Appunti 2_2008
La nuova Russia negli equilibri mondiali
› Massimo De Giuseppe
Il ritorno ad una politica globale da parte di Mosca, dopo anni di ripiegamento strategico, è il frutto del boom del prezzo degli idrocarburi ma anche di un processo di ricompattamento interno e dell’articolarsi degli scenari internazionali. Le recenti decise prese di posizione di Putin nei confronti della politica di allargamento a Est della Nato ed il braccio di ferro energetico con l’Ue, sono segnali di un cambiamento in atto. Una politica di pressioni basata solo sull’arma energetica presenta evidenti limiti, in particolare di tenuta sul medio-lungo periodo. Certo è però che nell’ultimo triennio il panorama degli equilibri globali è mutato e che gli strateghi della foreign policy statunitense, sempre più sensibili alla dimensione militare della loro presenza globale, devono tornare a fare i conti anche con la storica rivale del «secolo breve», non solo in campo geopolitico ma anche sul fronte della tecnologia bellica.
Nel corso dell’ultimo biennio i media occidentali hanno frequentemente flirtato con l’idea di un ritorno ad un clima di «guerra fredda» tra Mosca e l’Occidente. Dapprima le tensioni per le forniture di idrocarburi che hanno contrapposto la Gazprom alle «dissidenti» Georgia e Ucraina (gennaio 2006) hanno avuto grande eco sulla stampa, evidenziando la dipendenza europea dal gas russo1. Quindi sono seguite (ottobre 2006) le proteste per la misteriosa uccisione della giornalista Anna Politkovskaja, nota per i suoi reportage scomodi sulla Cecenia. A colorare i toni sono poi intervenuti gli scambi di accuse, in stile «guerra di spie», tra Londra e Mosca, intorno alla torbida vicenda Litvinenko (con anche un pizzico di condimento in salsa napoletana).
Dietro ai proclami, alle minacce incrociate e ai dispetti diplomatici sono emerse però una serie di questioni di fondo irrisolte, sia di natura geopolitica che strategico-militare. Le querelle che riguardano il Kosovo nei Balcani, l’Ossezia e l’Abkhazia in Caucaso (senza dimenticare Kaliningrad nel Baltico e la Transistria in Moldavia) sembrano infatti essersi estese, lungo le rotte di oleodotti e gasdotti, fino all’Asia centrale e, indirettamente, al Medio Oriente. Al contempo il progetto di rinnovamento strategico e ammodernamento tecnologico degli arsenali nucleari, sia russi che statunitensi, si è intrecciato all’avanzata della Nato ad Est, al rafforzamento dell’alleanza tra Mosca e Pechino ed alla ridefinizione degli assetti delle forze convenzionali.
L’abbandono russo-statunitense, compiuto nel giugno 2002 (a 30 anni dalla sua firma), del Trattato Abm — che puntava a prevenire un’eventuale escalation nucleare attraverso un controllo dei sistema di difesa contro i missili intercontinentali (Icbm) — è stato il primo atto di un processo di demolizione consensuale dell’impianto di sicurezza collettiva consolidatosi negli anni della distensione bipolare. Questo ha innescato, nel silenzio generale dei grandi network dell’informazione, un processo centrifugo che da un lato ha condotto l’amministrazione Bush ad elaborare un piano come quello dello «scudo spaziale» (che ha subito trovato interlocutori disponibili in due giovani membri dell’Ue, la Repubblica Ceca e la Polonia dei gemelli Kaczynski); dall’altro ha permesso a Mosca di sentirsi sempre più svincolata dagli obblighi presi nella fase terminale della guerra fredda, fino ad autosospendersi, dall’autunno del 2007, dal Trattato sulle Forze convenzionali in Europa (Cfe), firmato a Parigi nel 1990.
