Appunti 3_2002

Sommario

La guerra infinita, surrogato di una politica debole
Guido Formigoni

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Questa fine estate è segnata da un clima torbido di incertezza e paura. Si rincorrono i segnali corposi della depressione economica e baluginano le premesse di una crisi profonda di legittimazione e di credibilità della civiltà capitalistica. E intanto, puntuale come solo sa essere il tragico della storia, si rincorrono nuove immagini e nuove attese di guerra. La guerra strisciante, snervante e ormai angosciosamente ineluttabile nello scontro israeliano-palestinese. La guerra annunciata, con grande fiato alle trombe propagandistiche, della superpotenza americana all’Iraq. La guerra apparentemente sedata, ma che cova sotto le ceneri del disastro afghano. La guerra dormiente, ma non certo sconfitta, organizzata dai circoli del radicalismo islamico. La retorica guerra al terrorismo, che da un anno ci accompagna tra notizie giudiziarie, fermi di sospetti, punizione di miliziani, oscure manovre di servizi segreti. Le mille guerre sommerse del continente africano, solo a tratti riportate alla luce dal sistema dei media. Tutte situazioni di guerra non convenzionale, non dichiarata, non formalizzata, frammiste a contorti processi diplomatici, intrecciate a palesi od occulti interessi privati.


La guerra al posto della politica

L’inizio del nuovo secolo appare insomma sotto il segno di una normalizzazione e banalizzazione della guerra, i cui aspetti atroci sono mostrati solo occasionalmente agli spettatori del villaggio globale (non casualmente, anzi, secondo una precisa strategia che risponde a logiche di potere). Una guerra infinita, più che una libertà duratura, come recita lo slogan di Bush. La guerra è tornata apparentemente ad essere legittimata. Infrangendo un tabù profondo, maturato dopo le grandi guerre mondiali, che non solo escludeva la possibilità di una guerra globale a causa dei terribili strumenti di distruzione atomici, ma metteva culturalmente al bando la guerra come strumento di soluzione delle controversie, pur non potendo immediatamente sradicarla dal sistema internazionale. Non che questo abbia voluto dire entrare nell’epoca della pace perpetua. Però, le molteplici guerre locali che hanno costellato il cinquantennio postbellico sono state tutte più o meno considerate eccezionali, circoscritte, limitate, forzate, oppure ancora condotte in modo riluttante e con ripetute promesse di conclusione. Sforzo dei contendenti era rendere chiara la propria causa, evidenziarne l’accettabilità internazionale, diplomatizzarne le conseguenze e le procedure, predisporre una pace favorevole ai propri interessi, ottenere obiettivi politici. Naturalmente parliamo della tendenza generale, non delle eccezioni sempre presenti.
La guerra infinita attuale non sembra invece, clausewitzianamente, tornata ad essere continuazione della politica con altri mezzi. Sembra piuttosto diventata sostituzione della politica, suo surrogato continuativo, per distogliere gli occhi del mondo dai tremendi limiti della politica. Si moltiplicano le occasioni in cui la guerra appare diventare spiegazione e fine a se stessa, utile condizione strisciante per fare i propri interessi, ambiente internazionale normale. Non eccezione da controllare, marginalizzare, possibilmente sradicare. La retorica sullo scontro delle civiltà ha aiutato molto in questa direzione, individuando livelli di conflitto non mediabili e risolvibili, ma assolutizzanti. In fondo, era assoluta anche la contrapposizione ideologica della guerra fredda, ma non a caso essa era stata imbrigliata in un vero e proprio sistema di relazioni internazionali relativamente stabile: era stata quindi politicizzata. L’attuale guerra al terrorismo è invece condotta con una retorica di totalizzazione tale da garantirne la durata fino a una vittoria che per essere globale si allontana in un indistinto futuro. Quando mai saremo sicuri di aver sradicato l’ultimo potenziale gruppetto terrorista sulla Terra? Come la guerra al cancro o quella all’obesità, la guerra al terrorismo assuefà all’idea che si tratti di una guerra senza vincitori e quindi normale e indefinitamente continua.
Gli stessi casi éclatanti oggi aperti sullo scenario del mondo suggeriscono una visione di guerra superficialmente – epperò tragicamente – scambiata con una politica decente.


