un realismo che speriamo sia più incompetente che cinico, alla caduta dell’etica del metodo politico, non comprendendo la simbolicità etica di gesti e il valore antropologico dei meccanismi e degli stili, e giudicando gli atti politici solo sull’efficacia -e spesso sui vantaggi pratici- e sul rispetto formale dei principi. Si pensi ad una serie di provvedimenti che non hanno suscitato particolare sdegno, nemmeno tra i cattolici: la pratica depenalizzazione del reato di falso in bilancio; la facilitazione del rientro dei capitali esportati illecitamente; l’abolizione della tassa di successione per eredità miliardarie; il progetto di regolamentare il conflitto di interesse e di reintrodurre l’immunità parlamentare; i progetti, in parte esecutivi, di modifica dei processi penali costruiti a vantaggio di pochi; le ricorrenti proposte di condoni. Anche accantonando – però con grande difficoltà – il sospetto che servano più ai proponenti che al Paese, questi provvedimenti veicolano almeno – e non è meno grave – il prevalere di preoccupazioni tecnico-economicistiche sul messaggio etico, perché tutti sanciscono e soprattutto favoriscono una diseducante caduta di senso civico. Può una volontà di neutralità prescindere dall’orizzonte metodologico e giudicare di volta in volta l’atto singolo in se stesso – e spesso solo con occhiali dell’efficacia interessata – polverizzando la politica, che è attività sintetica regina, in singoli provvedimenti, lasciandosi sfuggire lo stile architettonico che la regge? Non meriterebbe anche questo nuovo paradigma politico qualche considerazione da parte dei Pastori della Chiesa, al di là delle legittime valutazioni sui singoli atti politici? O è più importante quel che si porta a casa che quel di educativo che resta nella città? Certo, in questa situazione di scontro frontale di civiltà politica, prendere posizione sul paradigma può attirare l’accusa di essere di parte, ed è più facile volare più bassi, ritenendo che il cielo della politica sia vicino al suolo. Ma è questo invece lo spazio più tipico dell’etica politica e quello più tipico d’una comunità profetica e sapienziale, quello che regge le conclusioni pratiche.
Con esso si allea il tema della giustizia, che non è marginale nella politica: «non c’è stella della sera né del mattino che sia altrettanto mirabile – dice Aristotele – Ed è virtù finale al massimo grado, perché essa è modo d’uso della virtù finale. E’ finale perché colui che la possiede può usare la virtù anche nei confronti di altri e non solo per se stesso»; ed è perciò virtù eminentemente sintetico-politica. Perché si è perso per strada il discorso dell’educazione alla legalità, spento nelle secche del disinteresse se non addirittura soffocato nella riduzione procedurale del cosiddetto “giusto processo”?
Noi siamo convinti che è solo in un giudizio sintetico sul metodo politico che l’opposizione attuale può trovare la sua unità. E nello stesso tempo ci rendiamo conto che questo giudizio, fatto valere in sede parlamentare, attira l’accusa di massimalismo o di demonizzazione dell’avversario; e che non è alla portata di un popolo ormai diventato «gente» e attento solo al particulare, insensibile ai «discorsi sul metodo», prima di non sbattere il naso contro gli effetti del metodo, quando sarà però tardi: «Nel principio del suo male, [la malattia] è facile a curare e difficile a conoscere, ma nel progresso del tempo, non l’avendo in principio conosciuta né medicata, diventa facile a conoscere e difficile a curare» .