Un graduale ricompattamento interno
Al di là delle suggestioni giornalistiche, un dato è certo; forte delle sue esportazioni di gas ma anche del controllo di altre materie prime strategiche, sempre più scarse e preziose (petrolio, diamanti, acqua2), la Russia di Putin, è tornata ad affacciarsi in modo dinamico sullo scenario internazionale. Importante in questo senso è stata indubbiamente l’opera di rafforzamento interno messa in atto dal presidente, in carica dal 31 dicembre 1999, attraverso un processo di centralizzazione istituzionale che ha permesso, per diverse vie, il controllo delle periferie ribelli e di quelli che un tempo si definivano i «corpi della nazione». Mosca non ha esitato infatti a ricorrere a misure drastiche, nel varo di riforme istituzionali, appoggiandosi su «uomini forti» locali, «russificando» la lezione occidentale della lotta al terrorismo, consolidando gruppi di potere fedeli al Cremlino e ricorrendo anche alle forze armate, come hanno dimostrato i casi della Cecenia, del Daghestan e, più recentemente, dell’Inguscezia. Putin ha però saputo giocare con abile spregiudicatezza anche la carta di un ritorno al nazionalismo russo, attraversando gli steccati ideologici pre e post-rivoluzionari e adattandoli al linguaggio e al clima della politica de-ideologizzata di questi anni globali. In quest’opera radicale di semplificazione, il presidente ha puntato a incarnare il ruolo di chi sa offrire ai russi quelle certezze di cui andavano in cerca dalla disgregazione dell’Urss, giocando molto sui simboli, sulle paure e sulla capacità di smuovere un immaginario fortemente stratificato.
Il nodo centrale della partita interna russa si è però legato al controllo nazionale delle risorse energetiche. Qui si è combattuta la vera partita politico-economica, fin dalla seconda fase del primo mandato presidenziale di Putin, quando venne chiaramente alla luce che la turbolenta transizione eltsiniana, sconvolta dalla crisi finanziaria del 1997 e da un processo di privatizzazioni accelerato, stava giungendo ad una svolta3. La battaglia che per anni ha contrapposto il Cremlino agli «oligarchi» emersi nella caotica stagione di postsovietizzazione si è combattuta su più fronti, a livello azionario e giudiziario, dipanandosi tra Mosca, Londra, New York, il Caucaso e la Siberia. A partire dal secondo mandato di Putin (14 marzo 2004) è però emerso un chiaro vincitore: la Gazprom4. Dopo aver riassorbito le varie Jukos e Russnet, quest’ultima è diventata nel 2007 la prima azienda al mondo per produzione di gas naturale. Da qui il rapido riconsolidamento politico che ha concentrato nel partito Russia unita un blocco di potere solidissimo. Attorno a questo si sono poste le basi per preparare la successione presidenziale che ha individuato nel prossimo leader proprio il presidente uscente di Gazprom, Dimitri Medvedev (eletto il 2 marzo 2008).
L’Asia centrale
Quando Giulio Verne, in piena «età degli imperi», si inventò la storia di Michele Strogoff, il corriere che doveva attraversare a piedi, cavallo, su carretti e zattere, tutta la Russia asiatica per avvertire il fratello dello zar dell’invasione dei tartari, ci raccontava le suggestioni esotiche di un paese non completamente decifrabile per l’Europa della seconda rivoluzione industriale. Un tema richiamato in anni più recenti dal Nobel Andrej Sakharov riguardo all’atteggiamento dei media europei verso la Russia contemporanea. Gli studiosi di storia dell’impero zarista, così come quelli dell’Urss, hanno sempre sottolineato la natura profondamente bicefala della politica estera russa, rivolta all’Europa da un lato e all’Asia dall’altro. Il Great Game con la Gran Bretagna tra XVIII e XIX secolo ne è stato un chiaro esempio ma anche gli equilibri nella stagione del containment statunitense hanno dovuto fare i conti con questa naturale propensione. Le prime serie difficoltà nella gestione di una politica asiatica sono emerse per l’Urss in seguito alla rottura con la Cina maoista, maturata nella seconda fase khruscioviana. Si sarebbe innescato allora un processo di ridefinizione strategica, in linea con i dettami della «dottrina Breznev», destinato a implodere alle soglie della seconda guerra fredda, con la controversa invasione dell’Afghanistan5. Con il crollo dell’Urss, le spinte separatiste islamiche nel Caucaso, l’avanzata del wahabismo in Asia ed il parto difficile della Csi, Mosca ha subito un pesante ridimensionamento. Il primo atto della politica estera statunitense dopo l’attacco alle torri gemelle, l’intervento in Afghanistan dell’inverno 2001, è stato preceduto, accompagnato e seguito da un’intensa attività da parte di Washington: alla ricerca di nuovi interlocutori, nonché di basi logistiche per le truppe impegnate nell’operazione Enduring Freedom e quindi nella missione Isaf della Nato. Sembrava l’atto conclusivo del contenimento regionale delle ambizione russe.