Il conflitto israeliano-palestinese

Pensiamo al groviglio israeliano-palestinese. Mai come in questo caso siamo di fronte a un conflitto duraturo, strisciante, periodicamente riacutizzato, apparentemente irresolubile per il peso dei decenni e per la memoria ferita delle generazioni che vi sono implicate. Ma mai come in questo caso sappiamo già come sia possibile chiudere il conflitto, mai come in questo caso abbiamo la soluzione politica bella chiara davanti ai nostri occhi, con tutti i suoi costi e benefici, studiati da anni e chiaramente definiti. Due popoli in due Stati, legittimati reciprocamente. I confini del 1967 ridisegnati in modo non radicale, per lasciare in territorio israeliano qualche insediamento di coloni, con compensi per i palestinesi nelle zone abitate da prevalente popolazione araba. Lo smantellamento di altri insediamenti dei coloni ebrei. Un piano per il rientro dei profughi palestinesi graduale e realistico, che non distorca radicalmente le tendenze demografiche (che già sono sfavorevoli agli ebrei all’interno dei confini di Israele). Una qualche articolata divisione delle competenze e delle amministrazioni, se non delle sovranità, su Gerusalemme. Un piano di investimenti internazionali per ripristinare condizioni di vita decenti negli ex territori occupati. Insomma, qualcosa di molto vicino a quanto israeliani e palestinesi avevano già elaborato nei colloqui di Taba del gennaio 2001 (significativamente diverso invece da quel diktat che Barak e Clinton avevano tentato di far passare a Camp David nell’estate del 2000, solo per poter sostenere – da allora fino a oggi – che Arafat aveva perso la «grande occasione»).
Sappiamo già che non potrà che andare a finire pressappoco così. Eppure, la soluzione sembra allontanarsi. Del cosiddetto «processo di pace» di Oslo si sono perse le tracce. E allora viene il sospetto che da una parte e dall’altra si pensi ormai alla condizione di guerra permanente come il male minore, a cospetto della propria impotenza e debolezza politica. Da una parte, la classe dirigente israeliana coltiva un’ossessione della sicurezza che ha ormai profondamente militarizzato il proprio modo di vedere le cose, dando spazio alle pulsioni bene incarnate dal governo Sharon e dai suoi sogni di «grande Israele». Ma nemmeno i laburisti – come dimostra la loro partecipazione a tutti i costi al governo – pensano di riuscire a superare gli ostacoli politici della resistenza di 200.000 coloni estremisti o dei partiti religiosi, e imporre quindi all’interno l’opzione della pace. Dall’altra parte, il vecchio Arafat ha probabilmente ormai scelto anch’egli la via della tensione permanente, perché gli appare l’unica via per salvare la propria traballante leadership, minata dalla corruzione diffusa all’interno del suo manipolo di dirigenti e dalla presa sempre più ampia di Hamas e delle altre organizzazioni integraliste, nel controllo reale del territorio palestinese.
Quindi, guerra infinita. A tutti i costi. Al costo dello stillicidio di attentati e delle operazioni anti-guerriglia, con relativo elenco di morti. A costo della distruzione di ogni normalità nella vita di generazioni di giovani israeliani e palestinesi. A costo della devastazione dei territori dell’Anp e della crisi implosiva dell’economia israeliana stessa. Purché una politica troppo fragile non venga messa a nudo nelle sue drammatiche impotenze. E i maggiori osservatori-attori internazionali, non dando nessun segnale di voler fattivamente contribuire a modificare queste tendenze, danno anch’essi testimonianza di debolezza politica infinita, nonostante la ricchezza finanziaria e la capacità militare sovrabbondante di cui sono dotati. Gli stessi Stati Uniti, che certo hanno in mano molte chiavi della questione, non hanno operato quella svolta che sembrava intravedersi dopo l’11 settembre 2001. Non si è voluto o potuto dispiegare la propria influenza per avviare la soluzione del problema, nemmeno in vista dell’obiettivo di rinsaldare la coalizione mondiale contro il terrorismo.