Le sedi della politica e il populismo destrutturante

La debolezza ideologica e posizionale dell’opposizione parlamentare è stata avvertita da gruppi sociali che hanno trasferito l’opposizione nelle piazze, con forti accenti di opposizione sistemica, perché si percepisce l’attacco globale ad una civiltà politica. Ed anche questo fattore che è oggettivamente di forza, diventa disgregativo all’interno della stessa opposizione per via della gestione del ruolo oppositivo. La piazza è contrapposta al palazzo. E’ una logica che non può essere accettata. Ma noi vediamo in giro, a dire il vero, più piazze come agorai che come arene, e tra le due bisogna saper distinguere. Cioè c’è oggi – ed è singolare e prezioso – una piazza che si muove intorno a problemi di rivendicazione di correttezza metodologica e di preservazione della legge della casa di tutti, e non secondo un vetusto cliché distruttivo; è la stessa piazza che non si riempie solo per rivendicazioni particolari, anche se a volte sacrosante, ma per problemi di carattere generale; una piazza che ragiona, non che si scatena. La logica della piazza sottolinea comunque la difficoltà di opposizione all’interno di un paradigma diverso e la difficile ricerca di rompere il circolo vizioso di una opposizione che non può opporsi. Ma si può ancora ragionare con logica parlamentare o si deve riconquistarla? E si deve riconquistarla con quella logica o con altre?
Noi pensiamo che si debba preservare la logica parlamentare, e che l’opposizione debba trovare la sua unità, ripiegando su ciò che la cementa. La nostra società non è affetta da un male solo, ma da una sindrome di mali; ma l’abilità del clinico consiste nel cogliere quale virus va affrontato per primo e individuare la priorità terapeutica. E se si giudica che in questi frangenti il virus è il populismo destrutturante della politica e delle istituzioni, il cemento oppositivo non può non stare in una opposizione di carattere sintetico globale, di metodo politico. E perciò l’opposizione deve trarre le conseguenze: al suo interno e verso la agorà. La capacità del vero politico è sempre stata quella di capire e dare razionalità alla piazza, non di abbandonarla. O lasceremo questa operazione solo ai figli delle tenebre che della piazza brutalmente si avvalgono?
Il nuovo carattere della piazza non è però quello della «gente», ma è quello della gente che si riprende il ruolo di popolo confrontandosi non singillatim col potere ma secondo logiche e presenze condivise. Ma il deterioramento della situazione rende questa piazza ancora elitaria nei confronti della «gente» che per muoversi aspetta un tracollo individuale. Come si potranno saldare efficacemente due opposizioni? La storia insegna che il decadimento politico ha alla lunga esiti di improduttività nella società e di degrado di vita. D’altra parte, il politico prevaricatore è sempre vittima del suo osare (della tolma o hybris, come dicevano i tragici greci). Ma i vettori della scorrettezza politica e quello della inefficacia o della decadenza non sono sincronizzati perfettamente, anzi c’è una isteresi del secondo rispetto al primo. E poi bisogna rassegnarci ad attendere che la logica delle cose sostituisca la logica della ragione? Compito dell’uomo politico sempre, ma in particolare in momenti di degrado istituzionale come questi, è quello di far vedere il collegamento, invisibile alla massa, tra scadimento ideologico e improduttività sociale.
L’altro strumento è quello di ri-promuovere culturalmente la «gente» al rango di popolo, con le aggregazioni, con la presenza di forze culturali (unite) sul territorio, con l’analisi di problemi locali dove le trasposizioni da ideologie a prassi politiche sono immediate ed evidenti. Le cosiddette regole di garanzia possono anche essere concesse formalmente, ma altrettanto facilmente svuotate. Il demagogo teme le aggregazioni, perché egli si guarda – come dice Aristotele – «da tutto quello da cui abitualmente sono prodotti due atteggiamenti: consapevolezza e fiducia in se stessi»; non permette «che si abbiano luoghi di riflessione» e mette in atto «tutti quegli strumenti che renderanno tutti, nel grado massimo possibile, sconosciuti gli uni agli altri». In ogni caso quest’opera culturale da perseguire, anche da parte di Città dell’uomo, è doverosa e permanente, ma necessariamente lenta.
Solo la concorrenza di politica scorretta e di effetti sociali può far deflagrare la situazione a livello macrosociale. Questa concorrenza appariva lontana, perché l’attacco del nostrano populismo muoveva contro le istituzioni e le regole prima che contro i principi dello Stato sociale. Ma l’anima individual-liberistica di questo populismo, attenta ai soggetti «forti» risentiti, si trova a malpartito nel gestire i problemi delle debolezze, che ora si affastellano in forma sia strutturale sia congiunturale. Anche perché promettere molto ai soggetti risentiti è più impegnativo che ai soggetti deboli, perché quelli sanno presentare il conto. L’errore anche di strategia politica sull’art.18, il goffo tentativo si spaccare il sindacato e soprattutto la crisi economica in atto fanno venire al pettine i caratteri individual-liberistici di quel populismo e le sue derive deleterie sul benessere..
Forse i risultati perversi vengono a galla e accorciano il tempo della presa di coscienza da parte della gente del disegno politico prima non visto. Il detonatore della crisi economica imprevista anche da Fazio bussa alle porte e non può essere liquidata col largo sorriso di chi non sa gestire i problemi se non con un ottimismo spettacolare che non fa i conti con la serietà. E se un populista inciampa una volta nel dissenso della base, si mette in moto una valanga che lo travolge, perché quando, anche grazie – purtroppo – a qualche provvida sventura, la gente è costretta ad aggregarsi, essa si rifà popolo e smaschera il rapporto fasullo individualistico che la legava al capo: «il carisma non ammette alcuna sospensione, alcun arretramento: le masse diventano vendicative» . Per questo occorre che il tiranno populista subisca qualche smacco di immagine, magari proprio attraverso quell’arma referendaria sulla quale punta il populista.
Ma l’opposizione dovrà concentrarsi sulla priorità terapeutica del ripristino delle regole democratiche, facendo vedere come i giusti assetti istituzionali non sono optional eleganti, ma tutele del bene comune. Qui essa trova il collante comune, come il Cln pose a suo obiettivo l’abbattimento di quel regime, accordandosi per una messa in mora delle altre questioni in attesa che riprendesse la normale vita democratica: opposizione dura quindi – e non solo con tecniche parlamentari usuali – sul piano istituzionale e capacità di mostrare le correlazioni tra dissesto istituzionale e degrado socio-economico. Non so se sia opportuno anche qualche intervento sulla legge elettorale, che allontani per il futuro il rischio di maggioranze troppo prepotenti di cui in Italia, purtroppo, ancora sono disponibili a personalità di scarsa cultura istituzionale, e di scarsa cultura semplicemente. 

Populismo e istituzioni
Enzo Balboni

La questione della legalità
Vittorio Grevi

L’informazione: tra potere di condizionamento e “contropotere”
Paolo Ghezzi

La politica, la società civile e i movimenti
Franco Monaco

Fratelli d’Italia. Cosa unisce e cosa divide gli italiani
Fabrizio Filiberti

Libri: Per un monitoraggio globale. L’esperienza del Social Watch
Massimo De Giuseppe