Nell’ultimo triennio però qualcosa è mutato e piuttosto profondamente. In primo luogo Washington ha visto gradualmente ridursi il bacino di consensi alla propria presenza centro-asiatica, perdendo via via le basi ottenute fuori dall’Afghanistan. Al contempo Mosca ha rinsaldato i suoi legami con le ex Repubbliche sovietiche. Emblematico al riguardo è apparso il fallimento del piano di allontanamento da Mosca intentato dal Kirghizistan, dove la rivoluzione «dei tulipani» (epiteto coniato dai media statunitensi, per cercare di sfruttare l’onda mediatico-emozionale delle rivoluzioni «delle rose» e «arancione» in Georgia e Ucraina) è rapidamente rientrata.
Al centro della ridefinzione degli equilibri centro-asiatici vi è oggi il nuovo asse costituitosi tra Mosca e Pechino; un percorso iniziato nel 2004 con un trasferimento di 1,4 miliardi di dollari in armamenti tattici russi e che è culminato nel protocollo d’intesa sui corridoi energetici del marzo 2007, che ha permesso ai russi di ottenere il sostegno cinese (oltre a quello europeo, seguito alla ratifica del Protocollo di Kyoto) per un futuro ingresso del paese nel Wto. Sotto un profilo strategico, il passaggio più importante è venuto dal rafforzamento della Cooperazione di Shanghai (Sco). Questa (che riunisce Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan ed Uzbekistan) è nata nel 2001 (erede dei Shanghai Five) come organizzazione intergovernativa di mutua sicurezza, con l’obiettivo di garantire una collaborazione sul fronte della lotta al terrorismo, del controllo incrociato dei separatismi e dei movimenti estremisti. In realtà, almeno a partire dal summit di Tashkent del 2004, la Sco è andata trasformandosi sempre più in un’alleanza strategica. Il vertice di Bishkek dell’agosto 2007 ha pubblicamente esplicitato questo salto di qualità, evidenziando il consolidamento di una cooperazione sia economica che tecnico-militare.
Il dato più significativo legato alla nascita di un’ipotetica «anti-Nato» in Asia, va però letto in una prospettiva di lungo periodo, dal momento che la Sco sta cercando di aprirsi a paesi particolarmente importanti negli equilibri strategici internazionali. Invitati come «osservatori» agli ultimi due summit erano infatti: India, Mongolia, Pakistan e Iran. Mentre insomma l’amministrazione Bush cerca di riposizionare le sue basi nell’Est europeo, puntando ad avvicinare alla Nato Georgia e Ucraina, Putin e Hu Jintao hanno iniziato una vasta e non certo semplice operazione di ricucitura delle alleanze asiatiche, puntando su una regione che è una storica «cinghia di trasmissione» tra l’Estremo ed il Medio Oriente.