La guerra preventiva all’Iraq

Anche sull’Iraq spirano venti di guerra. L’Amministrazione Bush, con grande spiegamento di mezzi mediatici, sembra aver ormai deciso di lanciare un’operazione militare per spazzare via il regime di Saddam Hussein, più di dieci anni dopo Desert Storm. Le cose non sembrano ancora definitivamente precipitate, non tanto per gli incerti distinguo dei maggiori alleati, per il dissenso diffuso delle cancellerie del mondo arabo o per l’operatività limitata dell’Onu, ma solo perché appare aperta una vera spaccatura – per quanto si riesce a percepire – all’interno della classe dirigente americana stessa. Voci perplesse dei militari, avvertimenti dei maggiori organi di stampa che hanno ripreso una distanza critica dal governo dopo i giorni convulsi delle Twin Towers, espliciti contrasti nella stessa amministrazione tra i falchi di Rumsfeld e Cheney e i realisti alla Powell. Vedremo se, come temiamo, anche in questo caso il braccio di ferro si chiuderà con la decisione per la guerra.
E’ difficile non ritenere quanto meno ambiguo il contesto politico di questa guerra attesa. La motivazione ufficiale, che ruota attorno alla presunta preparazione irachena di armi di sterminio, è addirittura risibile. L’Iraq del cinico dittatore Saddam è uno Stato allo stremo: non ha risorse finanziarie (anche i proventi del petrolio sono congelati e servono solo per importare sotto controllo alcune merci); ha un apparato militare distrutto; non ha il controllo del proprio territorio, in gran parte sottratto dalle regole imposte nel 1991; non ha la possibilità di importare tecnologie appropriate; è stato per anni sottoposto a severi controlli dei tecnici dell’Onu. Le risorse che – non dimentichiamolo – i paesi occidentali stessi gli hanno fornito negli anni ’80 sono ormai state consumate nel lampo della Guerra del Golfo.
Allora, c’è qualche altra motivazione per l’attacco? Segnali del suo sostegno ad Al-Qaeda non sono stati resi pubblici dagli Stati Uniti, quindi è presumibile non esistano nemmeno lontanamente. E suona invece sinistra la tesi per cui occorre finalmente esportare la democrazia anche in Iraq: forse che l’argomento non varrebbe per gli alleati di ferro americani della regione? A parte ogni discussione su quali basi abbia una democrazia presentabile in quel paese, con le sue divisioni etnico-religiose. L’incognita su come sostituire il dittatore senza scontentare troppo le potenze vicine (dall’Arabia Saudita, alla Turchia…) era stato il vero motivo della scelta di Bush padre di non condurre a fondo l’operazione del 1991, con l’invasione dei carri armati fermata a pochi chilometri da Baghdad.
Aggiungiamo che la stessa cinica motivazione economica per cui la guerra avrebbe un effetto anti-recessivo sul ciclo produttivo è altamente dubbia in questo caso. Le spese militari americane sono già state alzate dopo l’11 settembre, mentre la variabile petrolio è del tutto aleatoria: quasi sicuramente la guerra farebbe inizialmente alzare il prezzo, mentre se l’enorme riserva irachena dovesse essere finalmente smobilizzata, alcuni esperti sostengono che il prezzo internazionale crollerebbe, con gravi danni per i produttori e le compagnie trasformatrici. A un anno di distanza, la guerra annunciata all’Iraq non sembra avere nemmeno positivi effetti sulla cosiddetta «grande coalizione mondiale contro il terrorismo»: la Russia si è rumorosamente dissociata, gli sceiccati del golfo e i sauditi sono sempre più inquieti, l’Europa divisa balbetta anch’essa parole di distinzione, con la Germania alla guida del fronte critico.
Il significato del nuovo scenario bellico appare quindi molto incerto e il suo orizzonte politico debolissimo. Torna invece l’ipotesi esplicativa di una guerra che semplicemente si autoalimenta. L’amministrazione americana ha probabilmente bisogno di un altro successo militare dopo quello afghano (dimezzato dall’incertezza sulla sorte di bin Laden). Occorre sostenere il morale del «fronte interno», dopo aver proclamato la guerra senza quartiere ai nemici del grande paese delle libertà. E al contempo, si può cogliere l’occasione per sfatare un’altra remora del passato: la condanna della «guerra preventiva». Se c’è un concetto chiaro in tante prese di posizione dei vertici americani è questo: contro Saddam vale il principio per cui si può prevenire le minacce con l’uso della forza, non ci si deve solo opporre alla violenza aperta. E’ un’altra piccola barriera semantica che crolla, e in politica internazionale il linguaggio e la ricerca di legittimazione sono elementi di grande importanza. La superpotenza militare riconferma così per il futuro la propria sempre più arbitraria capacità di intervento unilaterale e generalizzato, senza dover scendere sul delicato terreno dell’iniziativa politica. La guerra copre l’inattività e la debolezza di ogni svolta politica seria per affrontare i problemi reali. Così fino alle prossime elezioni, così fino alla prossima verifica dell’andamento di Wall Street, senza nessun orizzonte più ampio. Proprio quando si alzano i toni della retorica proclamando a tutto il mondo un disegno globale e duraturo di lotta alle molteplici forze del male, si appare sempre più chiusi in un circuito politico di piccolo cabotaggio, nella logica del giorno per giorno.
Guerra infinita, invece di politica realistica. Triste condizione delle leadership mondiali. Tragica sorte per chi deve continuare a morire solo per mancanza di lungimiranza, impegno e volontà in chi dovrebbe orientare la politica internazionale.

 

 

New York, 11 settembre 2001: il trionfo della «banalità»
Beppe Tognon

Il rientro dei Savoia dopo la fuga ingloriosa
Enzo Balboni

Focus: L’immigrazione, questione politica decisiva
Le coordinate economico-sociali del fenomeno immigratorio
Eugenio Zucchetti

Gli italiani secondo gli immigrati
Giovanni G. Valtolina

Le inaccettabili novità della legge Bossi-Fini
Alberto Guariso 

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Impronte digitali, navi militari che fermano le carrette del mare, accoglienza, rigore, sicurezza, «disponibilità limitata»: la discussione sulla legge Bossi-Fini sull’immigrazione si è ampiamente nutrita di immagini e di slogan, assai più che di ragionamenti. Certo il dibattito sulle opzioni di fondo e sui valori che si intendono perseguire va fatto, ma collocare semplicisticamente da un lato i fautori del rigore, dall’altro quelli della solidarietà rischia spesso – allorché si tratta di confrontarsi molto concretamente con un testo di legge – di confondere le idee e regalare la «medaglia» del rigore (se mai di medaglia potesse trattarsi) a chi non meriterebbe neppure quella, avendo predisposto – solo per omaggio alle componenti più fanatiche ed ottuse della maggioranza – un insieme di innovazioni che, prima di ogni altra cosa, sono in gran parte inefficaci rispetto agli stessi obiettivi dichiarati.

Gli effetti controproducenti

Vediamo di spiegare di che si tratta scegliendo, tra i molti possibili, l’angolo di visuale del rapporto di lavoro, sul quale hanno particolarmente insistito i sostenitori della riforma. La parola d’ordine lanciata è nota: in Italia solo chi ha un lavoro e solo per il tempo in cui lavora. E già qui, in questa concezione «usa e getta» che equipara lo straniero ad un tornio, una pressa o un computer, ci sarebbe molto da dire. Ma veniamo al concreto: il meccanismo di fondo è rimasto – e non poteva essere diversamente – quello della legge Turco-Napolitano. Si stabilisce annualmente il numero complessivo di ingressi consentiti (con la rilevante novità di una possibile «opzione zero», nel senso che il Governo, al contrario di quanto previsto dalla vecchia legge, ha anche la facoltà di non determinare alcuna quota, come peraltro già è avvenuto nell’anno in corso); lo straniero si iscrive in una lista presso il consolato italiano nel suo paese di residenza e da qui viene avviato al lavoro sulla base della richiesta che il datore di lavoro italiano deve formulare al neocostituito «sportello unico per l’immigrazione».

E qui iniziano le folgoranti novità. Giunto in Italia lo straniero sottoscrive con il datore di lavoro il «contratto di soggiorno» che, nella retorica leghista, dovrebbe simboleggiare l’indissolubile legame tra permanenza in Italia e rapporto di lavoro: in realtà gli elementi in esso contenuti sono sostanzialmente gli stessi che già con la precedente normativa dovevano essere indicati dal datore di lavoro, sicché l’innovazione si riduce soltanto ad una piccola attività burocratica in più.