Il Medio Oriente
Questo ci spinge a tentare una breve e schematica riflessione anche sul ritorno della diplomazia del Cremlino nell’area del Golfo e mediorientale, altro terminale storico della politica estera russa, già ben prima della crisi dell’impero ottomano. Anche qui i segnali sono molti: dai viaggi a Mosca del leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, al riavvicinamento russo al suo partner storico regionale, la Siria; dall’appoggio «esterno» al processo di rilancio della Lega Araba, alla cautela intorno alla querelle nucleare iraniana. Anche in questo caso gli idrocarburi giocano un ruolo importante ma non certo esclusivo, come si evince dalle recenti prese di posizione in Consiglio di sicurezza, dove la capacità negoziale di Mosca sembra essere cresciuta, sia rispetto agli anni di Eltsin che ai tentativi di interdizione della Preventive War in Iraq del 2003. Non a caso Mosca appare oggi più debole negozialmente in Europa (come ha recentemente dimostrato la vicenda kosovara e l’imminente ingresso croato e albanese nella Nato) che in Asia e Medio oriente.
Per quanto concerne l’Iran, il presidente russo ha tenuto abilmente in sospeso l’accordo stipulato con Teheran per l’ammodernamento della centrale nucleare di Bhushear, in attesa dell’evoluzione delle negoziazioni tra il regime degli ayatollah e gli esperti dell’Aiea. Particolarmente significativo è stato poi il viaggio dell’ottobre 2007 di Putin a Teheran, il primo di un capo di Stato russo da quando Stalin varcò il Caucaso per partecipare alla Conferenza delle United Nations dell’inverno 1943. Nella capitale iraniana il leader del Cremlino è giunto per presenziare al Summit del Caspio, a margine del quale ha ventilato la possibilità della nascita di un’altra organizzazione per la sicurezza, definendo «inaccettabile» qualsiasi ricorso alla forza nella regione da parte di soggetti «esterni». Il non troppo criptico riferimento andava ad un eventuale intervento armato statunitense contro l’Iran ma anche ad un eccessivo interessamento — tramite la «porta caucasica» della Georgia — all’area azera, snodo cruciale di pipelines e gasdotti. Una guerra di parole certo che però, questa sì, ha richiamato le logiche della stagione della deterrenza, almeno per quanto concerne una sua rilettura tattica regionale.
Infine, se Putin si è dimostrato scettico di fronte alla proposta, presentata da Ahmadinejad e Chávez, di spingere per la creazione di un’organizzazione internazionale dei produttori di gas, Mosca non ha mancato di continuare a stringere alleanze strategiche sul fronte degli idrocarburi. Mentre Gheddafi dialogava con Usa e Ue, la Russia firmava nel 2007 un importante accordo con l’Algeria di Bouteflika.
Armamenti e speranze di pace in Europa
«E così il professore accese la luce e si guardò intorno. Accese anche il riflettore sul lungo tavolo degli esperimenti, indossò un camice bianco e fece tintinnare alcuni strumenti che si trovavano sul tavolo …»6. Così Bulgakov iniziava un capitolo decisivo del suo racconto fantascientifico Le uova fatali. Erano gli anni della Nep e quella storiellina di uno scienziato che scopriva un misterioso raggio rosso, vagamente ispirata alle fantastichierie meccaniche del britannico H.G.Wells, apriva in realtà un profondo dibattito sul rapporto tra scienza e politica nella neonata Unione Sovietica. Il tema è interessante perché gli studiosi della guerra fredda sanno bene quanto le dinamiche interrelazionali tra comunità scientifica e mondo politico, specie dopo l’ingresso nell’era atomica, si siano dipanate non necessariamente in modo speculare nei due blocchi contrapposti. Le stagione dello Sputnik, della Mad, della «mirvizzazione» delle testate nucleari lo hanno confermato puntualmente. Ora nessuno sembra più interrogarsi a fondo su questi temi, eppure così come le dinamiche del sistema economico russo sono profondamente mutate, in parte lo ha fatto anche la gestione strategica e tecnica degli arsenali nucleari e convenzionali.