Il problema è invece un altro: pacifico che per fare ingresso in Italia occorre un lavoro (è sempre stato così), sin dove deve spingersi la connessione lavoro/soggiorno? Qui la risposta degli «innovatori» è semplice. Innanzitutto si dimezza la durata dei permessi di soggiorno successivi al primo (in precedenza si aveva un permesso di due anni e rinnovi di quattro; oggi anche i rinnovi sono di due). Inoltre, nel vecchio regime, se alla scadenza del permesso l’extracomunitario non aveva lavoro gli veniva comunque garantito un anno aggiuntivo per cercare una nuova occupazione; oggi anche questo periodo viene dimezzato e ridotto a sei mesi: un tempo ovviamente insufficiente per ricollocarsi sul mercato, specie in alcune aree di Italia. Il risultato è di tutta evidenza: persone che hanno risieduto e lavorato regolarmente nel nostro paese, magari per due o quattro anni, si trovano nel giro di sei mesi sospinte verso la drammatica scelta tra un rientro in patria o di un passaggio alla clandestinità: e chi ha un minimo di conoscenza della realtà degli stranieri, sa già quale sarà l’opzione.


Piccola rassegna di assurdità….

Vi sono poi alcune norme, apparentemente di dettaglio, che meritano di essere segnalate per meglio comprendere cosa significa ridurre una legge a strumento di vacua propaganda. Al grido di «una volta lavorato te ne torni a casa» si prescrive che il datore di lavoro debba assumersi l’obbligo per le spese di viaggio di rientro in patria: obbligo che servirà a scoraggiare qualche piccolo imprenditore dall’assumere l’extracomunitario; che probabilmente renderà la vita difficile agli extracomunitari stessi (sui quali molti padroni cercheranno di scaricare il costo di tale obbligazione), ma che resterà praticamente inattuabile: che succede infatti se il lavoratore viene espulso dopo aver cambiato una decina di posti di lavoro ed essere rimasto in Italia per anni, posto che solo il primo datore di lavoro , in base alla legge, è tenuto ad assumere l’obbligo?

E ancora. Il neo costituito «sportello unico per l’immigrazione», prima di autorizzare l’assunzione (e quindi l’ingresso in Italia) dell’extracomunitario deve verificare se non sia disponibile un cittadino italiano o comunitario con analoga professionalità: un meccanismo già in vigore prima della Turco-Napolitano, che era stato poi abrogato per la sua assoluta impossibilità di applicazione (nessun datore di lavoro che abbia scelto il signor Abdul, che probabilmente già conosce, è disponibile ad assumere in sua vece il signor Bianchi, segnalatogli dallo «sportello», solo per fare un piacere a Bossi); ma un meccanismo, soprattutto, che confligge clamorosamente con la scelta di liberalizzare completamente il sistema di avviamento al lavoro, lasciando spazio (per tutti, salvo che per gli extracomunitari) al libero incontro di domanda e offerta di lavoro.


…e di vessazioni.

A queste disposizioni fanno poi da sfondo una serie di piccole e grandi vessazioni che, lungi dall’avere qualsivoglia effetto in termini di «lotta alla clandestinità», perseguono l’unico obiettivo di rendere più difficile la stabilizzazione e l’inserimento dell’extracomunitario entrato regolarmente in Italia. Così si eleva da cinque a sei anni il periodo necessario per ottenere la «carta di soggiorno», cioè l’autorizzazione alla permanenza stabile, senza necessità di ulteriori rinnovi; e questo, tra l’altro, mentre a livello europeo si sta predisponendo una direttiva che fissa per tutti i paesi il termine di cinque anni e mentre altri paesi europei (ad esempio la Germania) con due soli anni in più di residenza (8 anni) garantiscono addirittura la cittadinanza.

Si introducono limitazioni al ricongiungimento dei genitori, assolutamente incompatibili con la dichiarata volontà di garantire agli extracomunitari «che lavorano onestamente» quel pieno inserimento che presuppone innanzitutto la ricostituzione del nucleo familiare. Si sopprime la «prestazione di garanzia» (cioè l’ingresso garantito da un connazionale o da un italiano, che consentiva un permesso di soggiorno di un anno) che attraverso la formazione di una «catena di solidarietà» tra stranieri o tra italiani e stranieri consentiva un ingresso sicuro sotto il profilo della sistemazione alloggiativa e un ragionevole periodo durante il quale realizzare sul posto – tramite un incontro diretto tra le parti e non tramite le anonime liste presso i consolati – l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Si sopprime persino – e la cosa, passata sotto silenzio, è tra il beffardo e il clamoroso – la norma che prevedeva il diritto dell’extracomunitario che se ne torni in patria ad ottenere la restituzione dei contributi versati, se non più utilizzabili: insomma chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.


Ed arrivò la sanatoria

Ebbene a fronte di disposizioni così ridicolmente e inutilmente severe il governo (che, ignorando le disposizioni della legge Turco-Napolitano, è giunto sino al mese di settembre senza determinare le quote annuali e quindi di fatto bloccando ogni nuovo ingresso, per qualsiasi titolo, per tutto il 2002) ha poi scelto di dar corso alla più grande sanatoria che la storia giuridica italiana abbia mai conosciuto. Infatti se, al pari delle precedenti, la nuova sanatoria riguarda i soli extracomunitari che possono far valere una proposta di assunzione, la rilevante differenza è che questa volta l’interessato non deve dare alcuna prova del suo effettivo ingresso in Italia alla data indicata nel decreto-legge (10 giugno 2002), essendo sufficiente la mera dichiarazione del datore di lavoro; il quale tra l’altro – a differenza dell’ultima sanatoria – è qui esentato da ogni impegno circa la sistemazione alloggiativa del dipendente. Una larghezza quindi sulla cui opportunità non si può non convenire – stante le esigenze che si erano venute a creare con il «blocco» in corso ormai da un anno – ma che confligge in maniera stridente con l’immagine che il governo vuole darsi.

Peraltro la commedia dell’assurdo, che già aveva accompagnato il varo della legge, ha avuto un significativo strascico anche nei litigi interni alla maggioranza relativi alla sanatoria: così la Lega si è battuta per inserire i soli extracomunitari con offerta di lavoro a tempo indeterminato senza tener conto che, in una piccola azienda, un rapporto di lavoro a termine offre garanzie assai maggiori di stabilità di quelle offerte da un rapporto a tempo indeterminato, ove il dipendente, privo della garanzia del famoso art. 18, è sempre esposto al rischio di licenziamento: sicché ciò che può essere ragionevolmente verificato è che alla scadenza del permesso (che per i lavoratori «sanati» durerà inizialmente solo un anno) l’interessato abbia ancora un lavoro; ma certo non può discriminarsi a seconda dei tipi di contratti iniziali, penalizzando tra l’altro – e, come si è visto, senza nessun beneficio in termini di garanzia circa la continuità dell’attività lavorativa – proprio quei contratti a tempo determinato che il governo propaganda come la nuova panacea contro le rigidità del mercato del lavoro.

E ancora la Lega si è battuta (anche in questo caso con parziale successo) per l’esclusione dalla sanatoria di coloro che, entrati clandestinamente in Italia, hanno in passato ricevuto un provvedimento amministrativo di espulsione, ma sono rimasti comunque nel nostro paese: con il brillante risultato di affidare al caso l’intero meccanismo (l’extracomunitario che, entrato clandestinamente, non è mai stato «beccato» potrà godere della sanatoria, il suo amico che in passato era stato casualmente fermato al mercato, invece no).

Essendo presumibile e sperabile che le due assurdità sopra segnalate (solo in parte mitigate nel testo attuale) trovino poi rimedio in sede di conversione in legge del decreto, la sanatoria acquisterà davvero dimensioni amplissime e dunque finirà per sostituirsi per molto tempo (forse due anni, forse più) al sistema delle «quote», essendo inevitabile che anche per il 2003 (come già per il 2002) il governo, impegnato a smaltire l’enorme quantità di regolarizzazioni «in sanatoria», ometta di determinare le quote per ulteriori ingressi secondo il meccanismo ordinario. E poi nel 2004 o 2005 – vista anche l’enorme capacità di attrazione di ingressi clandestini che ogni sanatoria comporta – chissà che non sia nuovamente necessario procedere con un provvedimento eccezionale….