Cruciale in tutto ciò resta quindi la partita della spinta ad Est della Nato. Nell’ultimo triennio, ogni volta che Bush jr. è arrivato in Europa, la Nato sembrava il punto prioritario della sua agenda. Il copione si è sempre ripetuto: grandi proclami con i partner orientali, reciproci scambi di accuse con Mosca, quindi riconciliazione pubblica in occasione di vertici multilaterali o summit dei G8. Una pantomima programmata? Forse, almeno in parte. Eppure se si presta attenzione ai modi e ai tempi delle critiche russe allo «scudo spaziale», alcuni segni di mutamenti dei toni e della sostanza sono apparsi con maggiore evidenza. Nella primavera del 2007 ad esempio, all’indomani della fallimentare visita moscovita di Robert Gates, Putin ha esplicitamente citato gli Usa, definendo «aggressiva» la loro politica estera in Europa orientale e minacciando l’uscita della Russia dal Trattato Cfe. Pochi mesi dopo questa promessa era fatto compiuto, ratificato dalla duma il 12 dicembre e dal Consiglio federale pochi giorni dopo. Forte della sua ripresa economica, la Russia ha ripreso a investire nella ricerca in campo militare, sia sul fronte convenzionale che nucleare. Lo scorso maggio, mentre il Pentagono discuteva dei super-radar da dislocare in Polonia e Repubblica Ceca, Mosca sperimentava un missile di nuova generazione, RS-24, di tipo Mirv pluritestata. I due paesi hanno snobbato il tribunale penale internazionale ma anche il summit di Oslo sulle Cluster bombs e l’appello sul controllo delle «armi leggere». Le partite a scacchi rischiano dunque di ridar vita ad un’escalation di riarmo a più livelli, in un contesto che però, paradossalmente, non ha più i limiti e le regole costruite per gradi nelle diverse fasi di riassestamento della guerra fredda.
E in tutto ciò dov’è finita l’Europa? A 15 anni dalla fine del bipolarismo, il «vecchio continente» continua restare uno snodo centrale del pragmatismo delle politiche russo-statunitensi, pagando lo scotto dell’assenza di una politica estera comunitaria, proprio mentre l’impianto di Helsinki ’75 comincia a scricchiolare. Nelle relazioni con l’alleato statunitense gli europei sembrano incapaci di staccarsi dal passato (la questione delle basi). In quelle con Mosca pesa la vulnerabilità sul fronte delle importazioni di gas. Forse, come ha ricordato il già citato Sakharov, anche agli europei conviene ricordare una cosa: l’importanza di uscire dagli schemi mediatici precostituiti e di provare a capire in profondità la natura e la storia dei propri interlocutori esterni. Forse il passaggio verso una logica della sicurezza pan-europea, più democraticamente partecipata, passa anche da qui.
1 Il gas russo copre quasi il 100% del fabbisogno di Serbia, Bulgaria, Moldavia e Finlandia, il 75% dell’Austria, il 72% della Grecia, il 69% di Ungheria, Romania e Cekia, il 60% della Turchia, il 58% della Polonia, il 33% della Germania ed il 26% di Francia e Italia. Sul tema: G. Nicchia, The Energy issue in the UE-Russia relations, Es, Napoli 2008.
2 Secondo il rapporto Undp — Beyond Scarcity: Power, Poverty and the Global Water Crisis, Undp, New York 2006 — la Russia controlla le più grandi riserve acquifere del pianeta.
3 Si veda S. Lovell, Destinazione incerta. La Russia dal 1989, tr. It., Edt, Torino 2008 e F. Benvenuti, La Russia dopo l’Urss, Carocci, Roma 2007.
4 La privatizzazione della Gazprom iniziò nel 1993. Attualmente il pacchetto azionario è controllato dallo Stato per il 38,37%, cui vanno aggiunte le quote di una serie di altre società pubbliche. La Bank of New York detiene il 4,42%.
5 R. Risaliti, La Russia: dalle guerre coloniali alla disgregazione dell’Urss, Bruno Mondadori, Milano 2007.
6 M. Bulgakov, Le uova fatali, tr. it., Newton, Roma 1993, p. 23.