Valeva dunque la pena di mettere mano ad una presunta «riforma» per introdurre poche modifiche ferraginose, inutili e vessatorie che comunque per un lungo periodo non avranno di fatto applicazione? La domanda è retorica; ma assai più retorica, ideologica e di pura immagine è stata la battaglia che la maggioranza ha voluto affrontare nel parlamento e nel paese per strappare modifiche legislative indifendibili persino da chi volesse accettare la logica dei «pochi, ma ben inseriti».


Le espulsioni

Va peraltro anche detto che, sotto un altro angolo visuale, le innovazioni della Bossi-Fini sono, purtroppo, effettivamente coerenti con gli obiettivi proclamati: trattasi in particolare della parte riguardante espulsioni e asilo. Quanto alle espulsioni, la sostanza – in estrema sintesi – è una forte riduzione delle garanzie per lo straniero, ben al di là di quanto necessario per la lotta alla clandestinità. L’espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera, che era prima misura eccezionale (normalmente lo straniero riceveva solo una intimazione a lasciare il territorio entro 15 giorni, avendo così un tempo, se pure ridottissimo, per contestare davanti ad un giudice il provvedimento) diventa ora la modalità ordinaria di espulsione; ed è di tutta evidenza quanto questa modalità di espulsione riduca a carta straccia il diritto di difesa dello straniero, che una volta fuori dal territorio nazionale, dovrebbe proporre il ricorso presentandosi al consolato italiano (laddove in molti paesi del terzo mondo è difficile persino raggiungere materialmente il consolato) e con il rischio poi di restare con un pugno di mosche perché, annullata l’espulsione, mancherebbe comunque un nuovo titolo per fare ingresso nel paese.

Una volta che sia emesso il decreto di espulsione il divieto di ottenere un nuovo permesso di soggiorno, vale non più per cinque anni, ma per dieci, senza distinzione in relazione alla gravità delle ragioni della espulsione; e per il reingresso illecito le pene passano (nel massimo) dagli attuali sei mesi addirittura a quattro anni (viene alla mente il falso in bilancio: pene che salgono, pene che scendono….) con obbligo di arresto in flagranza, processo per direttissima e nuovo immediato accompagnamento alla frontiera.

Infine il possibile periodo di trattenimento (o meglio di reclusione) nei centri di permanenza temporanea sale da trenta a sessanta giorni, anche in questo caso con una gravissima compressione delle libertà personali, non controbilanciata da effettivi vantaggi in termini di lotta alla clandestinità: è infatti ormai pacifico che la questione della identificazione dell’extracomunitario – che normalmente viene portata a giustificazione del trattenimento – può essere portata a soluzione solo con una forte attività diplomatica per accordi con i paesi interessati, non certo prolungando una forma di carcerazione che, oltretutto, se davvero la questione potesse essere affrontata con lo strumento delle impronte digitali, risulterebbe doppiamente ingiustificata.


Rifugiati a casa loro

Resta solo da ricordare che l’intervento più restrittivo appare quello nella delicatissima materia dello status di rifugiato politico e del diritto di asilo: due questioni (nient’affatto sovrapponibili, essendo il diritto di asilo più ampio del diritto allo status di rifugiato: ma persino questa elementare distinzione sembra ignorata dal legislatore) che andrebbero considerate – queste sì – nell’ottica esclusiva della accoglienza e della tutela universale dei diritti umani e che vengono qui invece trattate con l’accetta: completo abbandono di un precedente e organico progetto di legge sull’asilo, approvato da un ramo del Parlamento nella precedente legislatura; possibilità che il richiedente venga anch’esso rinchiuso in un centro di permanenza temporaneo; sommarietà dell’esame della richiesta; in caso di diniego, espulsione immediata anche se è pendente il ricorso giudiziario contro la decisione. Ce n’è abbastanza per svuotare di ogni significato l’art.10, comma 3 Cost. che solennemente riconosce il diritto di asilo sul nostro territorio a tutti coloro che si vedano impedire, in patria, l’esercizio delle libertà democratiche.

 

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